Fa caldo a Fiastra, sotto il gazebo
sopra il lago, affollato di persone. Non è come l'ambiente climatizzato di una
sala convegni di uno storico hotel sulla costa. Certo, qui c'è la vista lago,
anziché la vista mare; quel lago, dove riconosci subito sulle sponde i segni naturali
dell'abbassamento forzoso del livello dell'acqua, fatto mesi fa per precauzione
sismica. Così come, arrivando lì, e attraversando il borgo di Fiastra, sono
dolorosamente evidenti i segni lasciati dalle scosse terribili del 2016 e,
insieme, i segnali di una precaria quotidianità continuata in nei m.a.p.
(container): le poste, la farmacia, qualche piccola attività commerciale.
Container e case puntellate che ridisegnano un nuovo, indesiderato, ibrido
modello urbanistico. Le decine di persone, eterogenee per provenienza, età,
attività lavorativa, sono i partecipanti al Festival di TERREINMOTO Marche, la
rete di associazioni, movimenti, cittadini, imprese locali, nata all'indomani
dei terremoti devastanti per questo tratto di Appennino (da Fabriano ne fa parte
il Laboratorio Sociale Fabbri). Che in dieci mesi e oltre oramai,
volontariamente e quotidianamente, si è prodigata nella solidarietà,
nell'informazione alle popolazioni colpite, nel rappresentare nei confronti
della filiera istituzionale i bisogni e i diritti di quanti, in qualche minuto,
hanno perso tutto: persone care, casa, lavoro, relazioni personali e sociali, e
che si trovano sballottati e rimpallati tra camping e alberghi, ordinanze e
scartoffie. E che rischiano, questo sì molto dannoso, di perdere dopo oramai
undici mesi, la cosa meno materiale ma più preziosa che posseggono: la propria
dignità di cittadini. Non ci sono, tra i volontari e gli animatori di
TERREINMOTO, personalità di caratura accademica, o di lungo corso politico-istituzionale,
o manager di aziende o fondazioni; piombati sul posto per le poche ore
circoscritte ad un seminario o un convegno, anche se fino a qualche giorno
prima l'Appennino marchigiano per questi era solo un puntino elettronico su
Google Map. Ci sono giovani donne e uomini molto anonimi, molti dei quali
laureati e con competenze qualificate, che ogni mattina hanno un grande, ma
molto comune, obiettivo: svegliarsi per mettere insieme, come si dice, il
pranzo e la cena; per sé e per la propria famiglia. E che sono associati da un
unico, qualificante, comun denominatore: vivono, abitano (o meglio diversi
abitavano), sull'Appennino colpito dal sisma. E, cosa assai incredibile,
non si prefiggono come altri di far rivivere, rinascere o risorgere
l'Appennino; azioni peraltro, almeno le ultime due, che presuppongono una certa
dose e facoltà di mistica e trascendenza. Quelli molto accaldati, che spostano
le sedie a seconda di come gira la palla del sole all'orizzonte, sotto la
tensostruttura sul prato, per riposizionarsi, non tanto a livello politico o
professionale, ma semplicemente in base all'ombra di cui beneficiare, hanno
semplicemente tre piccoli obiettivi molto terreni: “Tornare, Resistere,
Ricostruire” (il tema del Festival). E un grande, enorme, emergenziale
questione, che le faglie dell'Appennino, sconquassandosi, hanno portato a
giorno: quale modello di democrazia esiste nella gestione dei territori, e
nelle politiche per quanti vivono e lavorano in montagna? Perché, alla fine, il
tema profondo che in questo caso il terremoto ha rimesso al centro, ma che
potrebbe essere anche qualsiasi altro evento naturale che mette in relazione
uomini e paesaggio, è proprio la democrazia. E guardando a molte delle
procedure, sia legate alla gestione dell'emergenza che alle fasi successive, è
evidente che l'indice di democrazia è abbastanza basso, quasi alla stregua di
qualche paese autoritario della penisola araba con cui le nostre Istituzioni
intessono rapporti di affari; e questo non solo per il post terremoto 2016, ma
già dalla catastrofe del 2009 a L’Aquila. Pochi sanno che, ad esempio, nelle
strutture adibite ad accoglienza della Protezione Civile, non vengono serviti
caffè, alcolici, alimenti eccitanti in genere, e che per chi vi si trova a
viverci temporaneamente, è fatto divieto di riunirsi in gruppo o comunità Una sottrazione di concertazione delle scelte
con le persone interessate, una spoliazione di ruolo delle autonomie locali, la
mancanza di ascolto dei bisogni e delle peculiarità di chi sull'Appennino ha
vissuto, e che vuole tornare per perseguire un proprio ed indipendente modello
di vita, economia, relazioni. E TERREINMOTO, in questi mesi di questo si sta
facendo carico, di ascoltare condividendo, di rappresentare allargando la
partecipazione e il coinvolgimento, di mettere al centro di un percorso le
persone. Di definire, partendo da una relazione fisica e quotidiana, una ricostruzione
che non sia solo edilizia, ma ancor prima culturale, sociale ed economica. E il
rapporto diretto, la relazione, definiscono un quadro più nitido di qualsiasi
indagine del Censis, rispetto alle priorità per l'Appennino e la quotidianità
dell'abitare sui territori montani. E due sono gli architrave di questa ricerca
empirica e diretta, fatta non con la statistica e i questionari, ma per strada:
la prima, che va posta fine alla rapina perdurante da decenni, in virtù di un
profitto di pochi, del territorio, del paesaggio e delle risorse della
