martedì 26 settembre 2017

QUALCOSA DI PERSONALE

26 settembre 1997, ore 11.40. Giornata di sole. Jesi, via Roma sede del PDS. In una stanza io, il compagno Gigetto e il compagno Enrico. Si chiacchiera del più e del meno, probabilmente si fanno i conti della festa de l'Unità, terminata da poco. Il pavimento, la scrivania e il poco mobilio iniziamo ad oscillare, come se si stesse su un canotto in mezzo al mare. Rimaniamo inchiodati, gelati sulle sedia, per secondi interminabili, probabilmente c'è scappato il bestemmione, contestuale alla intima preghiera a S. Settimio, patrono di Jesi, protettore dal terremoto; "sgrullerà ma non cascherà" dice il detto popolare riferito alla città. Finita la scossa usciamo all'aperto, abbastanza frastornati. Incontro Figo, all’anagrafe Federico. Dice che stava dal barbiere, e che era scappato per strada via con la tovaglia intorno al collo e lo shampoo sui capelli. Non ci sono i social, non c'è internet. Il telegiornale a pranzo dice che c'è stato un terremoto tremendo tra Marche ed Umbria, 6.0, dopo una forte scossa della notte che non avevo, uno dei pochi, sentito; facevo tardi al bar, la sera, in quei tempi. Nel primo pomeriggio arriva la telefonata di mia madre, c'erano però già i primi Motorola. Stavano a Falcioni, 28 km da Jesi. Piange (mia madre nei momenti topici, anche quelli superlativi, piange sempre, come mia nonna). Dice che casa è venuta giù, è un disastro. Sono frastornato. Parto, prendo la fiesta e arrivo a Falcioni; non ci andavo tanto spesso, era la seconda casa dei miei, che oramai per loro era diventata la prima. Io ci andavo ogni tanto di notte, per le spaghettate e le svinate (soprattutto le ultime) con gli amici.  Arrivo, sono tutti per strada. Le case sono quasi tutte danneggiate. Casa fuori ha molte crepe e ci sono calcinacci. Entro, incautamente. Mia madre fuori continua a piangere. Babbo non parla, è molto serio. Salgo le scale, crepe, calcinacci. Arrivo sopra alle camere. Dal tetto entra la luce del sole. È crollato, c'è un buco enorme e le travi spezzate, come se ci fosse cascata una bomba. Scendo. Esco. Rassicuro i miei. Dai, che la rimettiamo in piedi. Dopo 24 ore arrivano i tecnici per la verifica: inagibile; casa rossa, più che zona rossa. Da quel momento parte un percorso lungo, quello della ricostruzione. Col senno di poi, a vedere la situazione di oggi, manco tanto lungo. Il Presidente della Regione era Vito D’Ambrosio, un galantuomo, un antifascista, magistrato, incasellato nella generazione dei “pretori d’assalto”, che indagavano su scandali e corruzione pubblica molto prima di Tangentopoli. I miei tornano stabilmente a Jesi, io nel frattempo parto per altre avventure. Confesso che ho seguito a distanza e con scarsa partecipazione quegli anni. Parte l'iter della ricostruzione, progetto, conto dedicato e tutta la solfa, carte su carte. Contributo del 50% per la ricostruzione, era una seconda casa. Mio padre la ritira su, il suo lavoro di vecchio muratore si aggiunge a quello dell'impresa, probabilmente quello determinante nella direzione e