Quando il paese non ce
l’hai più, perché il terremoto te l’ha portato via, assieme a quarantasette compaesani,
anche un container, donato da un’impresa privata alla Protezione Civile
Regionale, riesce a diventare il tuo nuovo paese. Il solo nuovo che avrai.
Perché sai pure, siccome non sei scemo, che il tuo paese non sarà mai
ricostruito. Per primo perché a nessuno, fatta eccezione per i paesani rimasti,
interessa realmente ricostruire un paese per un pugno di abitanti che, tolti i
morti, e quelli che dopo quasi due anni hanno già ricominciato la vita altrove,
sono quelli che restano. Non in senso negativo. Ma intesi come “i restanti”,
categoria antropologica di Vito Teti; quelli che hanno scelto di restare. Poi,
non si può ricostruire un paese di nuovo sopra ad una paleofrana, di fianco un
monte sventrato da decenni di attività estrattive, che fiancheggia i piloni di
un viadotto e che sta sopra una sorgente di acqua buonissima, che ancora sgorga
libera e pubblica, nonostante i tentativi fatti nel tempo per imbottigliarla e
venderla. Tutti elementi, opera sia della natura che dell’uomo, che negli anni
hanno reso quel territorio più fragile di altri, in cui la furia della Terra
nella notte del 24 agosto 2016, ha trovato la porta spalancata. Il 24 agosto
dell’anno scorso, un anno dopo, sono entrato in quel container, affidato dalla
Protezione Civile Regionale alle persone del paese. E ho avuto la sensazione di
entrare nel loro paese, che più in alto, sotto il monte, non c’era più, ma
riviveva dentro le pareti di quei cento metri di struttura modulare di
emergenza. Perché i paesani rimasti, che per farsi forza vicendevolmente, e per
farsi voce verso i molti “chi di dovere”, nel frattempo avevano costituito
un’associazione, si erano presi cura di quegli spazi, c’avevano appeso dei
quadri, salvati da qualche casa crollata, in cui un artista locale, aveva
impresso lo skyline di tempera del paese che non c’è più. Avevano fatto da mesi
di quei volumi, un po’ asettici e incostanti nelle temperature, un punto di
riferimento, di socialità, dove si poteva condividere un piatto di pasta e le
ultime informative su come, fuori, stavano andando le cose. Anche l’aria,
dentro quel container, sapeva di paese. E, una volta dentro, ho pensato che avrei
dovuto, prima di entrarvi, togliermi le scarpe, impolverate peraltro dalla
breccia, in segno di rispetto, come ho sempre fatto entrando, seppur da
cattolico, in una moschea. Qualche giorno fa, ho letto che il Comune ha
intimato all’associazione dei paesani, facendolo precedere dal distacco delle
utenze, di lasciare la struttura. Perché, d’intesa con la Protezione Civile
Regionale, quel container l’Amministrazione Comunale, ha deciso di assegnarlo
ai Vigili del Fuoco. Se vuole, l’associazione dei paesani, potrà usufruire di
uno spazio condiviso, all’interno di una struttura realizzata sempre da un Ente
filantropico privato. Che però, nel frattempo, il Comune ha assegnato in via
esclusiva, ad un’altra associazione. Ora, si potrebbe entrare nel merito
amministrativo e procedurale della vicenda; alcuni paesani m’hanno mandato i
carteggi intercorsi tra i vari soggetti coinvolti. Ma non mi interessa farlo,
perché così, davvero si rincorre quella che io chiamo la “strategia
dell’abbandono”, che è fatta anche dal rimanere schiacciati da carte e
burocrazia. Mi piacerebbe che questa storia piccola di paese, potesse essere
risolta con uno degli antidoti più efficaci contro la “strategia
dell’abbandono. Quello, che da ancor
prima del terremoto, è stato sgretolato in Italia da una certa idea, e pratica,
di politica e di amministrazione. Il buon senso. Quello che per i pompieri, che
sono certo di questa situazione se ne dispiacciono per primi loro, ti fa trovare
e mettere a disposizione in qualche ora un altro container con le caratteristiche
adatte. Quello che, se un paesano un po’ ribelle e arcigno, non vuole lasciare
la Zona Rossa, a testimonianza del suo seppur originale senso si attaccamento a
quei luoghi, sali su e con pazienza e capacità di mediazione lo convinci a
scendere; non mandi i Carabinieri ad arrestarlo perché inottemperante
all’Ordinanza Sindacale. Ecco, io non saprei prevedere come finirà la vicenda
del container. Se prevarranno la rigidità e l’intransigenza delle carte
firmate, in quel paese si allargherà ancora di più la faglia immateriale tra
cittadini e politica, questo è certo. Così come io non so, se e quali, saranno
i tempi della ricostruzione materiale, ma il vero ritardo, e la vera emergenza
che si prolunga, è quello della ricostruzione etica e civile di una comunità e
di un territorio. Che il terremoto ha riempito di lutto, precarietà e
disorientamento. E che, tutti sanno, paesani e “chi di dovere”, che niente
potrà più essere come prima. Ma i paesani a voler essere un nuovo paese ci
avevano pensato e iniziato a lavorare, e l’avevano intanto messo dentro un
container. Quelli del “chi di dovere” no. Presi da altre incombenze e vicende.
Il Sindaco da migliaia di problemi, crollatigli addosso in una notte d’estate
insieme al paese; problemi tutti più grandi di lui. Il Responsabile della
Protezione Civile Regionale, da qualche tempo impegnato a dover fornire delle
spiegazioni alla Guardia di Finanza e al Magistrato di competenza. Ah, giusto.
Il paese si chiama Pescara del Tronto. Quello dalle macerie ancora polverose e
fumanti, e di poveri corpi raccolti da sacchi e lenzuoli, che prima di lì è
solo una scena che hai visto nei film di guerra, e che la casualità della vita
mi ha messo davanti agli occhi una mattina d’agosto. Il paese che poi, e non
può essere diversamente, ti porti dentro tutta la vita che ti resta. Di giorno,
e di notte.
venerdì 27 luglio 2018
giovedì 26 luglio 2018
VIAGGIO LUNGO IL TUBO
“Portarci
il corpo”. L’espressione e l’intenzione, che recentemente lo scrittore Sandro
Veronesi ha lanciato per quanto riguarda il tema delle migrazioni e degli
arrivi dal Mediterraneo, ripropone un tema più generale. Quello
dell’importanza, riguardo a ciò che accade in un territorio, per capirne
determinati fenomeni a fatti, di essere lì, viverci, o portarci se stessi. E’ con
questo atteggiamento, pur conoscendo la questione nel merito e avendola
affrontata in incontri pubblici, ma sempre a distanza e mai con chi ci abita, che
ho deciso di “portare il mio corpo” lungo il percorso che avrà il Gasdotto SNAM
nelle Marche e in Umbria, che dal Salento, dopo aver attraversato dieci Regioni
per 687 km, arriverà al Nord. Un breve viaggio lungo il tubo, all’interno di
parte dei 167 km del tratto Sulmona-Foligno. Da Serravalle di Chienti nelle
Marche, lungo l’Appennino, fino a Cascia in Umbria.
Nelle
Marche se ne parla poco. C’è stato, e c’è il terremoto, che ha sconquassato le
aree montane delle Province di Macerata, Fermo, Ascoli Piceno e parte di quella
di Ancona. Siamo ancora nella fase dell’emergenza; le persone sono prese da una
quotidianità lacerata e problematica, e della ricostruzione non c’è ancora una
minima traccia. Il gasdotto nella Regione attraverserà due Comuni, Serravalle
di Chienti e Visso. Insieme poco più di duemila abitanti e circa 200 chilometri
quadri di superficie. Poco, si dirà. Certo, almeno in termini demografici. Ma comunque
un territorio molto esteso che attraversa un lungo tratto di Appennino. Alcune
reti dei movimenti di base e sociali hanno già promosso incontri, partecipati
peraltro, ma tutti dentro dinamiche che non raggiungono le popolazioni. E il
giornalista Mario di Vito e la scrittrice Loredana Lipperini, rispettivamente
su Il Manifesto e sul proprio blog, hanno raccontato un fatto che recente che,
nelle Marche, potrebbe essere messo in relazione con il gasdotto. Ovvero, la
donazione di cinque milioni di euro, ricevuta dalla Regione Marche, con tanto
di atti amministrativi ed incontri istituzionali nell’estate 2017, da parte
della compagnia petrolifera russa Rosnef, per la ricostruzione dell’ospedale di
Amandola, nel fermano, distrutto dal sisma del 2016. Compagnia, di cui
risultano, mai smentite, joint venture con la Snam da diversi anni.