montagna, che sono beni comuni (quindi per essere chiari, ma solo per fare un
piccolo esempio, basta con infrastrutture e grandi opere, utili solo a qualche
portafoglio). Poi, la seconda, che il futuro dell'Appennino non passa
attraverso l'idea di un'economia turistica che lo trasformi in una sorta di
grande resort o “villaggio vacanze diffuso” per ricchi, in cui la vita di chi
ci vive ed abita, anziché la risorsa principale, diviene un fastidio (e per cui
il perseguire politiche di abbandono e spopolamento è funzionale a ciò), un
Appennino anziché di cittadini, per qualcuno di nuovi dipendenti. Già prima del
terremoto, sull'Appennino molte erano le esperienze avanzate di agricoltura,
pastorizia, ecoturismo, fatte da giovani che, partendo spesso da radici
familiari, avevano le conoscenze e le competenze per far convivere "il
pero con il computer". Per cui, tanto più ora, non c'è bisogno di
qualcuno, che in virtù di un buonismo lacrimevole e predatorio al tempo stesso,
arrivi da fuori per imporre un suo modello di sviluppo senza alcun rapporto di
ascolto e confronto con i territori, finalizzato ufficialmente ad un generoso
impegno per il rilancio della montagna ferita dal terremoto. Soprattutto poi,
se questi “qualcuno”, sono gli stessi che in passato l’Appennino, per interessi
economici propri, l’hanno spolpato quasi fino all’osso. A chi vuole tornare,
resistere, ricostruire, non servono progetti di zootecnia intensiva perseguiti
da colossi dell'agroalimentare, già trombati e respinti da altre Regioni e che
si pensa di riciclare nelle Marche; come non servono progetti di frutticultura
intensiva perseguiti da grandi aziende alimentari, senza una vocazione
agronomica in questo territorio, e non vincolati
a rigorose prassi di coltivazione biologica. All'Appennino ferito dal terremoto,
serve per prima cosa, il rispetto dei principi cardine della Costituzione
Italiana: un sistema Istituzionale che garantisca diritti, servizi, legalità,
rispetto e tutela del territorio. Se la ricostruzione passasse per declinare e
perseguire anche e solo i valori costituzionali, saremmo già un pezzo avanti;
ma invece dopo 11 mesi non è così... Queste riflessioni, e la conseguente
definizione di politiche e scelte, allora, bisogna farle sul posto, al caldo e
con qualche zanzara intorno, a contatto con la stanchezza negli occhi di chi
dorme da mesi in una roulotte, per non far mancare niente alle sue pecore e
mucche, o incrociando le lacrime di chi da quasi un anno non ha più una
comunità con la quale intessere relazioni, perché quelle persone sono state
deportate, frammentate e divise tra alberghi e camping marini, o guardando da
un prato sopra un lago la bellezza e la devastazione. Politiche dal basso,
partecipazione, dialettica confronto e, solo alla fine, decisione. Se si
inverte il processo, e si guarda all'Appennino e ai suoi abitanti, come i
corpuscoli su un vetrino di laboratorio, e si pensa e decide per loro quale
debbano essere la cura e la terapia, si diventa conseguentemente nemici
dell'Appennino e dei suoi abitanti; e nemici da sconfiggere; "quando la
vita viene aggredita dall'esterno - diceva una ragazza sotto il tendone - la
vita reagisce". L'incontro di Fiastra, e il percorso dell'esperienza di
TERREINMOTO, ha davanti a sé ora una grande responsabilità e opportunità:
riaprire, partendo dal dramma del terremoto e dal percorso della ricostruzione,
la partita della democrazia nei territori, contro ,l'imposizione di un modello
economico di depredazione delle risorse, nello spirito tale e quale a quello di
quanti ridevano di notte nell’aprile 2009 e nell’agosto 2016. Un percorso, che
passa attraverso l'estensione e la
saldatura di una rete di cittadini che attraversi tutta la dorsale italiana: da
chi si batte per la difesa degli ulivi (e non solo) nel Salento, per l'acqua
pubblica in Abruzzo, contro un gasdotto che attraverserà tutto l'Appennino per
oltre 600 km passando sotto tutte le faglie attive che si sono attivate dal
2009 ad oggi, fino a chi lotta contro lo scempio e i micro terremoti causati delle
grandi navi da crociera nella laguna veneziana, e contro la tav torino-lione; e
tanti, oramai veramente tanti, altri. Alla fine, tutta la riflessione di questi
mesi e di Fiastra, la sintetizza spontaneamente, sotto il gazebo sul lago, Enzo
Rendina, che è venuto insieme ai volontari del Gus. Enzo è stato l'ultimo
abitante di Pescara del Tronto; ha aiutato in quella tragica notte del 24
agosto a cercare i vivi ed i morti tra le macerie; poi lui non se n'è voluto
andare, non ha voluto farsi deportare, ed è rimasto lì in una tenda fino a
gennaio di quest'anno; quando una sera l'hanno arrestato e carcerato, per
inosservanza dell'ordinanza del sindaco (“s” minuscola in questo caso) che
intimava a lasciare il territorio comunale a qualunque essere vivente. Ora è
sotto processo che, come è tradizione, durerà anni. È un uomo buono e mite
Enzo, si vede dagli occhi; ha solo un amore esagerato per la sua terra, e per
il suo paese che è stato polverizzato dalle scosse. I giornali nei mesi scorsi
l'hanno definito "irriducibile", perché non se ne voleva andare; una
parola che richiama notti buie per la democrazia. "Irriducibile io? - si
domanda Enzo sotto il tendone di Fiastra - Gli irriducibili sono loro, non si
fermano mai".
