lunedì 26 agosto 2019

GOOD MORNING, CENTROITALIA EARTHQUAKE!


“La guerra alla Strategia dell’Abbandono è finita. L’Abbandono ha vinto”. Si potrebbe, nel fare un bilancio di questi tre anni, parafrasare così un pensiero del repubblicano Ronald Reagan, che ebbe ad affermare nel 1988, seppur in tutt’altro contesto, “La guerra alla povertà è terminata. La povertà ha vinto.”; concludendo anch’egli anni dopo, un pronunciamento del 1964 del Presidente democratico Lyndon Johnson. E già, la situazione a tre anni dal terremoto senza toponimo, definito vagamente in termini areali “del Centro Italia”, appare inequivocabile. Questo non solo perché ci sono ancora cinquantamila persone fuori di casa, ottocentomila tonnellate di macerie ancora sul posto, un’idea di ricostruzione ferma a poche decine di pratiche edilizie presentate, la certezza che diversi paesi non saranno mai ricostruiti. Ma soprattutto perché, riguardo ad un processo già in atto da tempo sull’Appennino, di progressivo abbandono di carattere demografico, politico, sociale, economico, il terremoto ha completato, anticipando i tempi, il lavoro “sporco” di altri. La politica nazionale, tutta ed eterogenea, tre governi con in gestazione il quarto, insieme alle dinamiche istituzionali regionali, ha fatto al meglio la propria parte. Si, possiamo constatare, oltre ogni frase ad effetto e slogan, che stavolta li hanno lasciati soli per davvero. A parte visite e sopralluoghi di rito, in occasione di anniversari, campagne elettorali, cambi di governi e commissari, poi le popolazioni sono rimaste sole in compagnia di un impianto normativo spaventoso ed irriformabile, e prigioniere di una burocrazia che, dopo poco tempo, sfiancherebbe anche il professionista più abile e paziente. Al contrario, invece, la volontà e la mediocrità delle attuali classi dirigenti, ha favorito il veloce planare sull’Appennino dei soliti rapaci e voraci predatori del caso. Pronti a spolparsi il poco che resta, della qualità, delle risorse e della storia, di un territorio e del suo paesaggio. Già a pochi mesi dalle catastrofiche scosse, la Magistratura, obtorto collo, è dovuta subito entrare in azione, per indagare sulle ipotesi di reato più classiche in queste situazioni; con la novità, rispetto ad altri casi, del caporalato e del lavoro nero.  Ma i segnali di ciò che sarebbe avvenuto c’erano tutti, sin dall’inizio. Il prolungarsi dello Stato di Emergenza (scade il prossimo 31 dicembre), che ha sì nell’immediato messo in sicurezza e popolazioni, ma ha consentito lo smembramento e l’allontanamento definitivo di gran parte delle comunità dei paesi colpiti; i ritorni nei villaggi SAE, molti mesi dopo, ci danno dati che in diversi casi, ha visto dimezzarsi la popolazione residente. La scelta sciagurata, almeno nella Regione Marche, di voler risolvere i problemi acquistando nuove abitazioni, rilevate spesso dall’invenduto della bolla immobiliare marchigiana, e da acquisizioni fallimentari di banche, per trasformarle in abitazioni di edilizia popolare pubblica per i terremotati; ubicate perlopiù fuori cratere. Il fatto emblematico che a Castelluccio di Norcia prima si sia in poco più di un anno costruito un centro commerciale, il Deltaplano, e solo poi consegnate agli abitanti del paese distrutto, la ridicola quantità di otto casette di plastica solo qualche mese fa. I villaggi SAE, che aldilà della qualità strutturale e dell’inusitato consumo di suolo, realizzati senza alcun spazio di socialità, di relazione, di incontro. Box dormitorio senza servizi, tipici dei campi profughi, nei quali da qui a poco tempo rimarranno solo gli anziani e i più poveri. La resurrezione, più propria di un film di Romero che delle Sacre Scritture, altro che i concerti sui prati di RisorgiMarche, di vecchi e bolliti gruppi industriali del capitalismo oligarchico marchigiano, che sotto il caritatevole abito delle fondazioni di ogni tipo, hanno aperto le porte alle multinazionali dell’agrifood sui territori colpiti: Ferrero, Loacker, Granarolo, Cremonini, solo per fare qualche nome. Con il plauso, accucciolato e devoto, della politica, ma anche di associazioni di categoria. Operazioni queste, che dal punto di vista etico, non hanno nulla di differente da quello che Bolsonaro sta facendo per le cricche mondiali delle bistecche in Amazzonia. La improbabile ed impossibile riconversione al turismo di massa, modello Disneyland appenninica, di un territorio vocato da sempre ad un certo tipo di agricoltura e pastorizia, ed al manifatturiero; con iniziative e processi che