Arrivo
a Serravalle di Chienti. Qui il terremoto del 2016 ha segnato meno, ma ci sono
ancora i segni di quello del 1997, l’epicentro del 26 settembre con magnitudo
5.4 fu a Cesi, una frazione di Serravalle. “Qui in Comune non è arrivato ancora
niente, anche se sappiamo. Però qui in paese non se ne parla”, mi dice con
gentilezza l’impiegato dell’Ufficio Tecnico del Comune. La piazza centrale è
assolata e l’aria è asciutta; riconosco seduto ad un tavolino del bar Venanzo
Ronchetti, ex Sindaco di Serravalle; amministratore durante il terremoto del
’97 e la successiva ricostruzione. Ci conosciamo, è un piacere rivederlo. “Io
lo so, certo, del gasdotto, e dove passerà. Ma qui non sa niente nessuno, non
se ne parla; se entri al bar, qui si parla solo di Salvini”. Da Serravalle
salgo a Colfiorito, l’altopiano delle patate rosse. Quando, fino a pochi anni
fa, non c’era la strada veloce in galleria della Quadrilatero, per andare da
questa zona delle Marche in Umbria, si saliva per la vecchia statale 77 fin
quassù, si attraversava la piana, e si scendeva a Foligno. Adesso, la strada
nuova taglia fuori tutto, compresi “i patatari”; che prima trovavi uno dopo
l’altro a vendere patate, legumi e formaggio con macchine e furgoncini ai bordi
della strada, e che adesso non trovi più. Il traffico passa tutto sotto i monti
in galleria, e la patate sono costretti a venirle a vendere a decine di
chilometri di distanza da Colfiorito, ai bordi delle strade provinciali in
pianura. “La strada nuova è una gran cosa, perché Colfiorito è la prima
uscita”, mi dice la titolare del primo bar all’inizio della piana. “Si, ma la
prima dall’Umbria, e la strada arriva a Civitanova Marche sull’Adriatico – le
rispondo, e chiedo – ma i clienti sono di più o meno di prima? “Ah, dipende –
mi risponde adesso meno entusiasta – certi giorni non si vede proprio nessuno”.
Non sa che lì dietro alla piana ci passerà il gasdotto; gli spiego un po’ di
che si tratta. Anche la mamma molto anziana, che ancora dà una mano dietro il
bancone, ascolta molto attenta. “Non può essere mica vero – commenta la barista
– qui è tutta zona naturale, mica ci possiamo mettere il gas sotto? E se
esplode? Ci sono le leggi e non gli daranno i permessi”, chiude molto
speranzosa. Le rispondo dicendo che, al contrario, ci sono leggi e permessi che
consentono proprio di farlo.
Strada
facendo, nello spostarmi tra Colfiorito e Cesi, dove vedo ancora sparse qua e
là le casette di legno del terremoto del 1997, alcune tutt’ora palesemente
abitate e vissute, telefono alla ViceSindaca di Serravalle di Chienti, Isabella
Piermarini, che di mestiere è archeologa. Mi conferma che ancora in Comune non
sono arrivati documenti o richieste di convocazione di Conferenze dei Servizi,
ma lei sa del gasdotto. E’ favorevole, e anche se brutto paesaggisticamente, la
ritiene un’opportunità di lavoro e per la ricerca archeologica (opere come
queste prevedono campagne di scavi e rilevamenti preliminari lungo le aree del
tracciato, ndr). Mi racconta che anni fa, da archeologa, ha lavorato per i
sondaggi della superstrada che da Serravalle va verso Colfiorito, e che più
recentemente ha condotto campagne di scavi lungo il passaggio del metanodotto
“Cellino – Teramo – San Marco”, della S.G.I s.p.a. (Società Gasdotti Italia).
“Anche rispetto alla superstrada qui sotto, c’erano forti perplessità da queste
parti – mi dice – ma poi tutti hanno visto che è un’opera positiva, adesso a
Colfiorito non ci passa più tutto il traffico di prima, ma c’è solo il turismo
di qualità”. Secondo lei, il gasdotto “crea un servizio”. Le dico però che
questo è un tubo di solo trasporto del TAP pugliese fino all’Emilia – Romagna,
e che non è una rete di distribuzione territoriale. Mi consiglia anche di fare
attenzione alle bufale che girano da queste parti sul gasdotto, relative alla
pericolosità sismica e alle paventate possibili esplosioni.
Chiusa
la telefonata, lasciandomi la piana alle spalle, arrivo a Cesi, frazione di
Serravalle di Chienti, oggi circa 20 famiglie ad abitare il piccolo centro
ricostruito dopo il sisma di 21 anni fa; ma molto di quella storia è ancora
viva nei piccoli villaggi di legno, dove furono realizzate le antesignane delle
contemporanee SAE (Strutture Abitative di Emergenza), e che come già si
prefigura anche per i terremoti del 2016, sono diventate “strutture abitative
eterne” (1).
La
signora Marika, titolare del piccolo ristorante fuori paese, anch’esso ricavato
in una struttura modulare del tempo, mi spiega che queste casette di legno
vennero allora poi vendute dal Comune ai chi ne era interessato, ed alcuni le
usano oggi come seconda casa, ma altri addirittura come abitazione principale.
“L’acquedotto? – mi chiede Marika – Io non so niente”. “No signora – le
rispondo - il gasdotto”, e gli racconto un poco. “Allora ci porteranno il
metano – mi dice – che qui non c’è” “No”, rispondo e le racconto che il tubo fa
solo trasporto tra la Puglia e l’Emilia Romagna”. “Allora – chiosa un po’
rattristata – a noi ci faranno solo del male”.
E
si, in questa parte d’Appennino, che non conoscevo affatto, di schiena a
Colfiorito e ai Sibillini, sgusciando il tubo proprio come un’enorme anaconda
tra i confini di Marche ed Umbria, porterà dei danni irrimediabili al
paesaggio, considerata la complessità dell’infrastruttura e delle sue opere
accessorie, checché ne pensi la cortese ViceSindaca di Serravalle di Chienti.
Qui, lasciando Cesi, e dirigendosi tra le frazioni umbre di Foligno, Fraia e
Popoli, piccoli centri abitati da qualche famiglia, si trova ancora davvero un
paesaggio incontaminato, vocato ad una agricoltura di alta quota e
all’allevamento brado. Le rotoballe di questo inizio luglio, disposte sui campi
di foraggio appena tagliati, testimoniano la qualità ambientale e rurale di
questo territorio agricolo. Il vecchietto che s’affaccia a Popoli dal balcone
di casa, per vedere chi potrà mai essere questo (cioè io) che s’aggira per il
piccolo borgo turrito sotto il sole del primo pomeriggio, mi dice che lui del
gasdotto non ha sentito mai parlare. “Tanto tempo fa – mi racconta – c’avevano
detto che c’avrebbero portato il metano, ma poi non s’è visto più nessuno”. E
dell’intenzionalità di tale infrastruttura domestica, a Popoli, a testimonianza
c’è rimasta almeno una palina con il cartello; il tutto provato dal tempo e
dalle stagioni.
E
da questa Umbria di confine, rientrando nelle Marche e arrivando a Civitella,
capisci.