giovedì 27 luglio 2017
DI PISTE CICLABILI E SCELTE DI CAMPO. CULTURALI E IDEALI
Può una pista ciclabile diventare il paradigma di come si possa intendere il destino dell’Appennino? Perché in fondo è questo, io credo, il nodo della questione che si apre, a seguito della proposta della Regione Marche di destinare una cospicua parte del ricavato degli sms solidali post sisma (5,5 milioni di €); ovvero a realizzare parte di un tracciato molto più lungo, di carattere ciclabile, che attraversa dalla costa, i territori e le comunità colpite dai terremoti. Con lo scopo di rilanciare il turismo in quelle zone. Non entro nel merito, certamente legato ad un senso di etica pubblica, sulle finalità di utilizzo dei fondi; sarebbe semplice e scontato. Sull’Appennino italiano vivono all’incirca complessivamente oltre 20 milioni di persone; non sarebbe una forzatura, ma avrebbe anche giustificazione storica, culturale, sociale ed economica, parlare di un Popolo dell’Appennino. E allora il turismo rappresenta certamente un aspetto, importante ed anche di sviluppo, ma della sola dimensione economica. Se però nel mentre, a causa di una catastrofe naturale, i terremoti del 2016 ad esempio, o di scelte politiche ed istituzionali che negli anni hanno perseguito, e perseguono tutt’ora, lo spopolamento e l’abbandono dell’Appennino (perché tenere le persone in montagna costa, sono poche e disaggregate, e quindi il rapporto investimento pubblico/ritorno elettorale è fortemente negativo), le aree montane rischiano una desertificazione definitiva, quale turismo si vuole? Semplice: quello di un territorio Appenninico trasformato in enorme villaggio vacanze, come la costa egiziana per capirci, con tutto tranne che gente che ci vive, fa figli, cura il territorio, lavora, e muore persino. Un Appennino ad uso (meglio abuso) e consumo stagionale, in cui ci puoi anche far passare un gasdotto come quello Gazprom/Eni/Snam, e trasformare un cementificio fallito in un megaimpianto di termovalorizzazione (detto comunemente inceneritore). E in cui hanno senso, ad esempio, sette eliporti quasi confinanti (pagati nelle intenzioni anche questi dagli sms solidali).
Il prossimo fine settimana, quello dal 21 al 23 luglio, nelle Marche ferite dal terremoto, ci saranno due importanti ed autorevoli consessi dove approfondire quale futuro si vuole per l’Appennino. Il primo è “RINASCO – le Città Creative per l’Appennino”, promosso dalla Fondazione Merloni. Con conferenzieri di prestigio, ma senza alcun radicamento nel territorio. Un soggetto, quello promotore, espressione di una cultura politica che nei decenni ha già spolpato l’Appennino quasi fino all’osso, e che ha perduto in conseguenza di ciò ogni credibilità; ma che adesso lo vede come un nuovo e grande business legato al “turismo del resort”. Un Appennino di nuovi dipendenti, ma non di abitanti e cittadini. Poi c’è "Terre in Moto Festival - 20/23 luglio, Fiastra (MC)" al Lago di Fiastra. Promosso da una rete di associazioni, imprese, cittadini, che da dieci mesi si batte (e si sbatte) per aiutare, sensibilizzare, informare le comunità colpite dal sisma. “Tornare, resistere, ricostruire” è lo slogan dei tre giorni, o meglio le parole forti di un vero progetto politico; sono previste escursioni, spazi per bambini, cibo a km0 della aziende agricole ferite dal terremoto, incontri su temi di carattere democratico, sociale e ambientale, con relatori protagonisti di lotte quotidiane nei territori. Un Appennino di persone che vogliono essere protagoniste del proprio futuro e della salvaguardia del territorio. Due visioni, due mondi, due idee di Appennino diverse, e giustamente antagoniste. Decidete liberamente da che parte stare e dove passare quei tre giorni. Ma sappiate che si tratta, ancor prima di uscire da casa, di fare una scelta di campo culturale ed ideale; non senza ripercussioni per l’Appennino ed il suo popolo di abitanti.
* pubblicato da Genziana Project il 13.07.2017
domenica 2 luglio 2017
VIALE DELLA RINASCITA n. 1
L'ha tenuto stretto tra le mani tutto
il tempo dell'incontro, quasi due ore, senza muoverlo, senza appoggiarlo
neanche sulle ginocchia, come fosse la cosa più preziosa del mondo. È rimasta
seria, sempre, accigliata, con lo sguardo fiero da donna dell'Appennino,
attenta ad ascoltare tutte le parole che si dicevano, come se non volesse
perderne anche una. Aveva sorriso solo prima di sedersi per l'incontro, prima
con gli occhi enormi, sgranati, come quelli di una bambina, solo dopo con le
labbra; quando Laura (mia moglie, cosi palesiamo subito il conflitto di
interessi), gli aveva detto che lì dentro c'era il suo nome, si parlava di lei.
Lì dentro, è lì dentro il libro "I Racconti di San Pellegrino", che
oggi veniva donato agli abitanti di S. Pellegrino di Norcia. Pagine e parole
scritte prima con l'anima e poi con la tastiera dai tre autori ternani, Laura,
Marco e Marco, la cui vendita andrà a sostenere il progetto di Rifiorita, con
cui da mesi ex liceali oramai cinquantenni hanno coinvolto una intera città,
Terni, dai boy scout agli ultrà della Ternana. L'obiettivo è quello di
raccogliere la somma necessaria perché a San Pellegrino, piccolo paese di poco
più di cento abitanti nella piana di Norcia, possano avere a breve una
struttura da adibire a centro sociale. "Che cosa vi serve - avevano
chiesto loro ai primi di novembre - cosa possiamo fare?" E loro, che dal
24 agosto non avevano più nulla, perché tutto il paese è stato polverizzato dal
terremoto, avevano chiesto non una cosa per sé o per altri in particolare, di
emergenza o di prima necessità, ma qualcosa per tutti, che ristabilisse il
senso della comunità, della relazione, dell'appartenenza: un centro sociale;
strani questi montanari... E stamattina erano tutti lì, nel viale ritagliato
dal villaggio "Della Rinascita", che separa le SAE dove abitano da
febbraio gli abitanti. C'era molta emozione, nel ritrovarsi, nel rivedersi.
