Fa caldo a Fiastra, sotto il gazebo
sopra il lago, affollato di persone. Non è come l'ambiente climatizzato di una
sala convegni di uno storico hotel sulla costa. Certo, qui c'è la vista lago,
anziché la vista mare; quel lago, dove riconosci subito sulle sponde i segni naturali
dell'abbassamento forzoso del livello dell'acqua, fatto mesi fa per precauzione
sismica. Così come, arrivando lì, e attraversando il borgo di Fiastra, sono
dolorosamente evidenti i segni lasciati dalle scosse terribili del 2016 e,
insieme, i segnali di una precaria quotidianità continuata in nei m.a.p.
(container): le poste, la farmacia, qualche piccola attività commerciale.
Container e case puntellate che ridisegnano un nuovo, indesiderato, ibrido
modello urbanistico. Le decine di persone, eterogenee per provenienza, età,
attività lavorativa, sono i partecipanti al Festival di TERREINMOTO Marche, la
rete di associazioni, movimenti, cittadini, imprese locali, nata all'indomani
dei terremoti devastanti per questo tratto di Appennino (da Fabriano ne fa parte
il Laboratorio Sociale Fabbri). Che in dieci mesi e oltre oramai,
volontariamente e quotidianamente, si è prodigata nella solidarietà,
nell'informazione alle popolazioni colpite, nel rappresentare nei confronti
della filiera istituzionale i bisogni e i diritti di quanti, in qualche minuto,
hanno perso tutto: persone care, casa, lavoro, relazioni personali e sociali, e
che si trovano sballottati e rimpallati tra camping e alberghi, ordinanze e
scartoffie. E che rischiano, questo sì molto dannoso, di perdere dopo oramai
undici mesi, la cosa meno materiale ma più preziosa che posseggono: la propria
dignità di cittadini. Non ci sono, tra i volontari e gli animatori di
TERREINMOTO, personalità di caratura accademica, o di lungo corso politico-istituzionale,
o manager di aziende o fondazioni; piombati sul posto per le poche ore
circoscritte ad un seminario o un convegno, anche se fino a qualche giorno
prima l'Appennino marchigiano per questi era solo un puntino elettronico su
Google Map. Ci sono giovani donne e uomini molto anonimi, molti dei quali
laureati e con competenze qualificate, che ogni mattina hanno un grande, ma
molto comune, obiettivo: svegliarsi per mettere insieme, come si dice, il
pranzo e la cena; per sé e per la propria famiglia. E che sono associati da un
unico, qualificante, comun denominatore: vivono, abitano (o meglio diversi
abitavano), sull'Appennino colpito dal sisma. E, cosa assai incredibile,
non si prefiggono come altri di far rivivere, rinascere o risorgere
l'Appennino; azioni peraltro, almeno le ultime due, che presuppongono una certa
dose e facoltà di mistica e trascendenza. Quelli molto accaldati, che spostano
le sedie a seconda di come gira la palla del sole all'orizzonte, sotto la
tensostruttura sul prato, per riposizionarsi, non tanto a livello politico o
professionale, ma semplicemente in base all'ombra di cui beneficiare, hanno
semplicemente tre piccoli obiettivi molto terreni: “Tornare, Resistere,
Ricostruire” (il tema del Festival). E un grande, enorme, emergenziale
questione, che le faglie dell'Appennino, sconquassandosi, hanno portato a
giorno: quale modello di democrazia esiste nella gestione dei territori, e
nelle politiche per quanti vivono e lavorano in montagna? Perché, alla fine, il
tema profondo che in questo caso il terremoto ha rimesso al centro, ma che
potrebbe essere anche qualsiasi altro evento naturale che mette in relazione
uomini e paesaggio, è proprio la democrazia. E guardando a molte delle
procedure, sia legate alla gestione dell'emergenza che alle fasi successive, è
evidente che l'indice di democrazia è abbastanza basso, quasi alla stregua di
qualche paese autoritario della penisola araba con cui le nostre Istituzioni
intessono rapporti di affari; e questo non solo per il post terremoto 2016, ma
già dalla catastrofe del 2009 a L’Aquila. Pochi sanno che, ad esempio, nelle
strutture adibite ad accoglienza della Protezione Civile, non vengono serviti
caffè, alcolici, alimenti eccitanti in genere, e che per chi vi si trova a
viverci temporaneamente, è fatto divieto di riunirsi in gruppo o comunità Una sottrazione di concertazione delle scelte
con le persone interessate, una spoliazione di ruolo delle autonomie locali, la