Capisci che il gasdotto lo faranno. E
l’hanno pensata proprio bene, nel farlo passare da queste parti. In un
territorio di margine dove, fatta eccezioni per piccoli abitati di un pugno di
persone, non c’è nessuno. E, cosa non secondaria, non ci passa nessuno, se non
chi ci abita o chi si sbaglia strada. Non sono questi i luoghi del turismo, di
nessun tipo: di massa, “slow”, responsabile, come viene ora classificato pur di
giustificare qualsivoglia intervento sul paesaggio. E, di conseguenza,
qualunque scempio ambientale verrà praticato, non lo vedrà nessuno, né
tantomeno qualcuno controllerà e denuncerà. Quali sono le comunità da queste
parti che si opporranno? Che si mobiliteranno? Quali gli amministratori locali
che si batteranno per difendere il loro territorio?
Rifletto
sututto questo mentre oltrepasso le poche case della frazione di Rasenna, nel
Comune di Visso, per ritornare dopo qualche chilometro in Umbria, nel piccolo
borgo di Piaggia, Comune di Sellano, dove paradossalmente nella bacheca di
legno all’inizio del paesello, mischiato tra l’annuncio di una sagra e un
manifesto da morto, trovo appiccicato il volantino di un’informativa del
Comitato contro il gasdotto. Che nessuna popolazione avrà probabilmente mai
letto, considerato che le case che danno l’idea di essere tutt’ora abitate sono
un paio. Rinfrancato da questa pulsione di civismo e democrazia trovata lì in
mezzo all’Appennino, rientro nelle Marche, e scendo a Chiusita, altra frazione
del Comune di Visso, dove l’unico abitante che incontro mentre sta letamando,
in una lingua mista tra l’italiano e lo slavo, mi fa comunque capire che del
gasdotto non sa niente, ed anche come arrivare fino a Ponte Chiusita, in piena
Valnerina.
Qui,
la strada, devastata dalle frane e dallo scostamento del letto del Nera il 30
ottobre 2016, da qualche mese è stata messa in sicurezza ed ha ripreso la sua
funzionalità. Non ci ero più passato da quei terribili giorni per la
provinciale che da Ponte Chiusita, in una ventina di chilometri, porta a
Norcia. Più o meno parallelo alla strada ci passerà il gasdotto. Ora,
percorrendola di nuovo, chiunque capirebbe una cosa: che il terremoto di Norcia
ed Amatrice, non è stato, come mediaticamente viene ancora spacciato, solo di
Norcia ed Amatrice. Ma anche di tutto quello che sta, nel nostro caso
specifico, intorno a Norcia. Quel che resta della Basilica di San Benedetto, oggi
sta lì intubato, come un paziente nell’UTIC di un ospedale, accudito a vista
dal piglio severo della statua del Patrono D’Europa. Norcia è conciata male, ma
ha retto. Le piccole località, e molta dell’edilizia delle campagne, non ci
sono più, sostituite dalle SAE, come a Preci, Campi, Ancarano, o
definitivamente in via di abbandono, come Ocricchio, Civita, Castel Santa
Maria, Roccanolfi, Ospedaletto. Ecco, in questo “via crucis” della tettonica
appenninica, quella con il massimo grado di rischio simico del Paese, ci
passerà il tubo, 1,20 metri di diametro, ad una profondità tra i 4 e i 5 metri,
con il gas pompato a 75 atmosfere, con sbancamenti di 40 metri.
Arrivo
a Norcia, conosco Arcangelo De Angelis, nursino, attivista del Comitato “Norcia
per l’Ambiente”. Loro si sono attivati già da più di dieci anni, dal 2004. Si
sono battuti con manifestazione eclatanti, come quella del giorno
dell’Immacolata del dicembre 2005, quando portarono delle bare dentro la Sala
Consiliare di Norcia. Hanno anche ottenuto nel 2007, la modifica di parte dei
19 chilometri del tracciato che attraversa questa zona dell’Umbria, quella che
passava dentro le Marcite, un’area storico-ambientale protetta. Il Comitato è
composto da 40/50 attivisti. “Qui la gente lo sa che faranno il gasdotto – mi
dice Arcangelo – a livello informativo abbiamo lavorato molto. Però – continua
– qui si pensa esclusivamente al turismo, da sempre. Fanno finta di non
saperlo… Poi, dopo il terremoto del 2016, oggi la gente ha tutt’altri pensieri
e priorità personali e familiari, e al gasdotto non ci pensa proprio; ma le
cose non si fermano certo perché c’è stato il terremoto”.
Salgo
in macchina con lui, che mi porta a vedere un po’ di cose che riguardano il
tubo. Mi parla, guidando, di Norcia, di come funzionano un po’ le cose da
sempre da queste parti, a prescindere dalle stagioni della politica. Del
gasdotto, che è stato progettato considerando la sismicità storica
dell’Appennino fino al 2004, quindi senza prendere in considerazione i sismi
dell’Aquila, dell’Emilia, del 2016 e del 2017 vicino Campotosto in Abruzzo. “E’
vero, corretto scientificamente, che la scossa del 30 ottobre 2016 è stata
classificata mediamente 6.5 Richter, ma – mi precisa – quella mattina la
strumentazione locale a Poggio Capo di Colle sopra Ancarano, ha segnato una
magnitudo di 7.1…” Ci sono passato arrivando a Norcia, tra Campi e Ancarano, e
i segni distruttivi di quello che sismologicamente mi ha raccontato Arcangelo,
si vedono. “Considera – aggiunge – che il progetto del gasdotto è basato su un
valore dell’accelerazione dell’onda sismica, che è meno della metà di quello
del 30 ottobre 2016”. Arriviamo a Casali di Serravalle, poco fuori la città di
San Benedetto. Mi indica sul terreno dove correrà con precisione il gasdotto, a
fianco di un ristorante con un bel parco. “Mah – gli dico – viste le condizioni
del ristorante che è completamente inagibile, non avranno neanche tante noie
con gli espropri; anzi, al proprietario gli fanno un piacere…”. Mi indica il
crinale del colle dall’altra parte della provinciale per Spoleto. “Guarda in
mezzo a quei due pioppi, come se fossero un traguardo – mi indica – il gasdotto
da Ospedaletto che sta su dietro, scende lungo il versante e passa qui sotto i
nostri piedi. La faglia del 6.5 Richter sta a un chilometro a mezzo da qui.”
Poi mi fa girare di spalle e mi indica un monte opposto alla valle, Monte
Mattone a Campofermo. E mi racconta un’altra storia: quella dello sbancamento
del monte con un nuova cava, con i cui materiali verrà prodotto il calcestruzzo,
e della costruzione a ridosso della zona di estrazione di un cementificio.
“Dicono – mi spiega – che servirà per gli inerti a servizio della ricostruzione
post-sismica. Ma l’operazione è assai precedente al terremoto, e non è da
escludere che abbia a che vedere pure con il gasdotto”.
Ripartiamo,
ci inerpichiamo per le curve della comunale che portano ad Ospedaletto.
Arrivati al piccolo centro, mi fa segno con il braccio, come se fosse una
stadia, di dove passa il tubo. A fianco la chiesa di campagna, ora inagibile, e
ad un agriturismo, lesionato inesorabilmente pure quello. “Prima del terremoto
– ricorda – ci vivevano quassù circa cinquanta persone; ora sono rimaste
quattro, cinque famiglie, solo perché si sono fatte le casette faidate a spese
loro. Con tutti i problemi di presunto abuso edilizio, derivante dalla
normativa urbanistica che vieta di farlo”.