Eravamo stati qui il 27 dicembre e il clima era diverso, ma sempre di speranza
e di battaglia. Ma appena sceso dalla macchina, sentivo che c'era qualcosa di
strano, che non andava... Non sentivo quel tanfo maleodorante e putrescente
della Strategia dell'Abbandono (e di quanti la perseguono), che si annusa
subito nelle Marche. Ma non tanto perché ci sono le SAE abitate dai primi di
febbraio, che avevo visto già consegnate e pronte da montare il 27 dicembre
(nelle Marche, ad Arquata del Tronto, dal 24 agosto, stesse procedure, i primi
assegnatari sono entrati in casa il 30 giugno; così, per dire...). Ma perché
qui, da quella mattina del 24 agosto non se n'è andato nessuno, e nessuno li ha
deportati al mare forzosamente, ma sono rimasti a San Pellegrino, hanno potuto
montare tende e casette fai da te nell'orto in giardino senza essere denunciati
per abuso edilizio; è vero, qualcuno timidamente ci ha provato a proporgli di
andare al mare e al lago, ma loro hanno reagito come comunità, hanno resistito,
tutti per uno e uno per tutti. Hanno tribolato, è stata dura con l'inverno, gli
animali, ma stamattina sono comunque contenti di esserci, di stare qui, di
accogliere. Una famiglia mi invita per un caffè dentro la loro SAE. Ho voglia
di un caffè, ma mi sento di disturbare, di invadere la loro ritrovata stabilità
precaria. Accetto, e nell'entrare mi viene l'istinto di togliermi le scarpe
come si usa fare in Giappone, in segno di rispetto. Prendo il caffè, in piedi,
anche se sono stanco, ho fatto in tre giorni più di mille chilometri, e mi
siederei volentieri sul divano compreso nell'allestimento SAE; ma anche qui
prevale uno strampalato istinto di delicatezza e rispetto. "Se ti serve il
bagno - dicono - fai pure". "No grazie - anche se ci andrei di corsa
- non ne ho bisogno". Chissà perché, in quel modulo così impersonale, dove
sono riusciti a portare solo una vecchia credenza dalla casa crollata, mi
scatta un istinto di attenzione e rispetto per quell'ambiente, che per loro ora
è il tutto, che è del tutto irrazionale. Poi torniamo, inizia l'incontro,
Isabella l'editrice non vuole parlare, è emozionata, dice che già gli viene da
scoppiare a piangere appena scesa dalla macchina. "Annamo bene - penso -
già è difficile per tutti non commuoversi solo nel ritrovarsi con gli occhi, e
adesso ti ci metti pure tu..." Però l'incontro poi va bene, è bello,
Isabella poi parla, e parla pure Lucio, il pompiere di Terni che è vissuto qui
con loro per mesi, e oramai è di San Pellegrino pure lui. Alla fine inizia a
piovere, ma si pranza tutti assieme sotto gli spioventi delle SAE. Ho capito
durante l'incontro perché qui non c'è puzza di Strategia dell'Abbandono; è
perché c'è una comunità forte, coesa, che ha resistito alle sirene
ammaliatrici, e poi anche perché qui, seppur ritardi, problemi, disguidi ci
sono stati, c'è stato un po' di buon senso delle Istituzioni. E perché forse
alla fine, qui non c'è un mare dove deportare per razionalizzare i servizi e
spopolare la costosa montagna (e il Trasimeno si sta prosciugando), nè magari
un enorme invenduto da bolla speculativa immobiliare da rifilare ai
terremotati. Alla fine arriva Cecilia, la più anziana del paese, con suo libro
stretto ancora in mano, quello dove si parla di lei. "Io abito laggiù - ci
dice sorridendo - mi hanno dato la SAE al civico n. 1, la prima. Quando tornate
venite a suonarmi".
P.S. Il libro "I racconti di San Pellegrino", di Laura Trappetti, Marco Morandi e Marco Vescarelli, edizioni Intermedia costa 10 €. Lo trovate su Amazon o sul sito della casa editrice. San Pellegrino ha bisogno di un centro sociale.
domenica 25 giugno 2017
DISASTRI E RICOSTRUZIONE. Svolgimento.