mancanza di ascolto dei bisogni e delle peculiarità di chi sull'Appennino ha
vissuto, e che vuole tornare per perseguire un proprio ed indipendente modello
di vita, economia, relazioni. E TERREINMOTO, in questi mesi di questo si sta
facendo carico, di ascoltare condividendo, di rappresentare allargando la
partecipazione e il coinvolgimento, di mettere al centro di un percorso le
persone. Di definire, partendo da una relazione fisica e quotidiana, una ricostruzione
che non sia solo edilizia, ma ancor prima culturale, sociale ed economica. E il
rapporto diretto, la relazione, definiscono un quadro più nitido di qualsiasi
indagine del Censis, rispetto alle priorità per l'Appennino e la quotidianità
dell'abitare sui territori montani. E due sono gli architrave di questa ricerca
empirica e diretta, fatta non con la statistica e i questionari, ma per strada:
la prima, che va posta fine alla rapina perdurante da decenni, in virtù di un
profitto di pochi, del territorio, del paesaggio e delle risorse della
montagna, che sono beni comuni (quindi per essere chiari, ma solo per fare un
piccolo esempio, basta con infrastrutture e grandi opere, utili solo a qualche
portafoglio). Poi, la seconda, che il futuro dell'Appennino non passa
attraverso l'idea di un'economia turistica che lo trasformi in una sorta di
grande resort o “villaggio vacanze diffuso” per ricchi, in cui la vita di chi
ci vive ed abita, anziché la risorsa principale, diviene un fastidio (e per cui
il perseguire politiche di abbandono e spopolamento è funzionale a ciò), un
Appennino anziché di cittadini, per qualcuno di nuovi dipendenti. Già prima del
terremoto, sull'Appennino molte erano le esperienze avanzate di agricoltura,
pastorizia, ecoturismo, fatte da giovani che, partendo spesso da radici
familiari, avevano le conoscenze e le competenze per far convivere "il
pero con il computer". Per cui, tanto più ora, non c'è bisogno di
qualcuno, che in virtù di un buonismo lacrimevole e predatorio al tempo stesso,
arrivi da fuori per imporre un suo modello di sviluppo senza alcun rapporto di
ascolto e confronto con i territori, finalizzato ufficialmente ad un generoso
impegno per il rilancio della montagna ferita dal terremoto. Soprattutto poi,
se questi “qualcuno”, sono gli stessi che in passato l’Appennino, per interessi
economici propri, l’hanno spolpato quasi fino all’osso. A chi vuole tornare,
resistere, ricostruire, non servono progetti di zootecnia intensiva perseguiti
da colossi dell'agroalimentare, già trombati e respinti da altre Regioni e che
si pensa di riciclare nelle Marche; come non servono progetti di frutticultura
intensiva perseguiti da grandi aziende alimentari, senza una vocazione
agronomica in questo territorio, e non vincolati
a rigorose prassi di coltivazione biologica. All'Appennino ferito dal terremoto,
serve per prima cosa, il rispetto dei principi cardine della Costituzione
Italiana: un sistema Istituzionale che garantisca diritti, servizi, legalità,
rispetto e tutela del territorio. Se la ricostruzione passasse per declinare e
perseguire anche e solo i valori costituzionali, saremmo già un pezzo avanti;
ma invece dopo 11 mesi non è così... Queste riflessioni, e la conseguente
definizione di politiche e scelte, allora, bisogna farle sul posto, al caldo e
con qualche zanzara intorno, a contatto con la stanchezza negli occhi di chi
dorme da mesi in una roulotte, per non far mancare niente alle sue pecore e
mucche, o incrociando le lacrime di chi da quasi un anno non ha più una
comunità con la quale intessere relazioni, perché quelle persone sono state
deportate, frammentate e divise tra alberghi e camping marini, o guardando da
un prato sopra un lago la bellezza e la devastazione. Politiche dal basso,
partecipazione, dialettica confronto e, solo alla fine, decisione. Se si
inverte il processo, e si guarda all'Appennino e ai suoi abitanti, come i
corpuscoli su un vetrino di laboratorio, e si pensa e decide per loro quale
debbano essere la cura e la terapia, si diventa conseguentemente nemici
dell'Appennino e dei suoi abitanti; e nemici da sconfiggere; "quando la
vita viene aggredita dall'esterno - diceva una ragazza sotto il tendone - la