Ritorniamo
a Norcia, è ora di pranzo, ed è d’obbligo il panino con i salumi e il formaggio
locale. Seduti sulla panca di fronte l’area commerciale provvisoria, che ha già
del definitivo, sotto le mura di Porta Orientale, Arcangelo mi racconta che a
Norcia ci sono 696 SAE, e che dopo il terremoto, già tra quattrocento e
seicento abitanti se ne sono andati a vivere definitivamente in altre zone
della Regione, specialmente verso Spoleto e Corciano. Da lì, sotto i nuovi
negozi di tipicità norcine, mi indica dove si vorrebbe far passare il ventilato
trenino a cremagliera per portare i turisti direttamente da Norcia a
Castelluccio. Non riusciamo a non parlare del Deltaplano, il costruendo centro
commerciale e ricettivo sulla Piana di Castelluccio. Mi racconta un po’ di
storie e faccende locali, di come sono regolati alcuni rapporti e alcune
dinamiche locali. Ma questa, come direbbe Carlo Lucarelli in una puntata di
“Blu notte”, è veramente un’altra storia. E’ arrivato il momento di congedarci
con Arcangelo, ma sappiamo entrambi che si tratta di un arrivederci.
Riparto
da Norcia e mi rimetto in viaggio lungo il tubo, attraverso la piana, e
comincio a salire in direzione Cascia, lasciandomi sulla sinistra San
Pellegrino di Norcia, completamente raso al suolo la notte del 24 agosto 2016.
Arrivo a Civita, Comune di Cascia, immersa nella campagna d’altura. Dopo il
cartello dell’inizio del centro abitato, mi colpisce che sostanzialmente questa
frazione sia costituita da file di case a schiera, parallele fra loro. Non vedo
nessuno in giro, penso all’ora calda che sconsiglia di stare fuori. Ma poi,
entrato dentro la zona abitata, capisco il perché non ci siano folle in giro:
buona parte delle case, seppur di recente costruzione, penso ad un edilizia
fine anni settanta, sono tutte lesionate dal terremoto e in stato di abbandono;
quelle abitate sono una minoranza. Anche qui, penso, i lavori del gasdotto non
troveranno grandi resistenze. Ma lo shock vero lo provo quando entro a Castel
Santa Maria, piccola frazione di Cascia edificata su un colle, che sovrasta i
ruderi dell’antica chiesa cinquecentesca della Madonna della Neve. Entrando in
paese, la sensazione che provo è quella di entrare in un villaggio del far
west, quelli riprodotti dai maestri scenografi di Cinecittà, che il protagonista
del film trova arrivando, abbandonato dopo qualche razzia o epidemia tra gli
abitanti. Due file di villette a schiera si affacciano sulla strada. Buona
parte del pavè fatto di grandi lastre di porfido è saltato o è sconnesso. Le
case hanno tutte lesioni enormi, qualche crollo, lo stato di abbandono di molti
mesi è evidente. La spettralità, è resa più significativa dal fatto che anche
qui sono tutte costruzioni recenti.
“La
frazione antica stava più in alto – mi spiega la cortese titolare del Gabry Bar
a Savelli, piccola località che trovo tornando indietro – poi dopo il grande
terremoto del 1979 fu rifatta nuova più sotto con criteri antisismici, ma nel
2016 è stata di nuovo distrutta; adesso ci abitano solo due famiglie”. Il 19
settembre di 39 anni fa, una magnitudo di 5.8 Richter devastò la Valnerina,
facendo 5 vittime a Norcia e, il che spiega i ruderi che avevo visto, rase al
suolo il Santuario della Madonna della Neve. Anche Civita di Cascia, fu
ricostruita con criteri antisismici, prediligendo la sicurezza all’estetica, e
facendo diventare un borgo vivo, un grande dormitorio senza un bar e un
negozio. Ritrovo, nel documentarmi a casa al ritorno, una testimonianza su
Civita del 26 agosto 2016, che ci aiuta a capire: “A Civita il borgo
storico è un paese di fantasmi. «È un luogo romantico», ci racconta Silvana.
Una cartolina, un nido dove salire da fidanzati. Ma non ci vive nessuno. Dagli
anni novanta, e quindi oltre undici anni dopo il fatidico '79, tutti gli
abitanti si sono trasferiti nelle tre file di palazzine anonime a due e tre
piani. «La scossa dell'altra notte trema ancora- racconta Ivana - è stata una
catapulta, di una violenza, di una ferocia! E poi il rumore». Ma in casa e
fuori non è caduto nemmeno un pezzetto di intonaco. Si sono aperte tutte le
ante delle credenze, sono caduti i libri. Per questo tra le villette di Civita
ringraziano sempre e comunque «il geometra Ercoli, che pensò a questa soluzione
bruttina ma comoda e sicura». Case perfette dal punto di vista tecnico, «e
completamente sbagliate dal punto di vista sociale». Non una piazza, non un
bar, «la chiesa costruita verso il tramonto». Questo è un paese «dove non ci si
incontra mai» (www.ilgiornale.it). Poi, però il 30 ottobre del 2016, non ha risparmiato,
purtroppo, neanche questo esperimento di urbanistica post- sismica di quasi
quarant’anni fa. “Se ne parla sotto voce – ora sono riuscito a spostare l’interesse
della barista dal sisma al gasdotto – e qui rovineranno tutto, tagliano le
montagne per fare il cementificio. E’ il progresso, però… C’è un signore di S.
Andrea che sul gasdotto è molto arrabbiato, vedrai che più tardi arriva al
bar”. “Ma io purtroppo devo ripartire – le rispondo congedandomi e
ringraziandola – e poi se arriva e lo faccio parlare del gasdotto, si arrabbia
di nuovo e gli rovino la serata…”.
E dalla piana di
Norcia, attraversando una campagna estiva meravigliosa, salgo ad Ocricchio, dove
il tubo passerà indisturbato, in un paese che ancora è tutto zona rossa, e dove
l’abbandono ha contagiato anche il cantiere allestito dopo il terremoto;
giustificando anche qui la veridicità di una vera e propria “Strategia
dell’Abbandono” (2). “Ad Ocricchio ci vivevano prima del terremoto stabilmente
alcune famiglie, ma d’estate superava con i villeggianti le cento persone, mia
mamma era di lì – mi racconta la signora della Cioccolateria Vetustia Nursia di
Norcia, dove cedo alla tentazione del gelato e del cioccolato da riportare a
casa– e dopo il terremoto del ’79 era stato rifatto e ora è venuto di nuovo giù
tutto”.