La Commissione ministeriale preposta o magari un algoritmo, ha avuto l'idea, qualche giorno fa, di inserire tra le tracce dello scritto di italiano della maturità, un tema dal titolo "Disastri e Ricostruzione", da svolgere sotto forma di saggio breve o di articolo giornalistico; non oltre le cinque colonne di protocollo scritte a metà. Prova di scrittura stimolata da tre documenti, due articoli di giornale in cui si richiamano il bombardamento di Montecassino e il sisma del 2016, l'alluvione di Firenze, e un brano del Principe di Machiavelli. La prima cosa che mi è venuta in mente è, che ai tempi della mia maturità, 29 anni fa, arrivare alle cinque colonne era un record da medaglia olimpica, uno sforzo leonino di scrittura e fantasia che solo pochi arditi erano in grado di raggiungere... Mentre ora viene fissata l'asticella del "non oltre". Dall'idea che mi sono fatto, leggendo qua e là, è che la pensata della Commissione/algoritmo, non ha avuto grande riscontro tra i maturandi. Dopotutto, perché uno studente che vive lungo lo Stivale, dovrebbe cimentarsi su tale tema: il terremoto del 2016 l'ha visto per pochi giorni in televisione o su internet quando c'erano i morti, dell'alluvione di Firenze dubito che vi sia cenno nei programmi di storia, il Machiavelli "due palle", figuriamoci poi per il bombardamento di Montecassino. E perché poi invece, uno studente terremotato nel 2016, dovrebbe fare oggetto pubblico ad una commissione di estranei di quello che vissuto, se malcelatamente fosse questo stato un obiettivo? Pensate che sia facile parlare di che cosa sia visceralmente la paura, il terrore, non ritrovarsi in pochi minuti più niente di ciò rappresentavano quotidianità e normalità, di cosa rappresenti dover vivere da dieci mesi in una casa in affitto in un'altra città, o in un albergo, in un bungalow sulla costa e, per non pochi, non ritrovarsi più magari neanche la scuola. Ti piacerebbe, Commissione/algoritmo, sapere invece cosa uno di questi studenti possa provare a vedere le facce opache dei propri genitori, senza più casa e lavoro, o gli occhi spenti allucinati dei nonni, parcheggiati in una panchina sul lungomare a gennaio, che aspettano solo che faccia di nuovo notte e poi giorno, e poi di nuovo notte... Ma invece, non te lo dirà mai, perché sono cose indicibili, e ti commenta la poesia del Caproni. Forse, Commissione/algoritmo, avresti più avuto successo se anziché due passaggi di articoli di giornale e il Machiavelli, avessi messo semplicemente un verso di una poesia Alvaro Mutis, in cui si parla di "elementi del disastro", la Preghiera di Maqroll il Gabbiere. Ma tu, Commissione/algoritmo, che cazzo ne sai di chi è Alvaro Mutis, grande poeta e scrittore colombiano scomparso quattro anni fa, che l'unica sfiga è stata per lui quella di essere contemporaneo di Marquez, ma a cui per poetica e genio, non era di certo secondo...E si, perché mica è vero che determinate sciagure e loro conseguenze postume, sono esclusiva colpa della natura cattiva? Gli elementi del disastro, secondo Mutis, sono gli uomini, quelli che determinano "le leggi del branco" con le loro decisioni, scelte, azioni, interessi. E allora forse, su questa traccia avrebbero potuto cimentarsi sia gli studenti dentro il cratere, che quelli fuori. Perché sanno magari che se costruisci a cazzo in zona sismica, il terremoto ti rovescia sopra tutto; che se fai passare una pedemontana sopra un giacimento naturale di gas, forse potrebbero esserci dei problemi di sicurezza; che se un territorio lo devasti con insediamenti antropici ed attività economiche impattanti e lo rendi più vulnerabile, è quindi più probabile che una pioggia torrenziale si porti via tutto; che se potentati russi ed italiani debbono far passare centinaia di chilometri di gasdotto lungo l'Appennino, meno gente che ci vive e che rompe i coglioni c'è lì, meglio è; che se...tanto altro. Ma tutto questo ha degli "elementi del disastro", che noi e i maturandi conosciamo, stanno anche dalle nostre parti, hanno avuto ed hanno responsabilità, e sarebbe davvero sconveniente che dei temi scolastici della maturità, atti pubblici, possano solo lasciare intendere, neanche necessariamente fare i nomi. Ma la Ricostruzione, quella vera, materiale e morale, passa attraverso l'accantonamento definitivo degli "elementi del disastro", che stanno sempre lì pronti a riproporsi anche con nuove sembianze. E questo, oggi, molti studenti lo sanno, è molto più veloce e più semplice essere informati. E intendono magari non occuparsene in un tema, ma in altre forme partecipative e democratiche. Perché qualcuno di loro si sente già, seppur giovane, "servo disobbediente alle leggi del branco". Come Enzo, Gilberto, Francesca, Emamuele, Daniele, Rachele, Agostino, Claudia, e tante e tanti altri, che da dieci mesi o da tutta la vita, "viaggiano in direzione ostinata contraria". Sul tema, per ora, meglio Caproni.
martedì 9 maggio 2017
LA SQUADRA
La tensione e l’attesa erano palpabili nell'aria da giorni; se ne
parlava durante i parlamenti serali, fino diventare l'argomento esclusivo.
Oggi, alle 9, sarebbe arrivata al paesello la Squadra. C'era già chi si
aggirava con carte e lettere, illustrando e spiegando al vicino, ipotizzando
responso e soluzioni. Alla fine, pur non essendone direttamente coinvolto,
dall'arrivo e dall’opera della Squadra, stamattina m'è toccato stare qui pure a
me. "Tu sai le cose - mi dicono - sei quello che ha studiato, e c'hai le
conoscenze...". Per cui quando verso le 8 esco con il cane, lì trovo già
tutti fuori, la strada brulica, è tutto un chiacchiericcio, e il cane un po' si
incazza; lui di solito a quell'ora per strada c'ha l'esclusiva, a parte il
pulmino che passa a prendere i bambini per la scuola. La mattinata, sentivo,
già non deponeva al meglio, vuoi per il tempo, vuoi per aver letto che nella
città confinante dove a giugno si vota, si è arrivati a far leva sulla buona
fede e generosità di un anziano di 95 anni, un Partigiano, candidandolo a modo
di marchio di qualità come Capolista; sperando di prendere qualche voto in più.
Mi hanno insegnato che il Capolista dovrebbe essere quello che prende più voti
di tutti. E se poi non prende più preferenze di tutti o non viene eletto, che
cazzo di figura si fa, non con la città, ma con la dignità di questa persona?