vita reagisce". L'incontro di Fiastra, e il percorso dell'esperienza di
TERREINMOTO, ha davanti a sé ora una grande responsabilità e opportunità:
riaprire, partendo dal dramma del terremoto e dal percorso della ricostruzione,
la partita della democrazia nei territori, contro ,l'imposizione di un modello
economico di depredazione delle risorse, nello spirito tale e quale a quello di
quanti ridevano di notte nell’aprile 2009 e nell’agosto 2016. Un percorso, che
passa attraverso l'estensione e la
saldatura di una rete di cittadini che attraversi tutta la dorsale italiana: da
chi si batte per la difesa degli ulivi (e non solo) nel Salento, per l'acqua
pubblica in Abruzzo, contro un gasdotto che attraverserà tutto l'Appennino per
oltre 600 km passando sotto tutte le faglie attive che si sono attivate dal
2009 ad oggi, fino a chi lotta contro lo scempio e i micro terremoti causati delle
grandi navi da crociera nella laguna veneziana, e contro la tav torino-lione; e
tanti, oramai veramente tanti, altri. Alla fine, tutta la riflessione di questi
mesi e di Fiastra, la sintetizza spontaneamente, sotto il gazebo sul lago, Enzo
Rendina, che è venuto insieme ai volontari del Gus. Enzo è stato l'ultimo
abitante di Pescara del Tronto; ha aiutato in quella tragica notte del 24
agosto a cercare i vivi ed i morti tra le macerie; poi lui non se n'è voluto
andare, non ha voluto farsi deportare, ed è rimasto lì in una tenda fino a
gennaio di quest'anno; quando una sera l'hanno arrestato e carcerato, per
inosservanza dell'ordinanza del sindaco (“s” minuscola in questo caso) che
intimava a lasciare il territorio comunale a qualunque essere vivente. Ora è
sotto processo che, come è tradizione, durerà anni. È un uomo buono e mite
Enzo, si vede dagli occhi; ha solo un amore esagerato per la sua terra, e per
il suo paese che è stato polverizzato dalle scosse. I giornali nei mesi scorsi
l'hanno definito "irriducibile", perché non se ne voleva andare; una
parola che richiama notti buie per la democrazia. "Irriducibile io? - si
domanda Enzo sotto il tendone di Fiastra - Gli irriducibili sono loro, non si
fermano mai".
giovedì 27 luglio 2017
DI PISTE CICLABILI E SCELTE DI CAMPO. CULTURALI E IDEALI
Può una pista ciclabile diventare il paradigma di come si possa intendere il destino dell’Appennino? Perché in fondo è questo, io credo, il nodo della questione che si apre, a seguito della proposta della Regione Marche di destinare una cospicua parte del ricavato degli sms solidali post sisma (5,5 milioni di €); ovvero a realizzare parte di un tracciato molto più lungo, di carattere ciclabile, che attraversa dalla costa, i territori e le comunità colpite dai terremoti. Con lo scopo di rilanciare il turismo in quelle zone. Non entro nel merito, certamente legato ad un senso di etica pubblica, sulle finalità di utilizzo dei fondi; sarebbe semplice e scontato. Sull’Appennino italiano vivono all’incirca complessivamente oltre 20 milioni di persone; non sarebbe una forzatura, ma avrebbe anche giustificazione storica, culturale, sociale ed economica, parlare di un Popolo dell’Appennino. E allora il turismo rappresenta certamente un aspetto, importante ed anche di sviluppo, ma della sola dimensione economica. Se però nel mentre, a causa di una catastrofe naturale, i terremoti del 2016 ad esempio, o di scelte politiche ed istituzionali che negli anni hanno perseguito, e perseguono tutt’ora, lo spopolamento e l’abbandono dell’Appennino (perché tenere le persone in montagna costa, sono poche e disaggregate, e quindi il rapporto investimento pubblico/ritorno elettorale è fortemente negativo), le aree montane rischiano una desertificazione definitiva, quale turismo si vuole? Semplice: quello di un territorio Appenninico trasformato in enorme villaggio vacanze, come la costa egiziana per capirci, con tutto tranne che gente che ci vive, fa figli, cura il territorio, lavora, e muore persino. Un Appennino ad uso (meglio abuso) e consumo stagionale, in cui ci puoi anche far passare un gasdotto come quello Gazprom/Eni/Snam, e trasformare un cementificio fallito in un megaimpianto di termovalorizzazione (detto comunemente inceneritore). E in cui hanno senso, ad esempio, sette eliporti quasi confinanti (pagati nelle intenzioni anche questi dagli sms solidali).