tempistica dei lavori. La casa in 5/6 anni da quel giorno di settembre è di nuovo fatta. Alla fine, conti alla mano, per rimetterla come è oggi, mio padre ci ha messo sopra del suo, e non di poco, rispetto al contributo del 50%. Nel mentre, era arrivato l'avviso di garanzia a mio padre. Il geometra del Comune l'aveva denunciato perché, secondo lui, aveva preso indebitamente i contributi per la ricostruzione; probabilmente al geometra era rimasto fuori qualche progetto di amici degli amici… Ipotesi di reato, truffa ai danni dello Stato. Inizia il processo. Cinque anni di udienze, con i miei trasfigurati ad ogni udienza. Arriva la sentenza: archiviazione perché il fatto non sussiste. Nel frattempo, il geometra del Comune, era stato arrestato all'alba una mattina dai carabinieri, mentre scappava in mezzo ad un campo, con dei rotoli di progetti sottobraccio, insieme ad una collega (l'amante dicono le malelingue di qui), per delle porcate che aveva combinato in Comune. Due anni fa il geometra è morto. La politica e le istituzioni locali l'hanno pianto molto; io no. Mio padre oggi ha 83 anni, sta benino. Lui e mamma hanno lasciato Jesi, adesso abitano a 100 metri da casa mia. Gli ultimi risparmi di una vita di lavoro l'hanno spesi per comprarci una casetta qui a Falcioni. In quella terremotata nel '97 adesso ci abito io. Laura, quando la vide in un tramonto di settembre, mi disse che voleva vivere qui; io pure c’avevo da tempo fatto un pensiero. Adesso Falcioni è diventata la nostra finis terrae; provvisoria come direbbe Franco Arminio. In Patagonia, lungo la Ruta 40 ci andremo più in là... Qui abbiamo fatto il 24 agosto, il 26 ottobre, il 30 ottobre 2016 e il 18 gennaio 2017. Siamo scappati fuori di casa in pigiama, abbiamo dormito in macchina, e per mesi a piano terra, sul sobrio divano letto ikea. La frazione le ha prese di nuovo, due terzi delle case danneggiate, dieci sfollati per inagibilità su 40 abitanti. Il Comune sta fuori dal cratere, per scelta; perché qui vige il “prima le Grotte (di Frasassi) e poi i bambini”. Casa nostra è integra; quella accanto alla nostra è puntellata; rimarrà così per almeno vent'anni, perché qui, come si dice, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia; la politica locale è la stessa del 26 settembre di vent'anni fa. Quella che commemora la memoria di un mascalzone, di uno che, anziché servire lo Stato, fugge nei campi con la borsa. Io e Laura rimaniamo qua, c'è pure Broz adesso (lui si occupa della sicurezza, e non solo). Si, si chiama come Josip Broz Tito, così è chiaro come la penso su certe questioni. Ogni tanto ci stanno anche Chiara e Jacopo; loro sono cervelli, per giusta causa, in fuga. Vivere qui, sull’Appennino, in una piccola comunità, ti fa guardare le cose in maniera differente; amplifica a approfondisce sensazioni, valori e radici che già c’erano. Io non so ancora, vent'anni dopo, se sto realizzando un desiderio o scacciando l'incubo di un tetto scoperchiato Comunque sto sperimentando una nuova visione di democrazia e di comunità. Mi diranno, un giorno. 