Su quella di chi ha avuto questa folgorante idea, sorvoliamo. Sarà che quando
vivi in una frazione dove i più sono anziani, ridefinisci con queste persone la
modalità del rapporto, teso all'ascolto, alla clemenza, alla cura... E qui
stamattina sono proprio tutti, pure quelli di fuori, sono arrivati dal Belgio, da
Roma e da Terni e quelli sparsi per la Regione. Succede solo a Ferragosto, ma
oggi però arriva la Squadra. Per tutti, la Squadra sono i tecnici dell'Ufficio
per la Ricostruzione della Regione, che verranno a fare i sopralluoghi sulle
case danneggiate dal terremoto, e li accompagneranno i tecnici del Comune. La
richiesta per i sopralluoghi andava fatta entro la metà di gennaio, così tanto
per avere presente una temporalità di risposta. Ma appena arriva la macchina,
la delusione al paesello è subito percettibile tra la piccola folla radunata
nell'attesa. Dall'auto scendono solo i tecnici comunali, gli altri non ci sono;
la Squadra sono loro. Mi spiegano, a me che "so le cose", che siccome
il Comune non sta nel Cratere, l'Ufficio Regionale ha delegato loro a fare i sopralluoghi.
Sul perché il Comune non stia nel cratere, per il prevalere di interessi di
bottega locali sulla disponibilità dello Stato, è una questione lunga, che
"io che so le cose, che ho studiato e c'ho pure le conoscenze",
regolerò tra un paio d'anni alle elezioni comunali... Per cui i tecnici
comunali, sempre disponibili e sensibili, stamattina hanno passato in rassegna
solo alle case su cui il Comune ha già emesso l’Ordinanza Sindacale lo scorso
fine ottobre, e compileranno una scheda FAST sommaria. Poi il Comune o la
Regione (non s’è capito), la trasmetterà ai proprietari, che dovranno trovarsi
un tecnico di fiducia qualificato per compilare la scheda AEDES, che è
condizione necessaria per avviare la procedura per richiedere il contributo
della ricostruzione e fare i lavori. Per le altre richieste di sopralluogo,
formalizzate sempre nei tempi dai proprietari, quelle senza Ordinanza
Sindacale, bisognerà aspettare che passi la Squadra della Regione, quando non
si sa. Per cui, alla fine, stamattina i tecnici del Comune si sono rivisti case
già ispezionate da loro per primi mesi fa, ed in alcune, chiaramente, non ci
sono manco entrati, perché la situazione era più che nota. Con i paesani, che
chiedevano che almeno rientrassero a vedere, come segno di attenzione e solidarietà:
"se venite dentro da me - fa una signora - vi faccio il caffè". Questo
è quanto, alla fine chi era arrivato da lontano se n’è ripartito, chi sta qui,
tra un chiacchiericcio di espressioni rituali, dal preoccupato "qui non si
sa quando rimetteremo a posto", al più classico "a quelli lassù bisognerebbe
ammazzarli tutti". Poi ad un certo punto, come ha detto Aldo da Ciampino,
che è venuto col nipote, "s'è fatta 'na certa". "Senti Leonà -
chiede Aldo - ma stamattina le Grotte so' aperte? Quanto dura un giro?" Si, certo - rispondo -
fino alle 18, la visita dura un'oretta" "Allora - fa Aldo - io porto lui a vedè le Grotte che
non l'ha viste mai, e io le rivedo prima de morì, poi s'annamo a magnà 'na
cosa e ripartimo. Vieni a magnà co' noi dopo?"
domenica 7 maggio 2017
VENITECI A PRENDERE
Molòn labé (μολὼν λαβέ): "Vieni a prendere".
Il motto, che fu nell'antichità degli eroi di Leonida I alle Termopili di
fronte alla sterminata armata di Serse, e più recentemente nel 1973 degli
studenti del Politecnico di Atene, asseragliatisi dentro i cancelli dell'ateneo,
contro le milizie dei Colonnelli fascisti, potrebbe benissimo diventare il
motivo della resistenza di questi ragazzi di Castalsantangelo sul Nera. Da
ottobre hanno scelto di restare qui in roulotte, assieme ad alcuni allevatori,
per ribadire il diritto a vivere sull'Appennino, e a non far chiudere
definitivamente i battenti a questa comunità, deportata d'ufficio sulla costa.
All'inizio erano otto, poi come nelle brigate partigiane, altri si sono
arruolati e adesso sono in tredici. Da subito, dopo le scosse, si è fatto il
possibile perché non si piazzassero
roulotte o container nel parcheggio, ma poi loro le hanno messe e basta. Altri,
raccontano, stanno arrivando e si aggregheranno; si sono trovate, grazie al
volontariato e alle donazioni, nuove roulotte, per allargare la comunità. Sono
stanchi, provati, sfiduciati; hanno passato l'inverno anche a temperature
inferiori ai 15 gradi. Hanno tutti intorno a trent'anni. Sanno,
consapevolmente, due cose; la prima è che in qualsiasi momento potrebbero essere
forzosamente allontanati: il paese è chiuso, evacuato, zona rossa. La seconda,
più demoralizzante, è che se non ci saranno, come dicono loro, segni concreti
di ripristino di una minima quotidianità entro qualche settimana, chi se n'è
andato non tornerà più, e loro stessi non ce la possono fare a sopportare
un'altra invernata pesante dentro la roulotte. "Perché – si chiede uno di
loro - io non posso immaginare di continuare ad avere una vita qui, a metter su
qua una famiglia? Ma se continua a non succedere niente, come faccio a proporre
ad altri un futuro qui accanto a me? I miei se ne sono dovuti andare a forza
subito, gli hanno dato una tripla in albergo: ci sono babbo, mamma e nonna che
c'ha più di ottant'anni, chiusi insieme in una stanza da sei mesi; poi adesso
può darsi che li spostano da un'altra parte." Mi portano a vedere intorno
alla zona rossa, a piedi fino ad una piccola frazione; ha smesso di piovere ed
è uscito un sole caldo e umido. Il paesaggio magnifico dei Sibillini, è oramai
assurdamente integrato con le rovine delle case e i cumuli di macerie. Si vede
bene un versante della Cima di Passo Cattivo, dove la montagna in sommità s’è
proprio staccata ed ha originato due coni franosi di detriti. Mi raccontano,
storie, episodi di questi mesi. Alcuni sono da filmografia fantozziana. Come
quello di un paesano che è stato costretto ad andar via, e ha trovato un
affitto in un paese non lontano, usufruendo del contributo di autonoma
sistemazione. Un buon affitto, poi però quando lo Stato ha aumentato,
giustamente, la cifra erogata riparametrando le situazioni, anche il
proprietario gli ha subito aumentato l'affitto; una storia italiana quasi
ordinaria, se non fosse che il proprietario dell'appartamentino non fosse anche
il sindaco pro tempore della cittadina... Mi fanno vedere dove la faglia ha
aperto e sollevato di diversi centimetri l’asfalto, per poi proseguire sul
pavimento del ristorante, aprendolo in due come se ci fosse passata una saetta.
