sabato 30 giugno 2018

QUELLI CHE NON


Qui, come altrove, i turisti non servono a niente. Qui c’è bisogno di nuovi abitanti, di qualche panchina per i vecchi e di un altalena per i sei bambini. Qui c’è bisogno di censire i ruderi, metterli in sicurezza o demolirli, di rendere di nuovo abitabili case dismesse da anni. Qui c’è bisogno della metanizzazione e della banda larga, anziché della superstrada. Qui c’è bisogno che le macchine rispettino il limite dei trenta chilometri orari, che quelli che passano in bicicletta non buttino fialette, bottigliette, incarti per terra, che gli escursionisti e i climbers pensino che non stanno in una parco divertimenti all’aperto, ma in luoghi che sono di tutti, comprese le bestie. Qui c’è bisogno che se fa un po’ di neve, oltre a scansarla si butti anche il sale o il breccino, perché alle quattro c’è chi si sveglia per andare al lavoro. Qui, come altrove, i turisti non servono. Perché il turismo è un’industria. E come tale non può essere “slow” o “responsabile”. Perché l’attività industriale ha bisogno di consumare risorse naturali e materie prime, sennò non produce. E qui, l’industria ha già consumato molto; e molto di più di quello che ha prodotto. Qui anche la politica non serve a niente. Perché ha pensato e pensa solo ai turisti, ma non agli abitanti. Qui, come altrove, i turisti non servono. Qui servono i viaggiatori e i villeggianti. Quelli che si chiedono dove saranno migrati i caprioli scacciati dal bosco dalle ruspe dei cantieri stradali. Quelli che si chiedono, quando ritornano d’estate, se sarà ancora vivo il vecchio che viveva accanto casa dei loro nonni. Qui, come altrove, serve nuovo umanesimo. I turisti sono disumani. Sono quelli che calpestano i fiori delle lenticchie di Castelluccio, che parcheggiano le macchine sui prati per sentire un concerto, che si fanno un selfie sulle macerie dei terremoti, che toccano con le dita un quadro in un museo e le stalagmiti di una grotta, che entrano in un luogo sacro vestiti per la spiaggia, che vanno nel Canal Grande su una nave da crociera. Sono anche quelli che, imperturbabili, fanno acquagym sul bagnasciuga, davanti ad una nave carica di migranti a cui viene negato l’accesso al porto. Sulla battigia, la disumanità. In mezzo al mare, l’umanità. Quella di cui c’è bisogno anche qui.