Ritornando verso
la Valnerina, giunto quasi al termine del mio viaggio, salgo su a Preci al
castello, e a Roccanolfi, altre frazioni nursine interessate al passaggio del
gasdotto. “Ora su a Preci è tutto chiuso – mi racconta la giovane titolare del
bar provvisorio nella casetta di legno lungo la provinciale sotto il Castello –
prima ci abitavano venti, trenta persone; a Roccanolfi ora ci saranno due, tre
persone”. Chiedo del gasdotto. “Se ne parla – mi dice la ragazza – lo sappiamo
che lo faranno. Qui al bar sono venuti tempo fa dei ragazzi a portare dei
volantini di quelli contrari”. A questo punto si gira un paesano dal volto
simpatico e dal barbone brizzolato, finora sprofondato dentro la Gazzetta dello
Sport su un tavolino del bar. Abbandona il giornale e si alza verso di noi, ci
tiene a far parte della conversazione, e a dire la sua: “Qui – riferendosi al
tubo – ci vuole proprio per queste zone. Tanto è gas e sta sottoterra, e poi
porteranno lavoro, qui sono tutti monti, tanto. Ma dove passa di preciso? “Qui
dietro – gli spiego – proprio tra queste frazioni” Adesso il suo piglio si
rammollisce, mi guarda interdetto, come quelli che “qualunque cosa mi va bene,
ma non nel cortile di casa mia”. “Ah beh – adesso è un po’ più timoroso – però
tanto non scoppia, tuttalpiù prende fuoco…”
Note
(1)
Definizione delle SAE data dalla Rete dei
Movimenti TERREINMOTO MARCHE, dicembre 2017
pubblicato da https://www.terredifrontiera.info/ il 24.07.2018
sabato 7 luglio 2018
SE C'E' UNA STRADA SOTTO IL MARE PRIMA O POI CI TROVERA'
Ho indossato la maglietta
rossa per rispondere all’appello di Luigi Ciotti; che può essere considerato
tutto, fuorché un radical chic. Si, perché
ho letto pure, da chi deve distinguersi sempre, non per l’originalità di un suo
pensiero, ma solo per avere un’opportunità in più di ampliare la propria
visibilità, che l’iniziativa della maglietta rossa, aiuta a dare altri voti a
quelli lì; quindi, conclusione, atteggiamento tipico dei radical chic. Ho indossato la maglietta rossa, pur consapevole che
oggi non mi sarei mosso da questa frazione di poco più di trenta persone; salvo,
confesso, una veloce toccata e fuga poco lontano per comprare i sigari… E stare
qui con la maglietta rossa, oggi, ha un grande senso. Girarci intorno ad una
frazione di case diroccate, pericolanti alcune, abbandonate da anni, che
neanche il Comune sa più precisamente di chi siano. Pensare che tra questi
abitanti ci sono solo sei bambini e molti vecchi che, per ragioni inevitabili
della vita umana, tenderanno a diminuire; sapere che alcune famiglie già ora,
per come sono i servizi, la mobilità, la cura dell’abitato, se avessero un’occasione
alternativa, se ne andrebbero di corsa in città o in pianura. Ma già adesso,
per le case abitabili che ci sono, gli abitanti potrebbero essere oltre il
centinaio. Ma gli abitanti non ci sono. E non lo diventeranno quelli che
passano in bicicletta, molti dei quali buttano rifiuti per terra, o pisciano
dietro al pino accanto all’edicola sacra. Non lo diventeranno gli escursionisti
e i climbers, che parcheggiano in
maniera scomposta, ché se lo fanno a casa loro, alla seconda volta gli rigano
la macchina. Non lo diventeranno i turisti da toccata e fuga che vengono a vedere
le Grotte di Frasassi e, sconsolati da quello che c’è intorno, se la filano a
gambe levate. Non lo diventeranno i pronipoti che a Ferragosto, si ricordano che
hanno una bisnonna o la prozia, e la vengono a trovare, ché così si fa pranzo e
giornata tutto low cost; e magari la nonna, quando si riparte, c'allunga pure cinquanta euro... Non lo
diventeranno le piccole cricche autoreferenziali che passano le giornate, di
convegno in convegno sui temi delle aree interne. Non lo diventeranno gli imprenditori
e i loro cortigiani che, con la scusa del terremoto, si propongono come
mecenati e filantropi, ma che in realtà hanno escogitato un nuovo modo di farsi
gli affari loro. Io oggi sto qui, con la maglietta rossa, perché penso che
queste comunità abbandonate sull' l’Appennino le possano salvare solo i migranti. E
lo penso sul serio. Che diventano i nuovi abitanti, che diventano cittadini,
che qui vivono, lavorano, ricostruiscono (ecco la Ricostruzione) qui, e con chi
qui ha scelto di restare, un nuovo progetto di vita, dopo la fuga dalla fame,
dai cambiamenti climatici, da qualche tiranno sanguinario. Ripopolando l’Appennino,
dando nuova vita a comunità senza alcun futuro di continuità demografica.
Prendendosi cura del territorio in cui abitano. Nuove comunità meticce, giovani
che si prendono cura dei vecchi, ché quando dovessero aver bisogno, se aspettano che arriva il nipote (quello di Ferragosto), da centinaia di chilometri di distanza, non la raccontano. Dobbiamo fare una grande operazione verità, su
questa prospettiva, di cui Vito Teti e Franco Arminio, solo per fare due nomi, scrivono
e dicono da anni. Consapevoli che sia la vera e sola efficace per la vita di
questi territori; suffragata dai numeri, quelli non ideologici, che danno l’ISTAT,
l’INPS, e la demografia nazionale. E supportata, da queste parti, non da un provocatorio realismo
bucolico, ma con i dati che ci arrivano, di ogni genere scientifico, a quasi due
anni dal terremoto che ha ribaltato l’Appennino Centrale. Dati demografici, economici, sociali, sanitari, che definiscono una tendenza inesorabile verso un rapido abbandono. Con tutto il resto, ci
continuiamo a prendere in giro. Le aree interne moriranno o diventeranno solo
un grande luna park all'aperto per ricchi; in molti lavorano, anche a volte in competizione tra loro, per entrambe le soluzioni. E chi le ha spolpate fino ad oggi
per arricchirsi, continuerà impunemente a farlo. Dopotutto, chi arriva dopo una
migrazione da un Paese lontano, pensate davvero, a meno che non abbiate un pregiudizio razziale e
xenofobo, che al paesello sarebbe molto più carogna, scassacazzi, egoista,
pericoloso, di molti che ci sono nati e vissuti da sempre? Io no, per
esperienza diretta, come si dice; che non fa statistica, ma rende l’idea. Per
cui, oggi rimango qui con la maglietta rossa. Consapevole che, grazie ad una
politica spietata e diabolica, razzista e fascista nell’anima, e interessata
solo al consenso, molti, tanti e di più, moriranno ancora; lasciati affogare nel
Mediterraneo, asfissiati dentro il cassone di un camion, dispersi nel gelo di
un passo alpino. Ma alla fine, arriveranno comunque, ovunque, da ogni dove. E quando verranno a vivere
anche in questa frazione, in case che già ora non compra e vende più nessuno, e che i
loro bambini scorrazzeranno per la via, e che ai vecchi rimasti qualche braccio
robusto metterà a posto la legna per l’inverno, questo posto sarò un luogo
migliore di quello che è adesso. E allora anche il paesano, un po’ razzista per
induzione televisiva e social, che tempo fa, quando sono arrivati sei o sette
richiedenti asilo qui vicino, mi diceva “ma, se in fondo nostro Signore ci ha
fatto tutti diversi, un motivo ci sarà”, elaborando un pensiero teologico
alquanto originale e tutto suo, prenderà atto, che in posti come questo, la
vita prosegue se ci sono le persone che ci vivono, perché, i turisti, tanto, ad
una certa, se ne vanno via. E che #magliettarossa e #strategiadellabbandono, non
sono le facce della stessa medaglia; ma la prima è l’antidoto alla seconda.
giovedì 5 luglio 2018
GIORNO D'ESTATE (a Fermo, UE)
«Giorno d'estate, giorno fatto di sole,
vuote di gente son le strade in città». Era probabilmente così il centro di
Fermo, quel primo pomeriggio di due anni fa; come ce lo lasciano immaginare i
versi di Guccini. Due giovani sposi stavano su una panchina a parlare per i
fatti loro. Lungo il marciapiede che la costeggia, passa un tizio che nel
vederli, dà della "scimmia africana" alla sposa; il marito reagisce,
nasce una colluttazione. Lo sposo morirà poi all'ospedale, con la testa
fracassata da un paletto della segnaletica stradale. Gli sposi sono due
richiedenti asilo nigeriani. L'altro è fermano, "un figlio nostro",
come diranno molti suoi concittadini. La giustificazione comunitaria,
assolutoria, per il carnefice è stata subito trovata; uno un po' sbandato, un
ragazzo a disagio e con traumi familiari, un ultrà esagitato con qualche
piccolo precedente (il suo avvocato in passato fu il libero professionista che
da qualche settimana era diventato Sindaco della città). Con il pudore, per
tanti, a chiamarlo per quello che, anche per frequentazioni sociali
consolidate, era, e cioè un fascista. Anche per lo sposo, la vittima, c'è stata
presto una giustificazione alla reazione d'impeto avuta su quella panchina. Era
anche lui un poco di buono, del giro della mafia nigeriana; una fantasia che
nemmeno è entrata nell'aula di tribunale, ma rimasta tutta dentro il
chiacchiericcio dei bar di piazza, i luoghi più fertili per la diffusione di
certi virus culturali. Ma siano a Fermo, e l'unico comportamento assimilabile
al mafioso (seppur penalmente irrilevante), dopo due anni, è l'omertà
silenziosa, ma non imbarazzata, tantomeno malcelata, che su questo fatto
prevale ancora oggi nella capitale del distretto della calzatura.