Mi raccontano della mattina della 6.5, quando la macchina da dove uno di loro
era appena sceso, si è sollevata di un palmo da terra. Della paura e del
terrore che ti lascia attonito e paralizzato. Da quei giorni, ogni fine
settimana, ai tredici si aggiungono altri che tenacemente, lavorando fuori la
settimana e buona parte dell'anno, vengono da comode case a stare
quarantott'ore in roulotte, per dare il segnale che non vogliono l'abbandono
definitivo del paese, ma al contrario la sua ripresa e ricostruzione. Non certo
"com'era dov'era", mica sono scemi, ma lì, dove da secoli, anche dopo
i rovinosi e luttuosi terremoti del
1700, la comunità è riuscita a ripartire e diventare fino a qualche mese fa, un
borgo splendido a forte vocazione agroalimentare, culturale e turistico, e dove
girava una dignitosa ed etica economia. "Guarda - prosegue il quasi
trentenne - alla fine se vengono qui ad arrestarmi e portarmi via, quasi quasi
io resisto, così mi danno il penale e mi mettono in galera, dove almeno c'è un
tetto, un letto vero, un pasto e la doccia. Io so che se non cambia qualcosa,
se non arrivano in fretta le strutture abitative di emergenza, o con un minimo
di buon senso e di assunzione di responsabilità da chi di dovere, si ridà
agibilità a quelle case che hanno danni lievi, e che ci sono, in mezzo alla
zona rossa, e un po' di gente riesce a tornare, alla fine dell'estate mi tocca
andarmene in un'altra città, lontano da qui. Già diversi che sono via al mare o
da altre parti, è certo che non torneranno più. Non posso rinunciare a
costruirmi una famiglia per stare a tribolare qui; mi sento in colpa, ma in
coscienza non riesco ad imputarmi niente. Io c'ho provato, sono loro alla fine che
mi avranno mandato via da qui". Chissà come finirà la resistenza di questo
e degli altri nuovi partigiani dell'Appennino? Se in maniera tragica come alle
Termopili, dove oggi più che un novello Serse, nell’Alta Valle del Nera avrà la
meglio la strategia dell'abbandono. Oppure come nell'Atene dei Colonnelli, dove
i fascisti furono deposti e tornò la democrazia? Passa un pick-up, si ferma,
tira giù il finestrino. "Io a te ti riconosco - sorride prima con gli
occhi, poi con la bocca, è Agostino, quello delle mucche - allora sei tornato
fratello?" "E certo - rispondo, e le mani si stringono in maniera non
formale - i fratelli hanno il dovere di ritrovarsi, come va?" "Finché
se vedemo - dice ridendo quello accanto ad Agostino sul sedile - va sempre
bene." C'ha quasi novant'anni, qui c'ha le pecore e le mucche; sta qui
pure lui da ottobre in roulotte. "A questi - penso ripartendo - andateli
un po' a prende'...che dopo ridemo..."
sabato 15 aprile 2017
AL PUNTO DI PARTENZA
“…anni dopo al punto
partenza”. Non due come scrive Guccini in una sua canzone, ma venti. E’ tempo
di anniversario quest’anno per il Parco Naturale Regionale Gola della Rossa e
di Frasassi. Fu infatti il 2 settembre di vent’anni or sono che il Consiglio Regionale
delle Marche approvò la Legge istitutiva dell’area protetta. Un parto non
semplice, epilogo di un confronto politico e sociale complesso. Ricordo che in
quegli anni, vista dalla città di Federico II, ambientalista antesignano anche
lui, quella scelta mi pareva assai una forzatura e, per certi aspetti, poco
naturale. Era come se si volesse appiccicare un marchio dop, su un formaggio
prodotto con latte in polvere. Nel senso che la previsione di area protetta andava
a circoscrivere un territorio fortemente già compromesso dal punto di vista
ambientale: l’attraversava una rete ferroviaria, una strada statale, fortemente
antropizzato, con attività industriali e manifatturiere pesanti che vi
insistevano da decenni, con un’attività estrattiva che aveva già compromesso
l’originaria morfologia del paesaggio. Ma era quella la stagione del governo,
nazionale e locale, dell’Ulivo; e la legge del Parco non poté che risultare
alla fine il compromesso tra due anime di quella stagione politica: quella
“industrialista” e quella “ambientalista” (in questa categoria c’erano poi
ambientalisti rigorosi, ed altri un po’ meno), che alla fine produsse tutte le
contraddizioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti: nessuna riconversione
industriale verso un modello leggero, che oggi si definirebbe green economy (una certa riconversione
non green poi nell’ultimo decennio
l’ha prodotta la crisi…), le aree di cava, pur facenti parti del territorio
naturale del parco, furono perimetrale fuori dell’area protetta (attività a cui
il Comune di Serra S. Quirico ha rinnovato la concessione di escavazione fino
al 2050 con delibera di Consiglio n. 57 del 2008), il mantenimento di alcune
aree tutt’oggi interessate dall’attività venatoria, deroga a qualsiasi opera
infrastrutturale che avesse avuto interesse e rilevanza nazionale (di qui lo
scempio del paesaggio in corso in questi anni con il raddoppio della ss 76 per
opera della Quadrilatero). E, non secondarie, la mancanza di un reale processo
partecipativo con le comunità che abitavano nel parco, una serie di mediazione
al ribasso con chi viveva di agricoltura e zootecnia in questo territorio, e