domenica 3 settembre 2017

LA NOTIZIA ARRIVO' IN UN BALENO

Lo scorso 8 luglio è stato un bel pomeriggio a Sassoferrato e per Sassoferrato, che grazie alla scrittura di Loredana Lipperini, autrice di “L’Arrivo di Saturno”, ha ritrovato la vita e la carica ideale di due persone care alla città come Italo Toni e Graziella De Palo. C’era la Sala Ottoni piena, c’erano i familiari di Italo, il fratello Aldo, il cugino Alvaro Rossi, il nipote e la cognata. Oggi ricorre il 37° anniversario della scomparsa di Graziella ed Italo, usciti quella mattina da un albergo di Beirut, e poi spariti. Una storia che ancora oggi, purtroppo, per primo nelle Marche, è scarsamente conosciuta. E di conseguenza, dopo 37 anni, è una Memoria che ha ancora bisogno di essere costruita. E sarebbe importante e significativo se, sull’emozione di un pomeriggio d’estate a Palazzo Ottoni, la Città di Sassoferrato scegliesse a breve, oramai per il prossimo anniversario, di dare un segno concreto e visibile, alla costruzione di questa Memoria, e alla vita, alla passione e alla professionalità di due italiani come Graziella De Palo e Italo Toni; entrambi, allo stato civile, tutt’ora scomparsi.
C’è bisogno di segni concreti per sentire la Memoria, c’è bisogno di un luogo, uno spazio, un contenitore pubblico, dove i parenti e i cittadini possano ricordare due persone care, non avendo una tomba, una lapide su cui appoggiare un mazzo di fiori. Perché Sassoferrato, è stata ed è la città di Italo Toni, scomparso in Libano insieme alla collega ed ex compagna Graziella De Palo, il 2 settembre 1980.
Di loro ad oggi non si è saputo più nulla. Sulla loro vicenda Craxi, Presidente del Consiglio, allora mise il Segreto di Stato, parzialmente rimosso solo nel 2015. Erano quelli gli anni, di un’Italia in cui era facile sparire. Era, quella del 2 settembre 1980, quando Graziella ed Italo scompaiono, un’Italia ancora sgomenta e provata dalla strage della stazione di Bologna giusto il mese prima, e da lunghi anni di stragismo e terrorismo; che neanche si accorge che due giornalisti quella mattina, usciti da un hotel di Beirut, non vi faranno più ritorno, diventando, anche loro, uno dei tanti “misteri d’Italia”. E probabilmente, il “più mistero di tutti”.
Graziella e Italo erano andati in Libano, perché seguivano delle tracce che avevano a che fare con la strage di Bologna, con traffici di armi, con servizi segreti, con l’OLP, con palestinesi e fascisti, con le stragi dei treni e Ustica. E, soprattutto, con il “Lodo Moro”. Ovvero, quel patto tacito e mai scritto, ma mai smentito, tra lo statista DC e i servizi segreti palestinesi, in cui lo Stato avrebbe consentito, chiudendo un occhio, il passaggio di flussi di armi attraverso il nostro Paese, in cambio che in Italia non avvenissero attentati di matrice mediorientale. Un patto che ha retto e che, a guardare bene, regge anche oggi…
Ma Graziella ed Italo, avevano intuito che a Bologna il 2 agosto, qualcosa di quel patto, non aveva funzionato. E avevano deciso di partire per Beirut. Aldo Toni, fratello di Italo, e Alvaro Rossi, il cugino del giornalista: loro per decenni hanno lottato per conoscere la Verità, hanno incontrato Pertini, il Papa, Arafat, Presidenti del Consiglio e Ministri, alti e oscuri funzionari e faccendieri dei servizi segreti; hanno cercato di tenere viva una memoria; Alvaro ha creato un sito e scritto un libro inchiesta anni fa.  “Poi a un certo punto – ammette con sofferenza Alvaro – mi sono fermato, quando ho capito che essere “il parente delle vittime”, stava diventando un lavoro“.
Perché in Italia è così, si può restare “parenti delle vittime” per sempre. I parenti e gli amici di Italo e Graziella, forse, oggi hanno fatto i conti, quelli privati, quelli dell’anima, con questa dolorosa vicenda. Chi non ha fatto ancora i conti con la storia d’Italo e di Graziella (non ha voluto?, non ha potuto?, non ha saputo?) è l’Italia, lo Stato, la Repubblica, come con tante altre, passate e più recenti, drammatiche vicende. Perché, come scrive Loredana Lipperini, l’autrice del libro “L’Arrivo di Saturno”, “tutti i romanzi mentono, ma chi ha mentito nel mondo reale non lo ha fatto per raccontare, bensì per far dimenticare“.

2 settembre 2017


venerdì 1 settembre 2017

ERA UN MONDO ADULTO SI SBAGLIAVA DA PROFESSIONISTI

‘Nessuno ci ha chiesto cosa volevamo fare’; ‘Hanno deciso sopra le teste della gente del paese, non sappiamo mai nulla, nessuno è stato coinvolto’; ‘Abbiamo una grande ragione per rimanere qui e mille per andarcene’.

A leggerli, questi pensieri, si potrebbe attribuirli a quelle che un famoso sociologo, di giovanile militanza eversiva, ha definito “comunità rancorose”; genti marchigiane indigene, abitanti l’Appennino terremotato. Oppure a esponenti incarogniti di qualche comitato. O alle “tribù”, a cui una nota fondazione economica marchigiana vuol spiegare, e imporre, “il come” si fanno rinascere queste zone dell’Italia centrale, piegate dal terremoto dodici mesi fa, ma cannibalizzate per decenni dal distretto industriale di un “capitalismo dolce”.

