“…anni dopo al punto
partenza”. Non due come scrive Guccini in una sua canzone, ma venti. E’ tempo
di anniversario quest’anno per il Parco Naturale Regionale Gola della Rossa e
di Frasassi. Fu infatti il 2 settembre di vent’anni or sono che il Consiglio Regionale
delle Marche approvò la Legge istitutiva dell’area protetta. Un parto non
semplice, epilogo di un confronto politico e sociale complesso. Ricordo che in
quegli anni, vista dalla città di Federico II, ambientalista antesignano anche
lui, quella scelta mi pareva assai una forzatura e, per certi aspetti, poco
naturale. Era come se si volesse appiccicare un marchio dop, su un formaggio
prodotto con latte in polvere. Nel senso che la previsione di area protetta andava
a circoscrivere un territorio fortemente già compromesso dal punto di vista
ambientale: l’attraversava una rete ferroviaria, una strada statale, fortemente
antropizzato, con attività industriali e manifatturiere pesanti che vi
insistevano da decenni, con un’attività estrattiva che aveva già compromesso
l’originaria morfologia del paesaggio. Ma era quella la stagione del governo,
nazionale e locale, dell’Ulivo; e la legge del Parco non poté che risultare
alla fine il compromesso tra due anime di quella stagione politica: quella
“industrialista” e quella “ambientalista” (in questa categoria c’erano poi
ambientalisti rigorosi, ed altri un po’ meno), che alla fine produsse tutte le
contraddizioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti: nessuna riconversione
industriale verso un modello leggero, che oggi si definirebbe green economy (una certa riconversione
non green poi nell’ultimo decennio
l’ha prodotta la crisi…), le aree di cava, pur facenti parti del territorio
naturale del parco, furono perimetrale fuori dell’area protetta (attività a cui
il Comune di Serra S. Quirico ha rinnovato la concessione di escavazione fino
al 2050 con delibera di Consiglio n. 57 del 2008), il mantenimento di alcune
aree tutt’oggi interessate dall’attività venatoria, deroga a qualsiasi opera
infrastrutturale che avesse avuto interesse e rilevanza nazionale (di qui lo
scempio del paesaggio in corso in questi anni con il raddoppio della ss 76 per
opera della Quadrilatero). E, non secondarie, la mancanza di un reale processo
partecipativo con le comunità che abitavano nel parco, una serie di mediazione
al ribasso con chi viveva di agricoltura e zootecnia in questo territorio, e
che rappresenta il primo custode del territorio. Furono anni di scontri accesi,
l’aneddotica narra addirittura di una riunione di promotori e sostenitori del
parco, riparatisi dentro una chiesa di Serra S. Quirico, circondata da cavatori
e cacciatori imbelviti e liberati dai Carabinieri… Negli anni si è fatto molto
poi per la promozione del parco (convegni e pubblicazioni sono stati
abbondanti…), dei suoi obiettivi, e buono è stato ed è il lavoro didattico e
formativo con le scuole. E’ cresciuta una frequentazione turistica, al di là
del tradizionale afflusso alle grotte di Frasassi, sono nate piccole imprese
che sul valore paesaggistico e naturalistico del Parco, promuovono le proprie
attività. Allora è stata una scelta giusta, si darà, alla fine? Certo, però
basta girarci un po’ dentro il parco, al di là dei sentieri più battuti, per
constatare che ancora la strada da fare molta. Chi ci vive, come chi ci pratica
un’attività agricola, fa tutt’oggi fatica e vedere il bicchiere tutto pieno. Il
fenomeno dello spopolamento dei borghi e delle piccole comunità rappresenta un
dato demografico allarmante, il patrimonio artistico ed architettonico non è
stato per niente curato, basti pensare alle condizioni in cui si trova il
millenario Eremo di Grotta Fucile, fondato da San Silvestro, la situazione di
degrado che negli anni si è prodotta al lago Fossi a Genga, ai bordi dei
sentieri oltre asparagi e funghi, è altrettanto comune trovare elettrodomestici
e altri rifiuti abbandonati; tante tabelle, insegne, molte logore ed
arrugginite oggi. La vera funzione di manutenzione e di guardiaparco, la
svolgono alla fine più i volenterosi abitanti delle piccole comunità, che chi
di dovere. Il limite di tutto questo, che produce il bicchiere mezzo pieno di
oggi, è stata la governance del
Parco. Non si diede allora vita ad un
Ente autonomo, ma si affidò subito la gestione del parco alla politica locale e
territoriale, la quale, chiaramente, esercitò la propria funzione con tutti i
vizi compromissori della stessa, in cui spesso il parco è risultato essere un’istituzione
di compensazione ed aggiustamento dei risultati elettorali, di bicchiere di
cristallo tra gli elefantiaci scontri dei campanilismi locali della politica.