venerdì 15 giugno 2018

LA STRADA DEL PAPA RE


E’ curioso che la Strada Clementina, fatta costruire nel 1733 dal Papa-Re Clemente XII, come allora moderna infrastruttura pubblica per collegare il porto di Ancona a Roma (si innestava infatti alla Flaminia a nord di Nocera Umbra), sia stata di fatto privatizzata da anni dai Sindaci dell’Italia Repubblicana. Infatti, quelli di una certa età oramai, ricorderanno che prima della realizzazione della superstrada tra Ancona e Fabriano, per raggiungere la Città della Carta si passava lungo la Gola della Rossa, attraversando le frazioni del Comune di Genga di Pontechiaradovo, Falcioni, Camponocecchio, Gattuccio e Valtreara, e lambendo, dall’altra parte dell’Esino, la due frazioni di Palombare e Mogiano. Con la realizzazione, qualche decennio fa, della Superstrada e del tracciato in galleria, quel suggestivo percorso stradale, è stato progressivamente abbandonato dal traffico ordinario, ed utilizzato solo dai mezzi pesanti delle imprese di attività estrattive, concessionarie dei bacini di escavazione del Monte Murano. Tanto che, ad un certo punto, la Clementina, riconosciuta originariamente come Statale, è stata declassata prima a provinciale, e poi a comunale. Così, negli anni, il Comune di Serra S. Quirico, che nel 2009 ha rinnovato la concessione di estrazione ai privati fino al 2048, ha pensato bene di darla in uso esclusivo alle imprese delle cave, in cambio del prendersi carico, da parte di queste ultime, degli aspetti manutentivi del tracciato viario. Il risultato è che alla fine, Comune e imprese, la manutenzione della strada e della Gola, non l’hanno mai fatta (nonostante un progetto esecutivo presentato qualche anno fa dalle imprese interessate al Comune, che lo approvò, ma poi misteriosamente scomparso); anzi, l’hanno sbarrata sia a monte, verso Fabriano, che a valle, verso Jesi. Ciò a seguito di un’Ordinanza Sindacale di chiusura totale (la n. 9 del 24.02.2010, mai modificata o revocata), che vieta l’accesso alla strada a qualsiasi essere vivente che non sia dotato di ali per il suo sorvolo… La strada però è rimasta percorribile fino al 2013, più o meno clandestinamente, quando si trovavano le sbarre aperte per via del transito dei mezzi pesanti che accedevano ai cantieri di estrazione. Chi sapeva ed era del posto, considerata l’assenza di qualsiasi controllo, ci passava. Poi, in conseguenza della piena straordinaria dell’Esino del novembre 2013, un tratto di carreggiata di circa 30 metri, è parzialmente franato. Ricordo che un pomeriggio di quell’autunno 2013, il fiume allagò la superstrada e la galleria “Colle Saluccio”, isolando il fabrianese dalla Vallesina, e per circa 24 ore il traffico da Fabriano verso Ancona fu deviato straordinariamente lungo la Clementina. Da anni quindi, paradossalmente, il divieto di accesso e transito, per quanto riguarda pedoni, ciclisti e climber, viene quotidianamente disatteso. Non si capisce quindi, ad esempio, come da qualche anno il Comune di Serra S. Quirico consenta, peraltro da Ente Patrocinante l’evento, lo svolgimento di una manifestazione internazionale di arrampicata sportiva all’interno della strada interdetta a chiunque. Inoltre, il 14 maggio 2016, lungo la strada, in prossimità del fronte di cava di Serra S. Quirico, sono franati massi molto grandi che, ad oggi, nessuno ha rimosso, né il Comune di Serra S. Quirico, né le imprese delle cave. Uno stato di progressivo e concreto abbandono, a fare da contraltare alle più volte ascoltate promesse di ripristino della strada. Nel febbraio 2016, è nato un Comitato dal nome “Riprendiamocilastrada”, che dopo un lungo silenzio, ha rimesso al centro la necessità riaprirla e renderla pubblica. Un Comitato di abitanti, cittadini, Associazioni, che annovera, tra le