stanno convogliando e sprecando fiumi di denaro pubblico. O meglio, destinato alle solite saccocce dei cerchi magici dell’imprenditoria culturale regionale, da tempo un po’ sofferenti. Questo e molto altro, che per brevità tralascio, conferma che se un terremoto è un dramma ed una sciagura per chi ne è vittima, per molti è come il biglietto vincente del SuperEnalotto, la sestina supermiliardaria che esce dopo anni. Ma, come nel gioco d’azzardo statale, nel caso del post terremoto, non c’è solamente quello che fa “sei”; ma anche tanti che fanno un modesto “due” o addirittura “1 + superstar”. E, lo penso con profonda amarezza ma con consapevole realismo, è questa moltitudine di piccoli e mediocri occasionali vincitori, per restare all’esempio della lotteria, che ha consentito, anche questa volta, di lasciare alla Strategia dell’Abbandono di calciare l’ennesimo rigore a porta vuota. Da quello che si inventa ad hoc il progettino turistico solidale, al terremotato fuori cratere che percepisce da tre anni il CAS e fa finta di essersi traferito da un’altra parte, ma sta sempre nella casa inagibile, fino al sindaco del paese di qualche centinaio di abitanti, che grazie al terremoto fa un’impensabile carriera politica; e un’infinità di molte altre piccole furbizie che vedono accumunati finti terremotati e cittadini senza problemi. In questi tre anni, a dire il vero però, ci sono state e ci sono, belle, significative e disinteressate esperienze di resistenza e contrasto alla Strategia dell’Abbandono, da parte di movimenti di base, associazionismo locale, singole persone; ma tutte risultano essere marginali e minoritarie, soffocate dalle gran casse social e media dei megafoni istituzionali e politici. Esperienze e persone additati subito provocatoriamente come haters, “populisti” e “gentaccia”, per quanto hanno provato a fare, e a raccontare una storia diversa da quella istituzionale e commerciale. E’ mancato purtroppo, in conseguenza della tragedia, quello scatto in avanti che poteva delineare per questa parte di Appennino, un modello nuovo e diverso di vita e lavoro su questo territorio; partendo dalle radici e da vocazioni storiche, elaborandole ed innovandole, in armonia con il territorio e con il paesaggio, mischiandole con nuovi saperi e tecnologie, e con nuove forme di cittadinanza e di residenzialità. Ma per questo sarebbe servito un percorso corale, partecipato, dialettico, in cui la politica avrebbe dovuto avere lo spessore e la volontà per guardare al di là delle cabine elettorali e delle singole carriere, sapendo guidare una popolazione sofferente, lacerata e incerta sul futuro, ma in gran parte ancora tenace e disponibile ai sacrifici. Invece, la verticalità e l’esclusività delle decisioni, un’applicazione pecoreccia dei “pieni poteri”, assieme alle ambizioni, furbizie, egoismi, e in alcuni casi aderenze col malaffare, della politica nazionale e locale, li ha con premeditazione lasciati soli, al tutti contro tutti, al si salvi chi può, al giorno per giorno, alla mercè e ai ricatti di miserabili pretoriani politici di caseggiato, a sindaci spesso mediocri, dai comportamenti tipici dei Raì's di periferia. E’ mancato, collettivamente, nella politica e non solo, quel “senso morale” che può tenere la barra a dritta nelle situazioni apocalittiche, evocato dal protagonista di “Cuore di tenebra”.  La partita, a mio avviso, dopo tre anni, può definirsi conclusa. Senza macth  di ritorno, e senza rivincite. Un vero peccato, per la bellezza di questi territori e per la generosità e coraggio di gran parte dei suoi abitanti. Agli haters e alla “gentaccia”, e a tutti quelli che hanno perduto il campionato, e che restano qui sull’Appennino, rimane, come in tutte le vicende resistenziali, oltre che il dovere della narrazione e della denuncia, l’azione di incursione e il sabotaggio. La Strategia dell’Abbandono è già pronta ed iniziare un nuovo campionato da qualche altra parte. La storia sismologica dell’Italia, e la fragilità geomorfologica del territorio nazionale, ci insegna che è solo questione di tempo. Se all’alba di quel mattino del 24 agosto di tre anni fa, avessimo avuto tutti, ma proprio tutti, comune coscienza e consapevolezza, come scriveva Michele, un caro amico, sul suo profilo facebook poche ore dopo la scossa 6.0, che “quando di notte la terra si muove intensamente, all’alba ti ricordi meglio che sei suo ospite, talvolta custode quando concesso, ma di certo non padrone o proprietario”, forse la partita sarebbe finita, per la prima volta, diversamente.