Che ha visto, negli anni, avvicendarsi classi dirigenti consumate e più
propense a cedere alle spinte corporativistiche di turno, che intente a far
radicare nelle comunità una nuova cultura ambientalista, capace di costruire
dal basso una riconversione economica e sociale di un territorio. Giace da
qualche tempo nell’Assemblea Legislativa delle Marche (oggi si chiama così),
una proposta di legge che mira ad allargare i confini del Parco, estendendoli.
Credo che non sia questo il necessario, ed il tema. Ma, al contrario, ciò che è
urgente è una riforma vera della Legge di vent’anni fa, che con rigore renda coerenti, tra norma e prassi, le finalità di
un’area protetta. Che ad esempio dica basta subito con l’attività estrattiva in
questo territorio, altrimenti nel 2050 non ci saranno più alcune montagne; che
investa risorse vere e controllate per la prevenzione e la salvaguardia del
territorio; che sottragga la governance
del parco alla schermaglia della politica locale; che pretenda dalla
Quadrilatero, alla fine dei lavori del raddoppio della statale 76, opere di
riforestazione e rimboschimento coerenti con il patrimonio vegetativo del
territorio (anziché aree semidesertiche come sulla ss 77); che l’attività venatoria
venga bandita definitivamente dal territorio del parco senza più zone franche;
che l’azione di contenimento della proliferazione dei cinghiali venga sottratta
ai cacciatori e ai fucili, e si
sperimentino sistemi farmacologici come avviene in gran parte d’Europa; che chi
in decenni ha tratto profitto smisurato dall’attività estrattiva, riversi parte
degli utili in opere di salvaguardia, compensazione e ripristino del territorio
violato; che i Comuni interessati dal parco facciano una nuova politica
abitativa tesa esclusivamente al recupero del patrimonio immobiliare privato,
con incentivi fiscali e tributari, con servizi reali alle persone e alle
famiglie che vivono sul territorio, e che da anni continuano a sentirsi
cittadini di serie B; che si favoriscano la creazione di piccole imprese
giovanili e non, nel settore turistico, agroalimentare, sportivo. Ma per far
tutto questo, serve per prima una diversa classe dirigente politica, quella
attuale non ce la può fare; non nuova tanto anagraficamente, ma con una diversa
cultura amministrativa, e neanche necessariamente autoctona, ma che veda
impegnati anche quelli che in questo territorio, pur non essendoci nati, hanno
scelto di viverci. Capace di tenere testa alle tante tirate di giacca,
rigorosa, forte proprio di un’autonomia che deriva dal non essersi logorata nel
territorio e in baruffe sedimentate in anni addietro. Serve una ripartenza
insomma, per non logorare del tutto, senza rimedio, una buona scelta che, pur
con tutte le contraddizioni ed i limiti, si fece vent’anni fa. E che andrebbe
rifatta.
sabato 15 aprile 2017
GLI ARTEFICI DEL DISASTRO
L’incipit di questa storia, potrebbe essere “Cedi la strada agli
alberi”, titolo del libro di Franco Arminio. Michele, fabrianese acquisito, che
come dice un noto talk televisivo “si guadagna da vivere come” gestore dell’accoglienza in un bellissimo
monastero del territorio, me l’aveva detto: “vacci a vedere di giorno che
scempio al paesaggio stanno facendo da quelle parti”. Ci passo di giorno, sulla
strada delle Serre, e vedo l’avvio della perimetrazione delle aree di cantiere,
con le ruspe già in azione, ed immagino quello che questo comporterà per il
paesaggio. E’ il cantiere della pedemontana Fabriano-Muccia del progetto
Quadrilatero, quello partorito oltre 10 anni fa, che prevedeva di realizzare il
raddoppio delle ss 77 e 76, e di modernizzando i collegamenti tra Marche e
Tirreno. La storia di questa vicenda è molto complessa, ma la racconta bene in
ogni suo aspetto Loredana Lipperini, nel libro “Quel trenino a molla che si
chiama il cuore”. Dietro quel progetto, c’era l’idea della politica e di una
classe dirigente, trasversale per appartenenze culturali e per livelli di
governo, che la risposta più efficace ad un sistema economico che stava crollando,
potesse essere che “il fare strade moderne”, urbanizzando ed edificando le aree
contigue, avrebbe rimesso in moto le imprese e le lobby degli appalti, rilanciando
un modello economico in crisi. “Dopo che saranno fatte le strade – mi disse uno
anni fa - si arriverà dall’Umbria all’Adriatico un quarto d’ora prima.” “E poi
– gli risposi – quando sei arrivato quindici minuti prima – che t’è cambiato?” Devastato
già il paesaggio della Val di Chienti e dell’Alta Valle dell’Esino, per
arrivare da qualche parte un quarto d’ora prima, adesso toccherà al bellissimo