Tanto che il Consiglio Comunale giorni fa, avrebbe deciso faticosamente di
intitolargli lo spiazzo dove è stato assassinato, ma di non scrivere
"vittima del razzismo" nella targa. Perché quella parola,
razzismo, darebbe cattiva luce all'immagine della città, che scommette, come
tutta la Regione, sulla fascinazione dell'industria del turismo. Perfino
l'attuale Ministro dell'Interno, che della tutela dei "figli nostri"
fa la sua missione istituzionale, l'8 luglio 2016 dichiarerà a Il
Giornale: "prego per lui"; che era semplicemente figlio dell'Africa.
Adesso l'assassino ha patteggiato la pena, ed è libero. Lo sposo, dopo
quasi due anni, ha trovato finalmente sepoltura in Nigeria. La sposa, protetta
da persone misericordiose, vive il suo dolore senza fine lontano da Fermo;
l'unica per cui varrà il giurisprudenziale "fine pena mai". C'è un
altro personaggio in questa storia. Un vecchio prete fermano, che aveva accolto
nella sua comunità, e li aveva sposati, in nome di Dio, i due fidanzati
nigeriani, arrivati in Italia su un barcone; scappavano dalle persecuzioni sanguinarie
di Boko Haram. Viaggio in cui lei, a causa degli stenti, aveva perso il bimbo
che aspettava. Un prete che da decenni, accoglie puttane, drogati, migranti e
handicappati. Un rompicoglioni, la spina nel fianco del perbenismo marchigiano.
E che, mesi dopo, quando nell'Aula Nervi troverà l'abbraccio e la carezza di
Papa Francesco, nel cinquantesimo della sua comunità di derelitti e scartati
dalla società gli dirà commosso: "Capodarco ha cinquant'anni, e abbiamo
aspettato cinquant'anni per incontrare lei". Gli studiosi della società e
dei suoi mutamenti, hanno spesso ragione di sostenere, che è nelle piccole
realtà, in provincia come si dice, che si capiscono le anticipazioni di quello
che sta delineandosi all'orizzonte. È in questi posti in culo al mondo, dove
non succede mai niente, che si capisce l'aria che tira, e che tirerà poi; nel
mondo. Quello che è successo a Fermo nelle Marche, panciute e tranquille,
mantenute e sedate per decenni a pil padronale fatto di lavatrici e scarpe,
solo scosse un po' dalla crisi e dalla secolarizzazione, il 5 luglio del
2016, è stato però archiviato subito come l'eccezione. Qualche settimana dopo,
nelle Marche un terremoto devastante per gran parte del territorio montano,
destabilizzerà del tutto un tessuto sociale ed economico; ma questa è un'altra
storia. Poi, tra il 30 gennaio e il 4 febbraio 2018, è
arrivata Macerata. Sempre in provincia, dove non succede mai niente. Una
provincia, dove però, a forza di metterla sotto, la polvere ha corroso il
tappeto. Adesso che l'aria è cambiata è evidente, sia per chi rimane
controvento, sia per chi ha soffiato per anni nella stessa direzione di questo
vento, sperando che diventasse tempesta. Ma anche per chi si è immediatamente
riposizionato in direzione di vento, perché "amico caro, fatti i cazzi
tuoi", come direbbero Crozza/Razzi, è stata sempre la sua bussola
vincente. Se fino a qualche tempo fa pensavamo (io meno, ma lo dico con
umiltà), che Fermo fosse l'eccezione, oggi abbiamo già prove
manifeste, che già allora era la manifestazione embrionale di quella che sta
diventando la regola. Non per le Marche, nè per l'Italia. Ma per l'Europa. Ah,
a proposito. La sposa si chiama Chyniere, e nel chiuso di una sagrestia, senza
parlare, mi ha spiegato in un attimo cosa siano il dolore e il terrore. Lo
sposo si chiamava Emmanuel, e di lui ho letto, e visto solo la sua bara e la
foto della tomba provvisoria. Il prete si chiama Vinicio, e lui tanti anni fa,
a me ad altri riuniti per pranzo ci disse che se intorno ad una scodella di
maccheroni fumanti, si ritrovano dei credenti animati da sete di carità, verità
e giustizia, anche quei maccheroni sono l'Eucarestia. Poi, scopersi, qualche
anno dopo, che anche i Cervi celebrarono nel luglio del 1943, il 25, la caduta
del fascismo con una grande festa dove servirono a tutti i paesani dei
maccheroni con burro e parmigiano. E dopo quelle pastasciutte, non ho capito
ancor oggi da che parte andare, ma sicuramente quella verso quale non
dirigermi mai. E che "figlio nostro" è un concetto pericoloso, perché
poi, come in un altro racconto, porta a scegliere Barabba.
Se volete un po' approfondire sulle Marche:
http://hopassatolafrontiera.blogspot.com/2018/02/cerano-una-volta-le-marche.html?m=1
sabato 30 giugno 2018
QUELLI CHE NON
Qui,
come altrove, i turisti non servono a niente. Qui c’è bisogno di nuovi abitanti,
di qualche panchina per i vecchi e di un altalena per i sei bambini. Qui c’è
bisogno di censire i ruderi, metterli in sicurezza o demolirli, di rendere di
nuovo abitabili case dismesse da anni. Qui c’è bisogno della metanizzazione e
della banda larga, anziché della superstrada. Qui c’è bisogno che le macchine
rispettino il limite dei trenta chilometri orari, che quelli che passano in
bicicletta non buttino fialette, bottigliette, incarti per terra, che gli
escursionisti e i climbers pensino che non stanno in una parco divertimenti all’aperto,
ma in luoghi che sono di tutti, comprese le bestie. Qui c’è bisogno che se fa un
po’ di neve, oltre a scansarla si butti anche il sale o il breccino, perché alle
quattro c’è chi si sveglia per andare al lavoro. Qui, come altrove, i turisti
non servono. Perché il turismo è un’industria. E come tale non può essere “slow” o “responsabile”. Perché l’attività
industriale ha bisogno di consumare risorse naturali e materie prime, sennò non
produce. E qui, l’industria ha già consumato molto; e molto di più di quello
che ha prodotto. Qui anche la politica non serve a niente. Perché ha pensato e pensa solo ai turisti, ma non agli abitanti. Qui, come altrove, i turisti non servono. Qui servono i
viaggiatori e i villeggianti. Quelli che si chiedono dove saranno migrati i caprioli
scacciati dal bosco dalle ruspe dei cantieri stradali. Quelli che si chiedono,
quando ritornano d’estate, se sarà ancora vivo il vecchio che viveva accanto
casa dei loro nonni. Qui, come altrove, serve nuovo umanesimo. I turisti sono
disumani. Sono quelli che calpestano i fiori delle lenticchie di Castelluccio,
che parcheggiano le macchine sui prati per sentire un concerto, che si fanno un
selfie sulle macerie dei terremoti, che toccano con le dita un quadro in un
museo e le stalagmiti di una grotta, che entrano in un luogo sacro vestiti per
la spiaggia, che vanno nel Canal Grande su una nave da crociera. Sono anche quelli
che, imperturbabili, fanno acquagym sul bagnasciuga, davanti ad una nave carica di
migranti a cui viene negato l’accesso al porto. Sulla battigia, la disumanità.
In mezzo al mare, l’umanità. Quella di cui c’è bisogno anche qui.
venerdì 15 giugno 2018
LA STRADA DEL PAPA RE
E’
curioso che la Strada Clementina, fatta costruire nel 1733 dal Papa-Re Clemente
XII, come allora moderna infrastruttura pubblica per collegare il porto di
Ancona a Roma (si innestava infatti alla Flaminia a nord di Nocera Umbra), sia
stata di fatto privatizzata da anni dai Sindaci dell’Italia Repubblicana.