venerdì 28 giugno 2019

LE (dis) AVVENTURE DI UN POVERO marchiciano


Non me ne voglia lo spirito di Secondo Tranquilli, per la parafrasi irriverente del titolo di una sua opera; ma l'ho pensata con somma riverenza per lo scrittore italiano del Novecento, che probabilmente è quello che amo di più.
Tutto è  iniziato con un persistente fastidio all'orecchio che mi attanagliava da settimane.
Immagino che potesse essere il ripetersi di un disturbo avuto anni fa ma, non volendo fare il dottore su google, decido di rifare una visita otorinolaringoiatra. Chiaramente attraverso il servizio sanitario nazionale, fresco di anniversario del quarantennale.
Quindi il mio medico di base il 10 giugno mi prepara l'impegnativa. Dopo mezz'ora sono allo sportello CUP dell'Ospedale di Jesi.
"A Jesi e Fabriano non c'è posto prima di ottobre, oppure domani qui in ospedale a pagamento con il dott. Tizio, 105€ - mi informa l'operatrice - oppure il posto più vicino in termini di data è a Macerata il 19 giugno alle 12."
Mah, va bene Macerata, mi dico, tanto da quelle parti vado spesso, e metterò insieme due o tre appuntamenti in zona quel giorno. L'impiegata mi consegna la stampata della prenotazione, la piego e me ne vado.
Lascio il foglio in macchina, tanto lo riprendo il 19. Ma la mattina del 19, quando ripesco il foglio dalla macchina per leggere l'indirizzo dell'ospedale da mettere sul navigatore, mi accorgo che la mia visita non è a Macerata, ma a Macerata Feltria, a due ore e passa di macchina, e da tutt'altra parte della regione, quasi in Romagna. E, vista l'ora, è impossibile che possa essere a Macerata Feltria per le 12, pur se avesse senso andarci.
Penso che sono rincoglionito, ma sono altresì sicuro che l'operatrice CUP mi abbia proposto a voce Macerata, e non Macerata Feltria. E pure sbadato, se avessi letto prima, anzi subito, il foglio della prenotazione.
Richiamo il CUP per telefono, per annullare la visita e prenotare nuovamente, spiegando la situazione, specificando che mi era stata detta Macerata, e dopo aver premesso che forse avevo frainteso.
"No, stia tranquillo - mi rassicura l'operatrice telefonica - non è la prima volta che una collega si sbaglia tra Macerata e Macerata Feltria. Comunque le posso riprenotare per Senigallia il 26 giugno alle 10".
"Va bene - le rispondo - comunque le suggerisco di segnalare ai vostri dirigenti di farvi fare anche un breve corso di geografia regionale... buongiorno".
Lunedì 24 giugno alle 13.47 squilla il cellulare, con prefisso distretto di Pesaro.
"È il CUP Marche signore - mi viene annunciato - mercoledì 26 la sua visita a Senigallia è annullata, perché non c'è il medico." "Ma come?! - adesso mi sto un po' arrabbiando - come faccio, me lo fissate di nuovo, e quando?"
"A Senigallia adesso non saprei dirle - riparte lei con gentilezza - ma se vuole giovedì 27 alle 14.30 c'è posto al distretto di Pesaro, glielo fisso?"
"Si, lo fissi", rispondo scoraggiato.
Poi, mercoledì 26, nel pomeriggio penso alla trasferta pesarese. Sono stremato. Faccio due conti: 31 € di ticket, 10 € autostrada, 20 € ad occhio la benzina, un'ora e mezzo quasi di macchina ad andare, e altrettanto a tornare. Chiamo il CUP e sento quanto costa privatamente la visita il giorno dopo all'ospedale di Fabriano. Ore 16, 105€.
Ringrazio, ma non prenoto.
Guardo su google gli otorinolaringoiatri che ci sono tra Jesi e Fabriano, gli studi privati. Ne prendo uno a Fabriano, che non conosco, e telefono. Fisso l'appuntamento per giovedì 27, alle 17. Ieri ho fatto la visita. Una visita oculata e dettagliata di un professionista gentile. Che mi ha fatto diagnosi e prescritto la cura per 15 gg. E che non mi ha detto, ci rivediamo tra... così mi ridà un'altra parcella. Ma soltanto grazie e buonasera.
E la visita privata, fuori dal servizio sanitario nazionale l'ho pagata 70€, poco più della trasferta a Pesaro, e 35€ in meno della visita in regime privatistico in un ospedale pubblico.
Ecco, questa è la punta dell’iceberg dell’organizzazione e gestione della sanità pubblica marchigiana; conseguenza delle politiche regionali degli ultimi anni. In cui, devi solo sperare, come si dice, di non star male sul serio. E tutto questo non ha niente a che vedere con la professionalità e la dedizione del personale medico e tecnico che lavora nella sanità pubblica. Questo sistema mortifica anche loro, assassinando a tradimento Ippocrate.
Una politica di una Giunta che sta smantellando la sanità pubblica e territoriale, specie nelle aree interne, per consegnarla progressivamente ai privati.
Ciò non c’entra nulla l’art. 32 della Costituzione Italiana. Non c’entra nulla con il valore di tutela della salute che mi trasmise tanti anni fa quel vecchio partigiano, diventato primario, che saliva sul tetto dell’ospedale a riaccchiappare i “suoi” matti. Non c’entra nulla con l’idea di valorizzazione delle professionalità mediche, che mi ha testimoniato un amico primario, talmente scoraggiato da scapparsene in pensione alla prima finestra previdenziale utile.
Tutto questo, l’anno prossimo, avrà una certa conseguenza elettorale, ed è anche giusto che in fondo, sia così. Perché poi, le persone, i marchigiani, pretendono di essere assistiti e curati come prevede la Costituzione. E ciò, non si può con sfrontatezza pensare di poterglielo barattare e mistificare con il sollazzo di un concerto su un prato di montagna.