paesaggio collinare e pedemontano che da Fabriano si protende fino alle pendici
dei Sibillini a Muccia: le colline del Verdicchio di Matelica e di altre
tipicità su cui, mentre le ruspe cancellano suolo agricolo, si continua a scommettere
un nuovo futuro per l’economia territoriale e turistica. Quarantadue km, 5
ponti e viadotti, una galleria da 900 m (un metro costruito in galleria fa
guadagnare tre volte rispetto ad un metro a giorno). Non si è poi portati a
pensare, che una strada così produrrà un danno indotto ad una microeconomia ed
imprenditorialità che sono radicate nei borghi e nelle cittadine che stanno tra
Fabriano e Muccia. Già molti dei piccoli produttori che vendevano patate rosse
ed altri prodotti sull’altopiano di Colfiorito, adesso sono costretti a
scendere sulle provinciali a valle, perché con la nuova 77, lassù non ci passa
più nessuno. Pensiamo ad esempio ai bar, piccoli esercizi commerciali, e tante
piccole attività artigianali che guadagnavano dall’automobilista che passava
dentro i borghi tra Fabriano e Muccia; a strada nuova il loro fatturato si
vedrà significativamente ridotto. Al posto del prodotto tipico acquistabile
fermandosi lungo la provinciale, nella stazione di servizio che verrà
realizzata lungo la superstrada si troveranno poi la maxiconfezione di barrette
Kinder e l’orsacchiotto di peluche fatto dai bambini asiatici schiavizzati. Per
non parlare dei danni irreversibili al paesaggio e all’agricoltura, con il consumo
di suolo per realizzare strada e infrastrutture necessarie annesse. Ma i vignaioli del territorio lo sanno? Perché
non si mobilitano come stanno facendo in questi giorni gli olivicoltori
salentini contro il passaggio di un gasdotto? O qui interessa solo che il
furgoncino impieghi una manciata di minuti in meno per un trasporto? Ad un
territorio già interessato da anni da un consistente fenomeno di spopolamento, e
ora interessato da una vera e propria “strategia dell’abbandono” post terremoto,
la nuova strada darà il colpo di grazia. Mi colpisce, ma fino ad un certo punto
poi, che tutto questo avvenga senza che chi ha una qualsivoglia responsabilità
politica od istituzionale, non dico si incateni lungo il cantiere (non sono più
i tempi, e poi in molti sono corresponsabili dei fatti), ma almeno si faccia
attraversare dal beneficio del dubbio. E invece no, tutti a suonar le trombe del
“W la nuova strada!”. L’unico soggetto politico, il solo che rende dignità alla
parola “politica” nel comprensorio fabrianese, e che si è espresso contro la
Quadrilatero e questi progetti, è il Laboratorio Sociale Fabbri; ma si sa,
quelli sono pericolosi estremisti… Questa strada non servirà a niente, non
porterà nessun progresso e crescita, consumerà in maniera irrimediabile suolo e
paesaggio a forte vocazione agricola di qualità, non ha nulla di strategico. E’
sicuramente più strategico, per la valorizzazione del territorio e per una
nuova idea di essere comunità, il progetto di Paolo Piacentini, fabrianese
acquisito anche lui: l’”Università del Camminare”. Perché quella non è solo
un’idea per il tempo libero o hobbystica, o sentimentale (chi la pensa così
sbaglia, una passeggiata non purifica il cervello…), ma è una proposta di come
possa ridestarsi uno spirito civico che nel tempo è stato centrifugato e
aspirato dal mito industriale, e di come sia indispensabile prendersi cura del
suolo e del territorio. E questo ce lo ricorda non un ambientalista estremista,
ma un urbanista del Politecnico di Milano, Paolo Pileri, nel libro “Che cosa
c’è sotto”, in cui invita a diventare “partigiani della pelle del mondo”. Capita
spesso di trovare sui social un leit
motiv, che è quello di additare chiunque si contrapponga al perpetuarsi di modello
economico novecentesco (travolto peraltro dalla crisi), come i promotori di una
cosiddetta “decrescita infelice”; scimmiottando in maniera assai molto
ignorante, una teoria e una prassi dell’economista francese Serge Latouche: la
“decrescita felice”. Pensando malevolmente che si voglia perseguire una sorta
di cialtronesco ritorno al “poveri ma belli”. Mentre il tema vero, in generale
e di questo territorio, in cui tra
disoccupazione ed inoccupazione, si registrano cifre vicine ai quattro zeri, e
che pone non ultimo Papa Francesco, è quello della sobrietà. Ma quest’ultimo è
un valore e uno stile di vita che, come li avrebbe classificati il grande poeta
colombiano Álvaro Mutis, “gli artefici del disastro” di questo territorio, non sanno
ancora cosa possa significare, avvezzi ancora a praticare l’arroganza dei
ricchi.