centinaia di firmatari, anche l’attuale Sindaco di Fabriano e Vicepresidente dell’Unione Montana, Gabriele Santarelli. La Clementina, al di là del valore storico e paesaggistico, è tornata in questi ultimi mesi ad essere strategica, più che in passato, per gli abitanti delle frazioni di Genga che si vedono costretti, per andare verso Jesi, a tornare indietro verso Valtreara ed imboccare la nuova superstrada della Quadrilatero-Anas (la galleria di oltre 3 km); cosa che, praticamente, comporta circa venti minuti in più per trovarsi lungo la Vallesina. Ma ad impiegarci questo tempo, oltre i cittadini di queste zone, per primo per recarsi quotidianamente al lavoro, potrebbero essere anche eventuali mezzi di soccorso, chiamati a raggiungere le quattro frazioni penalizzate (Falcioni, Pontechiaradovo, Palombare e Mogiano); sempre che trovino aperto il passaggio a livello di Pontechiaradovo, che nell’arco delle 24 ore, è chiuso circa per 7 ore al giorno. Due frazioni in particolare, Palombare e Mogiano, in caso di qualsivoglia emergenza, si ritroverebbero ad essere di fatto isolate e non raggiungibili, non potendo contare sull’accesso o fuga veloci in direzione Vallesina, che restituirebbe loro la Clementina riaperta. C’è da evidenziare poi che, con il nuovo assetto viario del raddoppio della SS 76, i mezzi inferiori a 150 cc (motorini, apetti, biciclette) non possono già da adesso andarci secondo quanto previsto dal Codice della Strada. E una persona che dispone solo di questi mezzi, come fa? E’ pur vero che ci sono sempre dei sentieri di montagna percorribili per andare verso Jesi… Ma anche per raggiungere Fabriano, si è costretti a passare esclusivamente per Collegiglioni. Per questo nei giorni scorsi, gli abitanti delle frazioni, esasperati, hanno scritto al Prefetto, richiamando il civico valore e diritto alla sicurezza, affinché il tratto della Clementina chiuso, venga riaperto, messo in sicurezza, e destinato al traffico locale, perché le persone che vivono da queste parti, possano avere piena agibilità di spostarsi, sia nell’ordinario, sia nell’emergenza. Farlo ora, contestualmente ai lavori della Quadrilatero in quella zona, significherebbe a detta del buon senso, anche una razionalizzazione dei costi. C’è da affrontare, è pur vero, la questione della sicurezza delle pareti rocciose, ma oggi ci sono tecniche di messa in sicurezza efficaci e durature; basti vedere il pregevole intervento, che le Ferrovie hanno fatto con le reti, sulle pareti sovrastanti il binario a Pontechiaradovo. E ci sarebbero già anche, nel cassetto del Comune di Serra S. Quirico, 250.000 euro che la Regione nel dicembre 2016 ha assegnato all’Amministrazione per la messa in sicurezza della Gola della Rossa, e che, ad oggi, non risultano dagli atti amministrativi, né da cantieri in evidenza, essere stati impegnati. Nessuno vuole che la Clementina sia di nuovo oggetto di traffico sfrenato; anzi, gli abitanti per primi, sono d’accordo che un tratto della carreggiata possa essere ciclopedonabile, e che magari nei giorni festivi si possano prevedere fasce orarie di chiusura, fatta eccezione per i mezzi di soccorso, per favorire escursionisti ed amanti della natura. E siccome siamo nel XXI secolo, ci sono accorgimenti tali che possono contemplare tali differenti esigenze. Ma i diritti, anche se di poco meno di settanta cittadini, per primi quelli alla sicurezza e alla salute, devono tornare ad essere prioritari per quanti hanno la responsabilità della vita pubblica; altrimenti tutte le riflessioni che da anni si fanno nei convegni e nei tavoli istituzionali sul valore delle comunità locali, sulle politiche per le Aree Interne, sullo spopolamento, si riveleranno quello che già, purtroppo, in molti pensano essere. Cioè delle chiacchiere.