lunedì 6 maggio 2019

IL TERREMOTO DOPO IL TERREMOTO


«Prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese.» ebbe a dire l’arcivescovo di Udine, Mons. Alfredo Battisti, pochi giorni dopo quel 6 maggio 1976, di cui ieri sono ricorsi 43 anni. Ed in effetti, quella saggezza di guida popolare e religiosa, portò in Friuli ad una ricostruzione che ancor oggi rappresenta un esempio di serietà ed efficienza, e che allora in dieci anni portò a rifare da capo interi paesi.
Altrettanto non può dirsi per quanto riguarda il terremoto cosiddetto Centro Italia, rispetto al quale di anni ne sono passati quasi tre. E non tanto perché in questi territori non ci siano Pastori della Chiesa saggi e lungimiranti.
In realtà, nello specifico marchigiano, il fenomeno più grave e sciagurato, mi si passi con comprensione e benevolenza la provocazione da quanti vivono questo dramma post sismico sulla pelle, è il permanente fenomeno del “terremoto dopo il terremoto”.
Ovvero, dopo la catastrofe naturale che dal punto di vista geofisico ad un certo punto si esaurisce, quella di una visione del futuro di questi territori del tutto sbagliata. Frutto per primo di un’eccitazione della politica, che lega oramai la sua esistenza esclusivamente al consenso immediato e all'autoperpetuazione.
La crisi economica e finanziaria del primo decennio del nuovo secolo, aveva già messo in discussione il cosiddetto “modello marchigiano”, specie nelle aree interne. Già prima dei sismi del 2016 e del 2017, le diverse classi dirigenti annaspavano alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo economico, ed annusando alcune dinamiche toscane e umbre, avevano già intrapreso azioni tese ad investire fortemente su una nuova, almeno per queste terre, industria, quella del turismo. Considerandola una sorta di nuova lotteria vincente, sulla quale puntare tutto.
Pensandola, ed è qui l’errore, non come economia complementare ad altri settori, ma del tutto sostitutiva dei comparti economici che per decenni avevano fatto la ricchezza delle Marche, ma implosi con la crisi.
Tutto questo ha assunto, dopo il 2016, strategia assoluta e dominante. Che ha sedotto tutti, politici, imprenditori, pezzi di società civile. Con investimenti stratosferici di denaro pubblico dal punto di vista economico, e il più delle volte grotteschi sotto il profilo realizzativo, oltreché divisivi nell’opinione pubblica.
Alimentando ancora la frustrazione, la disperazione, la rassegnazione e l’indignazione delle popolazioni dei territori colpiti.
Sbagli su sbagli, che potrebbero avere conseguenze serie e di lungo periodo, generati proprio nel pensare che l’economia delle aree interne marchigiane possa davvero sostenersi ed alimentarsi esclusivamente con il turismo. Di qualunque tipologia: di massa, lento, esperienziale, responsabile, etc etc.
La convinzione, che possa essere l’economia turistica, a tenere le persone nei territori, a rimanere o tornarci. Anziché il lavoro generato dalla “fabbrica”, intendendo questa espressione in senso estensivo e non tradizionale.
Ma l’industria del turismo ha una caratteristica del tutto specifica: che non gli serve una comunità, degli abitanti, un paese. Gli bastano semplicemente dipendenti e clienti, ed infrastrutture per far muovere velocemente le persone, insieme a contenitori dove farle consumare e spendere in poche ore, per poi rispedirle a casa.
Faccio un banale esempio, per conoscenza diretta. Vivo a Genga, il paese delle Grotte di Frasassi, una delle eccellenze del turismo nazionale. Duecentocinquantamila visitatori in media l’anno. Millesettecento abitanti il paese. Di questi, a occhio e croce, con l’attività turistica, diretta o indiretta, ci portano a casa uno stipendio mensile circa 400 persone, a tenersi larghi. E gli altri milletrecento abitanti? Se non ci fossero altri lavori a tenerli qui, o una qualità di servizi alla persona che giustifichi la residenza, perché dovrebbero vivere in questo posto? Tanto è vero, che storicamente anche qui dal Novecento, il lavoro prevalente è stato, ed è tutt'oggi, ben altro dal turismo. Se l’idea è quella che rimane sul posto solo chi vive di turismo, Genga avrebbe 400 abitanti. E neanche tanto, perché si può fare la guida turistica, il cameriere, il bancarellaro, come pendolari da un altro territorio o città.
Quell’arcivescovo friulano, tanti anni fa, nell’anteporre la priorità alle fabbriche, e cioè al lavoro radicato e residente, aveva chiaro in mente, che quello era il modo concreto per non far disperdere e frantumare le comunità, ma al contrario farle rimanere, seppur subito a ridosso del terremoto anche molto precariamente, coese e sul posto.
E allora credo che la visione che manchi, sia dovuta anche solo semplicemente all’ignoranza. Ci sono già nelle aree interne Regione, imprese innovative, legate alla manifattura ecologica ed ambientale, ai saperi e alla conoscenza, che hanno successo, internazionalizzazione e fatturato, proprio per il fatto che stanno in un paesaggio ed in un ambiente con determinate caratteristiche di qualità. Una fortuna che non avrebbero parimenti, se fossero localizzate in una fascia metropolitana, o in una desolata area industriale ed artigianale tradizionale. Questo ad ammissione per primo degli stessi imprenditori. Imprese fatte crescere da marchigiani, e che danno lavoro a marchigiani.  In questo, seppur espressione di un modello novecentesco di fabbrica e di lavoro, ha ragione Diego Della Valle, che animato anche da un sentimento di solidarietà, ad Arquata del Tronto in qualche mese c'ha impiantato un nuovo stabilimento della Tod's. Altro che  neo-colonizzatori di note multinazionali, introdotti da faccendieri locali, che con rapacità si stanno radicando sui territori colpiti dal terremoto.
Invertire la rotta, significa rimettere in ordine alcuni concetti e valori. Ritornare per primo a considerare il turismo come una preziosa opportunità economica, ma complementare, e favorire l’insediamento e la crescita di nuove “fabbriche” di alta qualità, integrate nel paesaggio e rispettose dell’ambiente. Così, avrà allora certezza, oltreché senso, ricostruire i paesi.
Altrimenti, davvero, mi si passi di nuovo la provocazione finale, meglio far spopolare definitivamente tutto, e consegnare la chiavi di questa parte dell’Appennino, all’amministratore delegato di questo potenziale parco divertimenti e outlet all’aria aperta.