Il prossimo fine settimana, quello dal 21 al 23 luglio, nelle Marche ferite dal terremoto, ci saranno due importanti ed autorevoli consessi dove approfondire quale futuro si vuole per l’Appennino. Il primo è “RINASCO – le Città Creative per l’Appennino”, promosso dalla Fondazione Merloni. Con conferenzieri di prestigio, ma senza alcun radicamento nel territorio. Un soggetto, quello promotore, espressione di una cultura politica che nei decenni ha già spolpato l’Appennino quasi fino all’osso, e che ha perduto in conseguenza di ciò ogni credibilità; ma che adesso lo vede come un nuovo e grande business legato al “turismo del resort”. Un Appennino di nuovi dipendenti, ma non di abitanti e cittadini. Poi c’è "Terre in Moto Festival - 20/23 luglio, Fiastra (MC)" al Lago di Fiastra. Promosso da una rete di associazioni, imprese, cittadini, che da dieci mesi si batte (e si sbatte) per aiutare, sensibilizzare, informare le comunità colpite dal sisma. “Tornare, resistere, ricostruire” è lo slogan dei tre giorni, o meglio le parole forti di un vero progetto politico; sono previste escursioni, spazi per bambini, cibo a km0 della aziende agricole ferite dal terremoto, incontri su temi di carattere democratico, sociale e ambientale, con relatori protagonisti di lotte quotidiane nei territori. Un Appennino di persone che vogliono essere protagoniste del proprio futuro e della salvaguardia del territorio. Due visioni, due mondi, due idee di Appennino diverse, e giustamente antagoniste. Decidete liberamente da che parte stare e dove passare quei tre giorni. Ma sappiate che si tratta, ancor prima di uscire da casa, di fare una scelta di campo culturale ed ideale; non senza ripercussioni per l’Appennino ed il suo popolo di abitanti.
* pubblicato da Genziana Project il 13.07.2017
domenica 2 luglio 2017
VIALE DELLA RINASCITA n. 1
L'ha tenuto stretto tra le mani tutto
il tempo dell'incontro, quasi due ore, senza muoverlo, senza appoggiarlo
neanche sulle ginocchia, come fosse la cosa più preziosa del mondo. È rimasta
seria, sempre, accigliata, con lo sguardo fiero da donna dell'Appennino,
attenta ad ascoltare tutte le parole che si dicevano, come se non volesse
perderne anche una. Aveva sorriso solo prima di sedersi per l'incontro, prima
con gli occhi enormi, sgranati, come quelli di una bambina, solo dopo con le
labbra; quando Laura (mia moglie, cosi palesiamo subito il conflitto di
interessi), gli aveva detto che lì dentro c'era il suo nome, si parlava di lei.
Lì dentro, è lì dentro il libro "I Racconti di San Pellegrino", che
oggi veniva donato agli abitanti di S. Pellegrino di Norcia. Pagine e parole
scritte prima con l'anima e poi con la tastiera dai tre autori ternani, Laura,
Marco e Marco, la cui vendita andrà a sostenere il progetto di Rifiorita, con
cui da mesi ex liceali oramai cinquantenni hanno coinvolto una intera città,
Terni, dai boy scout agli ultrà della Ternana. L'obiettivo è quello di
raccogliere la somma necessaria perché a San Pellegrino, piccolo paese di poco
più di cento abitanti nella piana di Norcia, possano avere a breve una
struttura da adibire a centro sociale. "Che cosa vi serve - avevano
chiesto loro ai primi di novembre - cosa possiamo fare?" E loro, che dal
24 agosto non avevano più nulla, perché tutto il paese è stato polverizzato dal
terremoto, avevano chiesto non una cosa per sé o per altri in particolare, di
emergenza o di prima necessità, ma qualcosa per tutti, che ristabilisse il
senso della comunità, della relazione, dell'appartenenza: un centro sociale;
strani questi montanari... E stamattina erano tutti lì, nel viale ritagliato
dal villaggio "Della Rinascita", che separa le SAE dove abitano da
febbraio gli abitanti. C'era molta emozione, nel ritrovarsi, nel rivedersi.