Infatti, quelli di una certa età oramai, ricorderanno che prima della
realizzazione della superstrada tra Ancona e Fabriano, per raggiungere la Città
della Carta si passava lungo la Gola della Rossa, attraversando le frazioni del
Comune di Genga di Pontechiaradovo, Falcioni, Camponocecchio, Gattuccio e Valtreara,
e lambendo, dall’altra parte dell’Esino, la due frazioni di Palombare e
Mogiano. Con la realizzazione, qualche decennio fa, della Superstrada e del
tracciato in galleria, quel suggestivo percorso stradale, è stato progressivamente
abbandonato dal traffico ordinario, ed utilizzato solo dai mezzi pesanti delle
imprese di attività estrattive, concessionarie dei bacini di escavazione del
Monte Murano. Tanto che, ad un certo punto, la Clementina, riconosciuta
originariamente come Statale, è stata declassata prima a provinciale, e poi a
comunale. Così, negli anni, il Comune di Serra S. Quirico, che nel 2009 ha
rinnovato la concessione di estrazione ai privati fino al 2048, ha pensato bene
di darla in uso esclusivo alle imprese delle cave, in cambio del prendersi
carico, da parte di queste ultime, degli aspetti manutentivi del tracciato
viario. Il risultato è che alla fine, Comune e imprese, la manutenzione della
strada e della Gola, non l’hanno mai fatta (nonostante un progetto esecutivo
presentato qualche anno fa dalle imprese interessate al Comune, che lo approvò,
ma poi misteriosamente scomparso); anzi, l’hanno sbarrata sia a monte, verso
Fabriano, che a valle, verso Jesi. Ciò a seguito di un’Ordinanza Sindacale di
chiusura totale (la n. 9 del 24.02.2010, mai modificata o revocata), che vieta
l’accesso alla strada a qualsiasi essere vivente che non sia dotato di ali per
il suo sorvolo… La strada però è rimasta percorribile fino al 2013, più o meno
clandestinamente, quando si trovavano le sbarre aperte per via del transito dei
mezzi pesanti che accedevano ai cantieri di estrazione. Chi sapeva ed era del
posto, considerata l’assenza di qualsiasi controllo, ci passava. Poi, in
conseguenza della piena straordinaria dell’Esino del novembre 2013, un tratto
di carreggiata di circa 30 metri, è parzialmente franato. Ricordo che un
pomeriggio di quell’autunno 2013, il fiume allagò la superstrada e la galleria
“Colle Saluccio”, isolando il fabrianese dalla Vallesina, e per circa 24 ore il
traffico da Fabriano verso Ancona fu deviato straordinariamente lungo la
Clementina. Da anni quindi, paradossalmente, il divieto di accesso e transito,
per quanto riguarda pedoni, ciclisti e climber, viene quotidianamente
disatteso. Non si capisce quindi, ad esempio, come da qualche anno il Comune di
Serra S. Quirico consenta, peraltro da Ente Patrocinante l’evento, lo
svolgimento di una manifestazione internazionale di arrampicata sportiva
all’interno della strada interdetta a chiunque. Inoltre, il 14 maggio 2016,
lungo la strada, in prossimità del fronte di cava di Serra S. Quirico, sono
franati massi molto grandi che, ad oggi, nessuno ha rimosso, né il Comune di
Serra S. Quirico, né le imprese delle cave. Uno stato di progressivo e concreto
abbandono, a fare da contraltare alle più volte ascoltate promesse di
ripristino della strada. Nel febbraio 2016, è nato un Comitato dal nome
“Riprendiamocilastrada”, che dopo un lungo silenzio, ha rimesso al centro la
necessità riaprirla e renderla pubblica. Un Comitato di abitanti, cittadini, Associazioni,
che annovera, tra le centinaia di firmatari, anche l’attuale Sindaco di
Fabriano e Vicepresidente dell’Unione Montana, Gabriele Santarelli. La
Clementina, al di là del valore storico e paesaggistico, è tornata in questi
ultimi mesi ad essere strategica, più che in passato, per gli abitanti delle
frazioni di Genga che si vedono costretti, per andare verso Jesi, a tornare
indietro verso Valtreara ed imboccare la nuova superstrada della
Quadrilatero-Anas (la galleria di oltre 3 km); cosa che, praticamente, comporta
circa venti minuti in più per trovarsi lungo la Vallesina. Ma ad impiegarci questo
tempo, oltre i cittadini di queste zone, per primo per recarsi quotidianamente al
lavoro, potrebbero essere anche eventuali mezzi di soccorso, chiamati a raggiungere
le quattro frazioni penalizzate (Falcioni, Pontechiaradovo, Palombare e
Mogiano); sempre che trovino aperto il passaggio a livello di Pontechiaradovo,
che nell’arco delle 24 ore, è chiuso circa per 7 ore al giorno. Due frazioni in
particolare, Palombare e Mogiano, in caso di qualsivoglia emergenza, si
ritroverebbero ad essere di fatto isolate e non raggiungibili, non potendo
contare sull’accesso o fuga veloci in direzione Vallesina, che restituirebbe
loro la Clementina riaperta. C’è da evidenziare poi che, con il nuovo assetto
viario del raddoppio della SS 76, i mezzi inferiori a 150 cc (motorini, apetti,
biciclette) non possono già da adesso andarci secondo quanto previsto dal
Codice della Strada. E una persona che dispone solo di questi mezzi, come fa?
E’ pur vero che ci sono sempre dei sentieri di montagna percorribili per andare
verso Jesi… Ma anche per raggiungere Fabriano, si è costretti a passare
esclusivamente per Collegiglioni. Per questo nei giorni scorsi, gli abitanti delle
frazioni, esasperati, hanno scritto al Prefetto, richiamando il civico valore e
diritto alla sicurezza, affinché il tratto della Clementina chiuso, venga
riaperto, messo in sicurezza, e destinato al traffico locale, perché le persone
che vivono da queste parti, possano avere piena agibilità di spostarsi, sia
nell’ordinario, sia nell’emergenza. Farlo ora, contestualmente ai lavori della
Quadrilatero in quella zona, significherebbe a detta del buon senso, anche una
razionalizzazione dei costi. C’è da affrontare, è pur vero, la questione della
sicurezza delle pareti rocciose, ma oggi ci sono tecniche di messa in sicurezza
efficaci e durature; basti vedere il pregevole intervento, che le Ferrovie
hanno fatto con le reti, sulle pareti sovrastanti il binario a Pontechiaradovo.
E ci sarebbero già anche, nel cassetto del Comune di Serra S. Quirico, 250.000
euro che la Regione nel dicembre 2016 ha assegnato all’Amministrazione per la
messa in sicurezza della Gola della Rossa, e che, ad oggi, non risultano dagli atti
amministrativi, né da cantieri in evidenza, essere stati impegnati. Nessuno
vuole che la Clementina sia di nuovo oggetto di traffico sfrenato; anzi, gli
abitanti per primi, sono d’accordo che un tratto della carreggiata possa essere
ciclopedonabile, e che magari nei giorni festivi si possano prevedere fasce orarie
di chiusura, fatta eccezione per i mezzi di soccorso, per favorire
escursionisti ed amanti della natura. E siccome siamo nel XXI secolo, ci sono
accorgimenti tali che possono contemplare tali differenti esigenze. Ma i
diritti, anche se di poco meno di settanta cittadini, per primi quelli alla
sicurezza e alla salute, devono tornare ad essere prioritari per quanti hanno
la responsabilità della vita pubblica; altrimenti tutte le riflessioni che da
anni si fanno nei convegni e nei tavoli istituzionali sul valore delle comunità
locali, sulle politiche per le Aree Interne, sullo spopolamento, si riveleranno
quello che già, purtroppo, in molti pensano essere. Cioè delle chiacchiere.