giovedì 14 marzo 2019

PIAZZA GRANDE

A Genga non c’è una piazza che sia luogo identitario e ritrovo della socialità quotidiana; e sede come in ogni paese, di un mercato settimanale. Non c’è neanche uno spazio civico al chiuso, dove gli abitanti possano trovarsi; un centro sociale, un circolo cittadino. A Genga ci si incontra solo nei quattro bar, tra slot machine e gare sportive televisive. La spesa media pro capite al gioco d’azzardo (1748 abitanti) nel 2017, è poco oltre i 1000 euro l’anno (dati ufficiali). A chi amministra il diritto ad una pubblica socialità, come anche la patologica tendenza all’azzardo, sembrano non interessare. Eppure il Comune ha un locale di proprietà da destinare ad una funzione sociale, di 300 metri quadri, all’interno del Castello di Genga. Chiuso da tempo, riaperto alcuni giorni l’agosto scorso per una mostra. Per molti anni lo ha concesso in affitto solo ad attività ristorative private. Che, purtroppo, non hanno mai avuto successo. Tanto che l’ultima gestione, per mesi non è riuscita ad assolvere agli impegni economici con il Comune. Costretto, quest’ultimo, ad un contenzioso per rientrare in possesso dei locali, e ad un atto amministrativo di pignoramento per recupero crediti. Ma il Comune ha voluto persistere, confortato dalla Delibera di Consiglio n. 21 del 26 ottobre 2018, nel ritenere vocati quegli spazi ad una attività imprenditoriale economica. Un scelta che fa sorgere domande e perplessità; non tanto sulla correttezza giuridica e formale, ma quanto sull’opportunità politica ed i tempi. Perché destinare i locali esclusivamente ad uso commerciale, e non prevedere anche un possibile utilizzo sociale, civile e culturale? Perché ammettere al bando solamente alcuni soggetti, e precludere la possibilità a parteciparvi ad Associazioni, Fondazioni, Comunanze Agrarie, Onlus, Enti No Profit? Perché si è scelto prima un canone di locazione basato su criteri catastali, e poi si è deciso di abbatterlo drasticamente? Considerato che, in seconda battuta, si è applicato un canone poco oggettivo, quello dell’ultimo contratto. Perché si è scelto di concederlo in affitto per 9 anni? Un periodo molto lungo, una scelta curiosa per un’Amministrazione Comunale in scadenza a giorni, con un Sindaco al secondo mandato (anche se ricandidabile per un terzo). Che impegnerà non solo il primo mandato del nuovo Sindaco, ma anche quasi tutto l’eventuale secondo mandato elettivo, fino al 2028. Perché non si è tenuto conto, tra il 14 e il 25 febbraio scorso, della lettera formale al Sindaco, scritta il 21 febbraio dalla Comunanza Agraria “3 Parrocchie”? Che è un ente giuridico secolare senza scopo di lucro, ed impegnato nella promozione sociale, culturale ed ambientale, costituito da cittadini di Genga. Lettera in cui venivano richiesti al Comune i locali del Castello, per avviarci un’attività di promozione sociale per gli abitanti. Diversi perché. Ma vediamo con ordine i fatti: il 27 novembre 2018 con Determinazione Dirigenziale n. 436, il Comune pubblicava un bando per “la concessione in locazione dei locali comunali Piano Terra Palazzo Comunale Genga capoluogo, da adibire ad esercizio commerciale”, con un importo a base d’asta come canone mensile di 1120 euro oltre IVA. Per un contratto di 9 anni.  Un bando a cui erano ammessi a parteciparvi solo “imprese individuali, società commerciali, società cooperative, consorzi di cooperative”. Alla scadenza del 27 dicembre 2018, la gara è andata deserta, così da indurre la Giunta con delibera n. 7 del 14 febbraio 2019, a procedere all’emissione di un nuovo bando. In cui rispetto al precedente si introduceva una novità: “Dato atto che il canone annuo calcolato sulla base del 10% del valore catastale, risulta quindi eccessivo ed è preferibile utilizzare, come base di gara, una cifra congruente con il canone versato dal precedente affittuario e quindi pari ad euro 350/mese.” Un abbattimento del canone del 31,25%. E quindi, nel nuovo bando, pubblicato il 25 febbraio 2019 con scadenza il 4 aprile, tutte le caratteristiche sono uguali al primo, fatta eccezione per il canone di locazione. I soggetti ammessi, la durata del contratto, le premialità progettuali: “vendita di prodotti della produzione locale, organizzazione di eventi per la promozione di Genga, interventi di riqualificazione delle aree circostanti i locali compresi programmi di pulizia e manutenzione ordinaria delle aree stradali e pedonali interne al castello”. Diversi gli aspetti inusuali in questa storia. Che lasciano pensare, nel pur corretto corso delle procedure amministrative, che già esistano aspettative di qualche potenziale interessato. Una vicenda che confligge con un’altra scelta, quella della Delibera di Giunta n. 10 del 28 febbraio scorso, con cui il Comune ha rinnovato, per la seconda volta consecutiva, senza alcun bando, la locazione dell’ex scuola comunale di Catozzi alla squadra Cacciatori al Cinghiale di Genga, per un canone di 68 €/mese. Riconoscendo, si legge nell’atto, “la valenza aggregativa e sociale svolta dalla Squadra Cacciatori al cinghiale nel contesto gengarino”, e che l’associazione “oltre a svolgere attività prettamente venatoria svolge un importante punto di riferimento per le persone anziane che non hanno molti ritrovi aggregativi se non il bar ed al tempo stesso promuove campagne di sensibilizzazione per la raccolta di rifiuti tossici all’interno del territorio Comunale  e all’interno del Parco Gola della Rossa e Frasassi, coadiuvando l’Amministrazione Comunale in tutte le iniziative volte a sensibilizzare la cittadinanza sull’argomento rifiuti”. Insomma, buon senso vorrebbe, che un Sindaco in scadenza tra qualche settimana, provveda a ritirare il bando e a lasciare la scelta alla nuova Amministrazione.