E invece no, quelli sopra sono i pensieri di alcuni ragazzi e ragazze di Arquata del Tronto, che hanno tutti intorno a vent’anni, e che da un anno animano una pagina Facebook che si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the dust”. Si definiscono “un gruppo di ragazzi colpiti dal terremoto del 24 agosto nella zona del centro Italia, abbiamo la fortuna di poter raccontare la nostra esperienza e l'unico nostro obbiettivo è non cadere nel dimenticatoio e poter descrivere a tutti com'era, com'è e come secondo noi sarà il nostro territorio che se pur ferito ha una forza d'animo da poter trasformare il voler fare nel poter fare.” Il loro slogan è “Chi dimentica è complice”.

Li ho conosciuti un anno fa, e alcuni li ho ritrovati qualche giorno fa; sui social non li ho persi mai di vista, sulla pelle li ho sentiti sempre vicini.

Scrivono, informano, raccontano, si tengono stretti tra loro, sballottati qua e là sulla costa o in pianura, dopo l’esplosione sismica del loro paese.

Non hanno titoli accademici, non fanno i conferenzieri a gettone, non coniano espressioni del cazzo come “capitalismo dolce” e “sociologia delle macerie”.

Però, alla fine, sono gli unici che hanno presente, in questo anno che è passato da quel 24 agosto, e contrariamente ad un mondo adulto e alla filiera dei soggetti decisori, ed al di là dell’emergenza, della devastazione, delle inefficienze e dei ritardi, della mancanza di una visione della ricostruzione, qual’è il nodo vero che le crepe dell’Appennino hanno fatto affiorare: la mancanza, colposa o dolosa (agli esperti l’ardua sentenza), di reali pratiche di partecipazione democratiche nei territori colpiti dal sisma.

Passaggi fatti di informazione, ascolto, coinvolgimento, mediazione, sintesi e decisione condivisa. Quelli che riescono a far sentire, anche chi ha perso tutto, e da un anno stenta a vedersi nel lungo periodo, meno solo, meno abbandonato, meno disperato. E che servono a preservare in ciascuno i valori della dignità, della cittadinanza, di un senso di appartenenza ad una comunità civile più ampia.

Se questi giovani non verranno sopraffatti alla lunga dalla #strategiadellabbandono, e sapranno resistere, insieme a tanti altri sparsi sull’Appennino, saranno loro i veri artefici della ricostruzione; ma non tanto e solo di quella materiale, ma di un’idea di territorio e di comunità, e di ripristino di normali pratiche di democrazia, come sono quelle che fondano il loro riunirsi ed essere semplicemente comunità di giovani donne e uomini, e non associazione, comitato, o altro soggetto organizzato.

La #strategiadellabbandono, dopo un anno ha sempre nuove lusinghe, fondate su un “IO” (pubblico o privato) che decide e impone (e solo quando va bene comunica) cosa va fatto per il bene del territorio e di tutti; “IO” decido che ti deporto, IO decido quale economia e lavoro sulla montagna, IO decido quale ricostruzione, IO decido che il tuo paese non può essere ricostruito, etc etc. E molte volte lo fa anche inventandosi perlopiù puttanate finalizzate a riempire qualche saccoccia, spesso sempre le stesse. L’antidoto è la rimessa in campo di un “noi” e di un “insieme”.

Ma è uno scatto che deve fare anche il genius loci, superando piccoli e arcaici egoismi, opportunismi, rendite di posizione, lasciandosi contaminare da innesti che hanno scelto di vivere sull’Appennino come fatto valoriale e non pecuniario, dandosi una classe dirigente locale migliore e più all’altezza delle sfide, isolando una volta per tutte quelli che Franco Arminio chiama “gli scoraggiatori militanti.

“Bisogna andare avanti e ricostruire meglio di prima”; “Valorizzando il nostro paesaggio”; “Si potrebbe puntare la ricostruzione sul turismo”; “E quindi anche su un’economia che prima non c’era”; “Deve vivere di questo, non di centri commerciali”.
Eccoli qua i ragazzi di Chiedi alla Polvere, hanno le idee chiare e, soprattutto, sono integri. Al contrario di altri, corrosi da qualche ideologia perduta, o avvezzi alla marchetta istituzionale.


L’Appennino può contare su di loro. Deve.