che rappresenta il primo custode del territorio. Furono anni di scontri accesi,
l’aneddotica narra addirittura di una riunione di promotori e sostenitori del
parco, riparatisi dentro una chiesa di Serra S. Quirico, circondata da cavatori
e cacciatori imbelviti e liberati dai Carabinieri… Negli anni si è fatto molto
poi per la promozione del parco (convegni e pubblicazioni sono stati
abbondanti…), dei suoi obiettivi, e buono è stato ed è il lavoro didattico e
formativo con le scuole. E’ cresciuta una frequentazione turistica, al di là
del tradizionale afflusso alle grotte di Frasassi, sono nate piccole imprese
che sul valore paesaggistico e naturalistico del Parco, promuovono le proprie
attività. Allora è stata una scelta giusta, si darà, alla fine? Certo, però
basta girarci un po’ dentro il parco, al di là dei sentieri più battuti, per
constatare che ancora la strada da fare molta. Chi ci vive, come chi ci pratica
un’attività agricola, fa tutt’oggi fatica e vedere il bicchiere tutto pieno. Il
fenomeno dello spopolamento dei borghi e delle piccole comunità rappresenta un
dato demografico allarmante, il patrimonio artistico ed architettonico non è
stato per niente curato, basti pensare alle condizioni in cui si trova il
millenario Eremo di Grotta Fucile, fondato da San Silvestro, la situazione di
degrado che negli anni si è prodotta al lago Fossi a Genga, ai bordi dei
sentieri oltre asparagi e funghi, è altrettanto comune trovare elettrodomestici
e altri rifiuti abbandonati; tante tabelle, insegne, molte logore ed
arrugginite oggi. La vera funzione di manutenzione e di guardiaparco, la
svolgono alla fine più i volenterosi abitanti delle piccole comunità, che chi
di dovere. Il limite di tutto questo, che produce il bicchiere mezzo pieno di
oggi, è stata la governance del
Parco. Non si diede allora vita ad un
Ente autonomo, ma si affidò subito la gestione del parco alla politica locale e
territoriale, la quale, chiaramente, esercitò la propria funzione con tutti i
vizi compromissori della stessa, in cui spesso il parco è risultato essere un’istituzione
di compensazione ed aggiustamento dei risultati elettorali, di bicchiere di
cristallo tra gli elefantiaci scontri dei campanilismi locali della politica.
Che ha visto, negli anni, avvicendarsi classi dirigenti consumate e più
propense a cedere alle spinte corporativistiche di turno, che intente a far
radicare nelle comunità una nuova cultura ambientalista, capace di costruire
dal basso una riconversione economica e sociale di un territorio. Giace da
qualche tempo nell’Assemblea Legislativa delle Marche (oggi si chiama così),
una proposta di legge che mira ad allargare i confini del Parco, estendendoli.
Credo che non sia questo il necessario, ed il tema. Ma, al contrario, ciò che è
urgente è una riforma vera della Legge di vent’anni fa, che con rigore renda coerenti, tra norma e prassi, le finalità di
un’area protetta. Che ad esempio dica basta subito con l’attività estrattiva in
questo territorio, altrimenti nel 2050 non ci saranno più alcune montagne; che
investa risorse vere e controllate per la prevenzione e la salvaguardia del
territorio; che sottragga la governance
del parco alla schermaglia della politica locale; che pretenda dalla
Quadrilatero, alla fine dei lavori del raddoppio della statale 76, opere di
riforestazione e rimboschimento coerenti con il patrimonio vegetativo del
territorio (anziché aree semidesertiche come sulla ss 77); che l’attività venatoria
venga bandita definitivamente dal territorio del parco senza più zone franche;
che l’azione di contenimento della proliferazione dei cinghiali venga sottratta
ai cacciatori e ai fucili, e si
sperimentino sistemi farmacologici come avviene in gran parte d’Europa; che chi
in decenni ha tratto profitto smisurato dall’attività estrattiva, riversi parte
degli utili in opere di salvaguardia, compensazione e ripristino del territorio
violato; che i Comuni interessati dal parco facciano una nuova politica
abitativa tesa esclusivamente al recupero del patrimonio immobiliare privato,
con incentivi fiscali e tributari, con servizi reali alle persone e alle
famiglie che vivono sul territorio, e che da anni continuano a sentirsi
cittadini di serie B; che si favoriscano la creazione di piccole imprese
giovanili e non, nel settore turistico, agroalimentare, sportivo. Ma per far
tutto questo, serve per prima una diversa classe dirigente politica, quella
attuale non ce la può fare; non nuova tanto anagraficamente, ma con una diversa
cultura amministrativa, e neanche necessariamente autoctona, ma che veda
impegnati anche quelli che in questo territorio, pur non essendoci nati, hanno
scelto di viverci. Capace di tenere testa alle tante tirate di giacca,
rigorosa, forte proprio di un’autonomia che deriva dal non essersi logorata nel
territorio e in baruffe sedimentate in anni addietro. Serve una ripartenza
insomma, per non logorare del tutto, senza rimedio, una buona scelta che, pur
con tutte le contraddizioni ed i limiti, si fece vent’anni fa. E che andrebbe
rifatta.
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