domenica 17 febbraio 2019

E QUANDO ARRIVA LA NOTTE


Gli outing solitamente sono postumi; a dei fatti o a delle scelte. In questo il mio ha una sua originalità. Lo faccio prima. C'ho pensato a lungo, libero da condizionamenti e sollecitazioni esterni; giuro di non aver ricevuto telefonate, email, sms o whatsApp. L'unico fattore motivazionale che c'è, pressante, è quello di una consapevolezza molto inquieta dei tempi che stiamo attraversando. Quelli in cui i nodi, o meglio gli effetti di un’involuzione culturale e valoriale, dopo una ventina e passa di anni, sono venuti tutti al pettine. In questo sì, come si dice adesso, mi riconosco di essere da tempi non sospetti, “gufo”. Anche da prima del conio di questa espressione, che chiama ingenerosamente, e colpevolmente in causa, un animale notturno bellissimo e straordinario. Dopotutto stiamo prendendo atto, sperimentandoli avventurosamente, degli effetti a rilascio prolungato di una stagione culturale e sociale del Paese, quella del “Drive-in”. Che se finora ci fosse sfuggito, una classe dirigente per l’oggi l’ha forgiata. Non è un caso infatti che le due più forti leadership politiche di questi ultimi anni, pur nelle differenze ideali, siano incarnate da due poco più che quarantenni, Renzi e Salvini. La cui sola esperienza meritocratica e selettiva giovanile che possono annoverare entrambi nel proprio curriculum, è quella di aver concorso ad un quiz televisivo del gruppo Mediaset.
Tra due domeniche andrò a votare alle primarie del PD. Ecco qua. Convinto già dalla sua nascita, che fosse un progetto politico sbagliato. E che se negli anni è finita così, non poteva andare diversamente. Perché non si fonda un nuovo partito a seguito di un'intercettazione telefonica (la famigerata telefonata tra Fassino e Consorte sulla banca), liquidando in un'estate una storia politica comunitaria di centinaia di migliaia di persone. Sono anche convinto dalla prima ora che le primarie, come strumento decisionale, siano una cazzata, almeno in Italia. Perché i gruppi dirigenti di un partito non si determinano sotto un gazebo. Ma sono il frutto faticoso di progettualità, visione, discussione. Non sto neanche attraversando il tempo di un ritorno di fiamma per l'impegno e la militanza politica. Anzi, il solo intimo pensiero di entrare in una sede di partito, o di passare del tempo in una riunione politica, mi genera immediatamente un profondo senso di angoscia e depressione. Andrò a votare alle primarie anche consapevole della distanza che, su molti temi e valori, si è cristallizzata tra me e questo partito, che non voto più da anni. Non dimentico del fatto che, come direbbe il Noodles di Sergio Leone, nel finale del film: "Vede signor senatore, anche io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua". E che, di tanti generali e pretoriani piddini del centro e di periferia, conosco non solo, citando un film ungherese, “Vizi privati, pubbliche virtù”, ma anche vizi pubblici e virtù private. Sono stato nel PD, dall’inizio; ma arrivando da un po’ più lontano. Perché anche allora pensavo che fosse la cosa più credibile e solida, con quello che lo scioglimento dei DS si lasciasse alle spalle ed intorno. Poi ad un certo punto, anni fa, non sono uscito dal PD, ma è stato il PD ad uscire da me. Senza esorcismo. Nel senso pratico che da un anno all’altro nessuno m’ha più chiesto di riprendere la tessera. Non ho cercato nuove case politiche, non ho militato più in niente. Sono rimasto un comune elettore di sinistra. Ma oggi, a differenza di tanti, non appartengo alla schiera, di chi in buona fede o di chi più interessato, ha scelto l’anno scorso il "ma si, proviamo". E che ora, con il ricordo di ventenni rivoluzionari, si ritrovano ingrigiti a spingere il carro gialloverde del vincitori. Andrò alle primarie, sicuro del fatto che la Regione in cui vivo, sia dal 2015 amministrata dal peggior Presidente e dalla peggiore Giunta che le Marche abbiano avuto dall'istituzione del regionalismo, il 1970. Al netto della gestione del terremoto del 2016. E che stanno portando a sfracellarsi, dando ogni giorno sempre più gas, come sulla Lancia Aurelia di Gassman e Trintignant, una importante tradizione politica e un territorio di poco più di un milione e mezzo di persone; e a consegnare le chiavi del Governo Regionale alla destra, che ha già fatto cappotto un anno fa alle politiche. Non mi sfugge neanche, anzi, che il PD sia il partito di Minniti; altrettanto, seppur diversamente, spietato sui migranti rispetto a chi gli è succeduto. Però. C'è poi il però. La sensazione, non epidermica, istintiva, né emozionale, ma politica, che se c'è un qualcosa che respinge indietro la notte nera che avanza, è un qualcosa che passa per forza da che succede “al e nel” PD. Non si può aggirare questa vicenda, nel pensare a come ribaltare un trend culturale e politico che sembra incontrovertibile. Non è con partitini e listini, di mera testimonianza, che si batte la destra. Serve un baricentro sostanzioso al campo democratico. Dal PD, dall’unico soggetto politico democratico di rilievo, anche se malconcio, non si può prescindere. Dal basso e da sinistra, purtroppo, non si riesce ad autogenerare e costruire più niente. Inutile prenderci in giro. Esperienze belle, significative, eticamente di spessore. Ma elettoralmente irrilevanti. Anche alcuni tentativi che mi sono messo ad osservare con interesse e curiosità, e che rimettono in circolo buone persone, assieme a qualche stanco elefante; ma tutte gracili, temporanee. Per essere rilevanti bisogna vincere le elezioni. Non esiste altro metodo democratico. C'è poco da dire, o da fare. Tutto il resto è minoritarismo politico. Fatto da persone bellissime, a molte delle quali sono affezionato. In un arcipelago sparpagliato, in cui ancora pascolano anche tanti tristi e incanutiti professionisti delle sconfitte. Maestri delle sciagure elettorali annunciate. Un mondo nobile, ma che non inverte nulla. Si dice solo alla notte che è nera, brutta e maligna. Ma non la si ricaccia indietro. Non c'è più, e forse non c'è mai stato, tempo per fare il partito che ancora ha da venire. Godot non arriverà. Qui, come nella drammaturgia di Beckett. Bisogna puntare l'ultima fiche sul solo numero della roulette, su 36, che può uscire. Sperando che vada bene. Che lì, nel PD, dopo le primarie, succeda finalmente davvero qualcosa. Perché lì almeno si può giocare, è l'unico partito rimasto dove chiunque può partecipare; le primarie sono un metodo discutibile, ma almeno sono aperte e tutti. Non lo è la piattaforma digitale, manipolata dall'algoritmo dello studio associato; nei partiti di destra si obbedisce al ducetto; non lo sono le tante microscopiche appartenenze che pretendono fideismo e dichiarazioni di dogmatismo ideologico, o fedeltà al guappo di turno. Per cui io, alla soglia dei 50 anni, abbastanza impaurito sui tempi che corrono, il 3 marzo andrò alle primarie del PD; mentendo, per primo a me stesso, mi dichiarerò elettore di quel partito, consapevole già da ora che non lo voterò alle europee, e infilerò la schedina nello scatolone sotto il gazebo. Perché, il giorno dopo, a far vacillare anche per poco la notte, servono anche i numeri. La partecipazione è quello che conta veramente. Molto più dell'esito del voto. Di chi avrà vinto, o di chi avrà perso le primarie. La politica è così, e non da oggi. E in questo la solita solfa del “meno peggio” o del montanelliano “turarsi il naso”, non centra nulla. La politica, è una scienza esatta. Per primo. Poi, è valori, passione, sentimento, tutto quello che si vuole. Poi, me ne ritornerò a casa, alle mie passioni e ad occuparmi di cause che mi stanno non solo a cuore, ma sotto casa. E a guardare, essendo escluso a priori dal dare una mano, non potendo vantare uno ius soli de noantri, all’imminente sciagura elettorale degli sparuti piddini locali del paesello. Che consentiranno l’ennesima elezione consociativa di un sindaco sottopadrone; nel pieno solco del mai domo democristianesimo della lavatrice. E che darà il colpo di grazia a questo territorio e ad un paese in progressiva estinzione. Tornerò insomma al mio “irredentismo montanaro”, come un po’ provocatoriamente mi definito l’amico Mario Di Vito nel suo libro. E ad interessarmi di temi che riguardano l’ambiente, il paesaggio, il futuro dei paesi e di chi ci vive. Tutte cose che finora, non sono nell’agenda politica del PD. Che quasi sempre persegue il contrario. Sperando, però, che intanto il dispetto più grosso, il 4 marzo, io l'abbia fatto alla notte. Perché è lei il pericolo, se ancora non fosse chiaro. Tutto il resto è noia. O chiacchiere, belle, come si dice adesso, di radical chic e buonisti. Perché in fondo, a dire quanto sono stronzi, incapaci, o fascisti, su Facebook, si è buoni in tanti. Poi, però, bisogna trovare anche il modo, concreto, di metterci il corpo. Per me, spendere due euro il 3 marzo, mi pare questo sia il costo, diventa un piccolissimo modo, quasi indolore, di metterci il corpo. Sopportabile.