domenica 10 giugno 2018

I SOVRANISTI DELL'ALTOPIANO


Negli ultimi trent’anni sono stato a Castelluccio, sulla Piana, due volte. La prima con un amico prete ed altri, dopo un ritiro spirituale a Castelsantangelo sul Nera; la seconda, con una giovane allevatrice transumante di pecore, e un amico scrittore. Per cui, due volte in trent’anni, non mi danno, secondo molti, a partire dalla statistica, alcuna legittimità ad esprimermi su quello che succede in quel territorio. Però sono più che sufficienti, secondo gli stessi, per sentirmi al contrario obbligato ad essere un consumatore del brand Castelluccio, a farmi i selfie in mezzo ai fiori, parcheggiandoci sopra anche la macchina, come da anni fanno in tanti, a mangiare dai “porchettari” o dai ristoratori, e a comprare nei supermercati di tutta Italia, i prodotti a marchio Castelluccio di Norcia (dei quali, a partire dalle famose lenticchie, oltre il 70% di quanto messo in commercio, viene da anni coltivato, prodotto e confezionato in altre Regioni, se non in altri Stati). Compra, consuma, spendi e, contestualmente, “amico caro...fatte li cazzi tua!”, come direbbe Razzi/Crozza o viceversa, rispetto ad alcune scelte che sono in essere a Castelluccio; prima e più emblematica il costruendo Deltaplano. Però, diversamente, i cazzi miei, non debbo farmeli quando vado a fare la spesa, oppure quando decido la gita della domenica o la vacanza. Questo il pensiero dominante, secondo coloro che a Castelluccio, in forma diverse e con ruoli molteplici, hanno a che fare con il solo prodotto universale che regola i rapporti all’interno della società e degli Stati: i soldi. O quanti, in un modo o in un altro, hanno a che spartire con un altro concetto: la proprietà. Che non è quella immobiliare tradizionale, s’intenda. Tanto per fare un esempio, chi appartiene ad una Comunanza Agraria, secondo la storia e la legislazione, fa parte di un ente dotato di personalità giuridica pubblica, ed è gestore in forma collettiva di proprietà: terreni, boschi, pascoli, etc (quella di Castelluccio possiede 1136 ettari; cfr. SIUSA-MIBACT). Castelluccio è stato raso al suolo dai terremoti del 2016, sono in corso le demolizioni delle rovine del borgo. Dopo quasi due anni, le otto SAE richieste, dagli otto nuclei familiari residenti a Castelluccio (che non verrà mai ricostruito, così almeno siamo chiari e non raccontiamo fiabe), non sono state ancora consegnate. Questo fatto ci dice che a Castelluccio, al contrario di quello che si tenta di far credere, i problemi dei pochi abitanti stabili, non sono sovrapponibili ai problemi e alle esigenze (seppur legittime) di chi sulla Piana vi svolge solamente un’attività imprenditoriale o commerciale, diretta o indiretta; e che sono numericamente molti di più degli abitanti. Questi ultimi hanno bisogno delle SAE e di un paese che il terremoto ha cancellato e che non avranno più; tutti gli altri hanno bisogno del Deltaplano e di altre possibili iniziative tese alla ripresa e al potenziamento del business turistico e commerciale di massa sulla Piana, con il brand Castelluccio da proporre e vendere. Sostenere con pacatezza queste cose, da diversi mesi, comporta essere additati e perseguitati (per ora solo sui Social e sui giornali) come nemico del popolo (quale? otto famiglie?) castellucciano, nonché affamatori della “ggente” di Castelluccio. Dire o scrivere che l’operazione Deltaplano è una schifezza, una porcata (come direbbe il Calderoli) paesaggistica e urbanistica, o che è semplicemente brutto sul piano estetico, viene considerata lesa maestà istituzionale e popolare, ed infamia verso i terremotati di Castelluccio. Condividere la giustezza dell’azione legittima, intrapresa dal WWF nelle sedi deputate, comporta espliciti inviti a tenersi fisicamente lontani dalla Piana per i giorni a venire. In tutto questo c’è un però: anche io, insieme a tanti altri, potremmo divenire comproprietari (esclusivamente immateriali) di Castelluccio. E già, perché stiamo parlando di un territorio che da tempo è considerato lì lì per diventare Patrimonio dell’Unesco (tanto che alcuni siti web turistici lo scrivono da anni): patrimonio mondiale dell’umanità. E quindi, io e molti altri, in quanto facenti parte dell’umanità, siamo anche noi proprietari in pectore di Castelluccio. Ed eticamente corresponsabili di quel luogo, e delle questioni che lo riguardano. E, di conseguenza, legittimati e liberi a dire e scrivere quello che pensiamo su quel tratto di Appennino, e sulle scelte che vi sono state compiute, e che vi si intenderanno fare. Al pari degli otto nuclei familiari, e di tutti quelli che da sempre ci commerciano nelle forme consentite dalla legge. E anche degli stronzi che parcheggiano le macchine sopra la fioritura per farsi le foto.  Comunque, la vicenda del Deltaplano di Castelluccio è paradigmatica di un clima, di una cultura, e di un sentimento crescenti nel Paese, e non dagli ultimi tre mesi, ed è il frutto di una lunga semina ultraventennale. Che è quella di un’idea della società non più comunitaria, ma tribale; della superfetazione del concetto di interesse particolare, per il quale è legittimato il cannibalismo del tutti contro tutti; in tempo di pace, come si dice, e ancor più in tempo di guerra. Del concetto che non ci si debba interessare di una questione, se questa non coinvolge direttamente la tua saccoccia; e soprattutto di non permettersi, vivendo fuori da un determinato luogo (anche se solo di qualche decina di chilometri) di dire, fare, scrivere, perché lì, la “ggente” vuole così. E che pratiche democratiche quali la dialettica, il confronto, la mediazione, tolgono opportunità e diritti alla “ggente”; la quale sa bene da sola cosa è giusto e cosa non lo è. Per cui, in questa cultura crescente di un concetto di popolo ridotto a banda di condominio, è normale che chi vende le foto della Piana di Castelluccio o le magliette sulle bancarelle festive, pur abitando magari nella Pianura Padana, sia pronto a prendere a legnate (verbali s’intende), chi pensa e scrive che il Deltaplano rappresenti una scelta sbagliata rispetto ad un valore di territorio e di resilienza. Così come, tornando in una parte dell’Appennino più vicina a casa mia, un libero professionista, che da una scelta politica ed amministrativa che lede il paesaggio in maniera definitiva, ci “spizzica” per sé qualche migliaio di euro, possa trovare naturale e normale, minacciare (con l’uso della tastiera) di prendere a palate una signora che scrive di pensarla diversamente da lui. Questo perché solo chi opera in un luogo, chi guadagna in quel posto, e quindi non in virtù della nascita o di una scelta di residenzialità , o di una volontà di “restanza”, così come la definisce Vito Teti, ma solo in virtù di un tornaconto monetario per sé, è nel diritto di pensare, dire, operare, giudicare. Il denaro diventa il valore assoluto, che accredita e legittima al tempo stesso, chi è in condizione di poter esprimere un punto di vista e un giudizio. E’ questa, la cultura montante, molto pericolosa, che tiene insieme, nel caso di Castelluccio, il costruttore, il comunardo e il “porchettaro”; e che esclude l’unico soggetto vocato a definirsi popolo, le otto famiglie che non ci abiteranno mai più. E, che fa di essi una categoria del tutto originale, nuova e straordinaria: quella dei sovranisti dell’Altopiano. E dei tanti altipiani sparsi e diffusi per l’Italia, anche a livello del mare…