domenica 10 giugno 2018
I SOVRANISTI DELL'ALTOPIANO
Negli
ultimi trent’anni sono stato a Castelluccio, sulla Piana, due volte. La prima
con un amico prete ed altri, dopo un ritiro spirituale a Castelsantangelo sul
Nera; la seconda, con una giovane allevatrice transumante di pecore, e un amico
scrittore. Per cui, due volte in trent’anni, non mi danno, secondo molti, a
partire dalla statistica, alcuna legittimità ad esprimermi su quello che
succede in quel territorio. Però sono più che sufficienti, secondo gli stessi,
per sentirmi al contrario obbligato ad essere un consumatore del brand Castelluccio, a farmi i selfie in
mezzo ai fiori, parcheggiandoci sopra anche la macchina, come da anni fanno in
tanti, a mangiare dai “porchettari” o dai ristoratori, e a comprare nei
supermercati di tutta Italia, i prodotti a marchio Castelluccio di Norcia (dei
quali, a partire dalle famose lenticchie, oltre il 70% di quanto messo in
commercio, viene da anni coltivato, prodotto e confezionato in altre Regioni,
se non in altri Stati). Compra, consuma, spendi e, contestualmente, “amico caro...fatte li
cazzi tua!”, come direbbe Razzi/Crozza o viceversa, rispetto ad alcune scelte
che sono in essere a Castelluccio; prima e più emblematica il costruendo
Deltaplano. Però, diversamente, i cazzi miei, non debbo farmeli quando vado a
fare la spesa, oppure quando decido la gita della domenica o la vacanza. Questo
il pensiero dominante, secondo coloro che a Castelluccio, in forma diverse e
con ruoli molteplici, hanno a che fare con il solo prodotto universale che
regola i rapporti all’interno della società e degli Stati: i soldi. O quanti,
in un modo o in un altro, hanno a che spartire con un altro concetto: la
proprietà. Che non è quella immobiliare tradizionale, s’intenda. Tanto per fare
un esempio, chi appartiene ad una Comunanza Agraria, secondo la storia e la
legislazione, fa parte di un ente dotato di personalità giuridica pubblica, ed è
gestore in forma collettiva di proprietà: terreni, boschi, pascoli, etc (quella
di Castelluccio possiede 1136 ettari; cfr. SIUSA-MIBACT). Castelluccio è stato
raso al suolo dai terremoti del 2016, sono in corso le demolizioni delle rovine
del borgo. Dopo quasi due anni, le otto SAE richieste, dagli otto nuclei
familiari residenti a Castelluccio (che non verrà mai ricostruito, così almeno
siamo chiari e non raccontiamo fiabe), non sono state ancora consegnate. Questo
fatto ci dice che a Castelluccio, al contrario di quello che si tenta di far
credere, i problemi dei pochi abitanti stabili, non sono sovrapponibili ai
problemi e alle esigenze (seppur legittime) di chi sulla Piana vi svolge solamente
un’attività imprenditoriale o commerciale, diretta o indiretta; e che sono numericamente
molti di più degli abitanti. Questi ultimi hanno bisogno delle SAE e di un
paese che il terremoto ha cancellato e che non avranno più; tutti gli altri
hanno bisogno del Deltaplano e di altre possibili iniziative tese alla ripresa
e al potenziamento del business turistico
e commerciale di massa sulla Piana, con il brand
Castelluccio da proporre e vendere. Sostenere con pacatezza queste cose, da
diversi mesi, comporta essere additati e perseguitati (per ora solo sui Social
e sui giornali) come nemico del popolo (quale? otto famiglie?) castellucciano, nonché
affamatori della “ggente” di Castelluccio. Dire o scrivere che l’operazione
Deltaplano è una schifezza, una porcata (come direbbe il Calderoli)
paesaggistica e urbanistica, o che è semplicemente brutto sul piano estetico, viene
considerata lesa maestà istituzionale e popolare, ed infamia verso i
terremotati di Castelluccio. Condividere la giustezza dell’azione legittima,
intrapresa dal WWF nelle sedi deputate, comporta espliciti inviti a tenersi
fisicamente lontani dalla Piana per i giorni a venire. In tutto questo c’è un
però: anche io, insieme a tanti altri, potremmo divenire comproprietari (esclusivamente immateriali)
di Castelluccio. E già, perché stiamo parlando di un territorio che da tempo è considerato lì lì per diventare Patrimonio dell’Unesco (tanto che alcuni siti web turistici lo scrivono da anni): patrimonio mondiale dell’umanità. E quindi, io e molti altri,
in quanto facenti parte dell’umanità, siamo anche noi proprietari in pectore di
Castelluccio. Ed eticamente corresponsabili di quel luogo, e delle questioni che
lo riguardano. E, di conseguenza, legittimati e liberi a dire e scrivere quello
che pensiamo su quel tratto di Appennino, e sulle scelte che vi sono state
compiute, e che vi si intenderanno fare. Al pari degli otto nuclei familiari, e
di tutti quelli che da sempre ci commerciano nelle forme consentite dalla legge.
E anche degli stronzi che parcheggiano le macchine sopra la fioritura per farsi
le foto. Comunque, la vicenda del
Deltaplano di Castelluccio è paradigmatica di un clima, di una cultura, e di un
sentimento crescenti nel Paese, e non dagli ultimi tre mesi, ed è il frutto di
una lunga semina ultraventennale. Che è quella di un’idea della società non più
comunitaria, ma tribale; della superfetazione del concetto di interesse
particolare, per il quale è legittimato il cannibalismo del tutti contro tutti;
in tempo di pace, come si dice, e ancor più in tempo di guerra. Del concetto
che non ci si debba interessare di una questione, se questa non coinvolge direttamente
la tua saccoccia; e soprattutto di non permettersi, vivendo fuori da un
determinato luogo (anche se solo di qualche decina di chilometri) di dire,
fare, scrivere, perché lì, la “ggente” vuole così. E che pratiche democratiche quali
la dialettica, il confronto, la mediazione, tolgono opportunità e diritti alla
“ggente”; la quale sa bene da sola cosa è giusto e cosa non lo è. Per cui, in
questa cultura crescente di un concetto di popolo ridotto a banda di
condominio, è normale che chi vende le foto della Piana di Castelluccio o le
magliette sulle bancarelle festive, pur abitando magari nella Pianura Padana,
sia pronto a prendere a legnate (verbali s’intende), chi pensa e scrive che il
Deltaplano rappresenti una scelta sbagliata rispetto ad un valore di territorio
e di resilienza. Così come, tornando in una parte dell’Appennino più vicina a
casa mia, un libero professionista, che da una scelta politica ed
amministrativa che lede il paesaggio in maniera definitiva, ci “spizzica” per
sé qualche migliaio di euro, possa trovare naturale e normale, minacciare (con
l’uso della tastiera) di prendere a palate una signora che scrive di pensarla
diversamente da lui. Questo perché solo chi opera in un luogo, chi guadagna in
quel posto, e quindi non in virtù della nascita o di una scelta di
residenzialità , o di una volontà di “restanza”, così come la definisce Vito
Teti, ma solo in virtù di un tornaconto monetario per sé, è nel diritto di
pensare, dire, operare, giudicare. Il denaro diventa il valore assoluto, che
accredita e legittima al tempo stesso, chi è in condizione di poter esprimere
un punto di vista e un giudizio. E’ questa, la cultura montante, molto
pericolosa, che tiene insieme, nel caso di Castelluccio, il costruttore, il
comunardo e il “porchettaro”; e che esclude l’unico soggetto vocato a definirsi
popolo, le otto famiglie che non ci abiteranno mai più. E, che fa di essi una
categoria del tutto originale, nuova e straordinaria: quella dei sovranisti
dell’Altopiano. E dei tanti altipiani sparsi e diffusi per l’Italia, anche a
livello del mare…
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