domenica 10 febbraio 2019

SOLE KUORE AMORE


Non guardo Sanremo da quando non più convivente con i miei genitori. Ma in questo non credo esserci un atteggiamento snobistico o “radical chic”, come si dice adesso. Semplicemente mi annoia. Mi annoia quel genere di musica (in macchina da anni ascolto solo un network radiofonico che trasmette rock). E, soprattutto, non riuscirei a seguire un programma televisivo, che da anni dura continuativamente quasi una settimana. Mi annoia da sempre il fatto che si voglia mettere un perimetro alla canzone italiana, che ci sia un festival della canzone italiana, etichettante. E che, quello che sta dentro quell'evento esclusivamente commerciale che è Sanremo, siano canzone e musica italiana, e quello che sta fuori non lo sia. Stringere, anzi costringere l'espressione musicale e artistica dentro una concezione identitaria, per certi aspetti cromosomica. Come se gli artisti italiani, la maggioranza peraltro, e penso alle generazioni dei cantautori, che non sono mai andati a Sanremo, non facciano parte della canzone italiana, e non abbiano stravenduto per anni. Sarà tragicamente singolare o no, che l'unico cantautore vero che è andato al Festival, si sia suicidato in una camera d'albergo? Mi annoia poi il dibattito postumo di certe edizioni del festival sui vincitori. Tipo quest'anno. La canzone che ha vinto, leggo, non ha niente a che vedere con la melodia italiana. Ma cos'è la melodia italiana? Esiste? Ha senso parlarne in questi termini, a mio avviso, se il riferimento è alla secolare tradizione del melodramma, o a certa canzone di alcune culture regionali, come quella partenopea. Se Sanremo, come evento dello spettacolo, è figlio dei tempi, ci sta che vinca un brano rap o hip-pop, perché quelli sono generi di musica chiari, definiti, scientifici per certi aspetti. E i giovani italiani, e tutti i ragazzini del mondo, interagiscono con la musica rap e attraverso i rapper. Ma come, adesso ci sorprende, quasi ci indigna, che questo genere di musica abbia vinto il cosiddetto festival della canzone italiana? Ma se proprio giusto due mesi fa, purtroppo, un paio di generazioni di adulti e genitori, discutevano con presunta competenza del bene e del male della musica rap, dei rapper, a seguito della tragedia di Corinaldo? Come se ad ammazzare quegli adolescenti fosse stato il genere di musica, e non la filiera commerciale dei locali da ballo, di cui anche non pochi artisti sono complici, che pur di far soldi, stipa persone in contenitori non a norma. E dopo aver improvvisamente scoperto, a seguito di quell'enorme lutto, quale musica tutti i giorni ascoltassero, e che miti avessero i propri figli, che inconsapevoli scarrozzavano tutte le settimane davanti a locali, il più delle volte non rispettosi di elementari norme di pubblica sicurezza e delle leggi, all’interno e all’esterno. Poi, come in tutti i mondi, e anche in quello della musica e dello spettacolo, ci sono personaggi negativi e positivi; che con la loro arte comunicano valori e disvalori. Ci sono stati artisti che sono stati a Sanremo, che hanno portato sul palco la tanto piaciute e desiderate canzone e melodia italiana, beccati poi nella vita con montagne di droga nel garage... Quest'anno ha vinto un rapper, con un testo che dice che i soldi non sono un valore e il tutto dell'esistenza. Mi pare un bel messaggio per i nostri ragazzi, che distratti e ignari portiamo a sentire artisti che gli dicono che invece nella vita contano solo i soldi, le macchine e la fica. Non mi soffermo per nulla su quanto sia più o meno straniero o italiano l’artista che ha vinto. Come ho avuto modo di leggere, apprezzandolo, questa sarebbe già una discussione e disquisizione razzista.