Eravamo stati qui il 27 dicembre e il clima era diverso, ma sempre di speranza
e di battaglia. Ma appena sceso dalla macchina, sentivo che c'era qualcosa di
strano, che non andava... Non sentivo quel tanfo maleodorante e putrescente
della Strategia dell'Abbandono (e di quanti la perseguono), che si annusa
subito nelle Marche. Ma non tanto perché ci sono le SAE abitate dai primi di
febbraio, che avevo visto già consegnate e pronte da montare il 27 dicembre
(nelle Marche, ad Arquata del Tronto, dal 24 agosto, stesse procedure, i primi
assegnatari sono entrati in casa il 30 giugno; così, per dire...). Ma perché
qui, da quella mattina del 24 agosto non se n'è andato nessuno, e nessuno li ha
deportati al mare forzosamente, ma sono rimasti a San Pellegrino, hanno potuto
montare tende e casette fai da te nell'orto in giardino senza essere denunciati
per abuso edilizio; è vero, qualcuno timidamente ci ha provato a proporgli di
andare al mare e al lago, ma loro hanno reagito come comunità, hanno resistito,
tutti per uno e uno per tutti. Hanno tribolato, è stata dura con l'inverno, gli
animali, ma stamattina sono comunque contenti di esserci, di stare qui, di
accogliere. Una famiglia mi invita per un caffè dentro la loro SAE. Ho voglia
di un caffè, ma mi sento di disturbare, di invadere la loro ritrovata stabilità
precaria. Accetto, e nell'entrare mi viene l'istinto di togliermi le scarpe
come si usa fare in Giappone, in segno di rispetto. Prendo il caffè, in piedi,
anche se sono stanco, ho fatto in tre giorni più di mille chilometri, e mi
siederei volentieri sul divano compreso nell'allestimento SAE; ma anche qui
prevale uno strampalato istinto di delicatezza e rispetto. "Se ti serve il
bagno - dicono - fai pure". "No grazie - anche se ci andrei di corsa
- non ne ho bisogno". Chissà perché, in quel modulo così impersonale, dove
sono riusciti a portare solo una vecchia credenza dalla casa crollata, mi
scatta un istinto di attenzione e rispetto per quell'ambiente, che per loro ora
è il tutto, che è del tutto irrazionale. Poi torniamo, inizia l'incontro,
Isabella l'editrice non vuole parlare, è emozionata, dice che già gli viene da
scoppiare a piangere appena scesa dalla macchina. "Annamo bene - penso -
già è difficile per tutti non commuoversi solo nel ritrovarsi con gli occhi, e
adesso ti ci metti pure tu..." Però l'incontro poi va bene, è bello,
Isabella poi parla, e parla pure Lucio, il pompiere di Terni che è vissuto qui
con loro per mesi, e oramai è di San Pellegrino pure lui. Alla fine inizia a
piovere, ma si pranza tutti assieme sotto gli spioventi delle SAE. Ho capito
durante l'incontro perché qui non c'è puzza di Strategia dell'Abbandono; è
perché c'è una comunità forte, coesa, che ha resistito alle sirene
ammaliatrici, e poi anche perché qui, seppur ritardi, problemi, disguidi ci
sono stati, c'è stato un po' di buon senso delle Istituzioni. E perché forse
alla fine, qui non c'è un mare dove deportare per razionalizzare i servizi e
spopolare la costosa montagna (e il Trasimeno si sta prosciugando), nè magari
un enorme invenduto da bolla speculativa immobiliare da rifilare ai
terremotati. Alla fine arriva Cecilia, la più anziana del paese, con suo libro
stretto ancora in mano, quello dove si parla di lei. "Io abito laggiù - ci
dice sorridendo - mi hanno dato la SAE al civico n. 1, la prima. Quando tornate
venite a suonarmi".
P.S. Il libro "I racconti di San Pellegrino", di Laura Trappetti, Marco Morandi e Marco Vescarelli, edizioni Intermedia costa 10 €. Lo trovate su Amazon o sul sito della casa editrice. San Pellegrino ha bisogno di un centro sociale.