giovedì 7 febbraio 2019

LA STRADA BUONA


Il motore dell’Ape ha un suono che lo riconosci tra tutti. Anche da lontano. Ecco perché quando, nel silenzio spettrale o seducente della Gola (giudizio che dipende dai giorni, a seconda dell’umore con cui mi sono svegliato), passeggiando con il cane, ho sentito quel rumore, l’ho abitudinariamente ricondotto a Natale che, come tutte le mattine, stava andando o rientrando dal fare la spesa con il suo Ape verde. Poi però, girandomi, vedo che l’Ape non curva a gomito piegando un po’ di lato, verso la frazione abitata, ma punta verso dove mi trovo io. E, soprattutto, non è l’Ape verde di Natale, ma un altro Piaggio un po’ più grande, con scritte e disegni colorati sulla carrozzeria. “Sarà uno che va in giro a fare il riparatore tuttofare – mi dico - e s’è sbagliato strada”. E già, perché qui da mesi, con i cantieri della Quadrilatero per il raddoppio della statale, che fanno saltare l’ordinarietà dei navigatori, quelli che si sbagliano sono in tanti: dai turisti, ai camionisti, a quelli che in genere non conoscono la zona, e vengono disorientati dalla segnaletica che, per non farti più capire dove ti trovi, ci mette del proprio. Poi l’Ape di ferma accanto a me; dal finestrino si sporge uno che, un po’ in italiano e un po’ in francese, mi chiede se sta andando bene per Ancona. Gli dico che la strada più avanti è chiusa, che deve tornare indietro, e cercare le tabelle gialle con scritto “Ancona”, e che le trova dopo un paio di chilometri. Questa è la mia informazione oramai di rito quotidiano, verso tutti quelli che finiscono qui in mezzo. Mi guarda smarrito. Scende dall’Ape. Mi dice che le tabelle che dico io le ha viste, ma lui con l’Ape sulla superstrada e dentro la galleria molto lunga, non può andarci. Si, lo so, che non può andarci, perché lo prescrive il codice della strada. Sia che la nuova superstrada sia stata completata in alcuni tratti, sia che risulti una mezza incompiuta interrotta da cantieri fermi da mesi, come è oggi. Mi richiede il perché la strada dove siamo ora sia chiusa, sembra non farsene una ragione. Gli dovrei stare a spiegare che nonostante questa strada l’abbia fatta un Papa nel 1700 per collegare il porto di Ancona alla Flaminia e, di conseguenza, a Roma, ed è stata da quel tempo una strada pubblica, poi nell’Italia Repubblicana, i gestori pubblici, Provincia e Comuni, l’hanno data in uso esclusivo da decenni alle imprese delle cave, che si sono portati via buona parte dei monti di calcare massiccio della Gola della Rossa. E che continueranno a farlo fino al 2048, anno in cui scadono le concessioni estrattive. E che, oggi, per chi vive da queste parti sarebbe una strada fondamentale, per ragioni per primo di sicurezza, ma di riaprirla non interessa proprio a nessuno, perché gli affari veri si fanno con le cosiddette grandi opere; e le cave portano da decenni voti e contributi elettorali. Ma sarebbe troppo lungo raccontargli questo, e molto altro di quello che la politica da decenni combina da queste parti. E lui ha fretta di andare ad Ancona, si vede. Gli ribadisco che la strada è chiusa, e non c’è proprio niente da fare. Allora gli spiego che l’unico modo per andare verso Ancona con l’Ape, è quello di tornare un po’ indietro, e prendere la strada dei monti. Lo vedo sollevato, forse perché non ha idea di cosa lo aspetti. Prende da dentro l’abitacolo un quaderno a quadretti e una penna. E’ pronto per scrivere le indicazioni. Gli dico che deve tornare indietro, fino a dove c’è un grande cantiere stradale. Capisce dov’è, c’è già passato arrivando qui. Da lì deve prendere per Valtreara, le case che si vedono sopra il cantiere. Attraversare l’abitato, e poi dall’unica strada che c’è, iniziare a salire per i tornanti fino a Castelletta. Arrivato su al borgo, iniziare a scendere i tornanti dall’altro versante in direzione Serra S. Quirico. Poi, laggiù, di nuovo arrivato a valle, oltrepassato il fiume e il passaggio a livello, ritrova la vecchia statale, e può arrivare direttamente ad Ancona, senza passare più su superstrade o autostrade. Richiuso il quaderno, mi ringrazia, fiducioso. Non avendo finora dato molto peso alla grafica e alle scritte colorate sull’Ape, gli chiedo se è un turista. Mi risponde che sta facendo un viaggio, e sta andando in Giappone per vedere il mondiale di rugby che ci sarà a settembre. E che è partito da Nizza. Con l’Ape. Allora, ho la sensazione di aver fatto una conoscenza ed un incontro clamorosi. Gli auguro, un po’ disorientato, buon viaggio. Mi ringrazia, ci salutiamo. Mette in moto l’Ape, gira, e riparte. Verso il Giappone. Da Pontechiaradovo di Genga. Tornando verso casa, ripenso a questo incontro; a questo signore mite ed educato. Qui, da queste parti, sono tempi in cui si dibatte, si protesta, ci si indigna, perché la nuova superstrada voluta da decenni dalla politica, non è pronta. La ditta appaltatrice è in concordato bianco, i lavoratori in cassa integrazione o licenziati, i cantieri aperti e abbandonati da mesi, il tracciato che c’è ora è diventato pericolosissimo, con un territorio sventrato nella sua fisionomia paesaggistica e naturalistica. Una situazione che fotografa il fallimento di un’idea di sviluppo e della classe dirigente che l’ha voluto a tutti i costi. In un contesto nazionale, in cui ancora stiamo a discutere su TAV o non TAV, quando la risposta è già storicizzata. E ti arriva lui, questo francese in Ape Piaggio, che da Nizza, senza bisogno di alcuna grande opera, ti dimostra che si può lo stesso arrivare in Giappone. E che, l’unica cosa di cui ha bisogno, lui viaggiatore, come quelli che abitano in questa parte dell’Appennino, è che potesse essere aperta, aggiustata e resa di nuovo pubblica, una strada fatta da un Papa quasi trecento anni fa. E che, soprattutto, un altro mondo è possibile. Quello che chiaramente non vogliono quanti, al bene comune, antepongono la propria saccoccia. Il francese che stasera si imbarcherà dal porto di Ancona con l’Ape per la Croazia, si chiama Jean Jacques Clarasso. Nel retro dell’Ape potete trovare il sito dove seguire il suo viaggio: http://www.rugby-wcjv.fr/. E su Facebook: Rugbyworldcup-jyvais
Ho avuto il privilegio di conoscerlo a Pontechiarodovo di Genga.