26 settembre 1997, ore 11.40. Giornata di sole. Jesi, via Roma
sede del PDS. In una stanza io, il compagno Gigetto e il compagno Enrico. Si
chiacchiera del più e del meno, probabilmente si fanno i conti della festa de
l'Unità, terminata da poco. Il pavimento, la scrivania e il poco mobilio
iniziamo ad oscillare, come se si stesse su un canotto in mezzo al mare.
Rimaniamo inchiodati, gelati sulle sedia, per secondi interminabili,
probabilmente c'è scappato il bestemmione, contestuale alla intima preghiera a S.
Settimio, patrono di Jesi, protettore dal terremoto; "sgrullerà ma non
cascherà" dice il detto popolare riferito alla città. Finita la scossa
usciamo all'aperto, abbastanza frastornati. Incontro Figo, all’anagrafe Federico.
Dice che stava dal barbiere, e che era scappato per strada via con la tovaglia
intorno al collo e lo shampoo sui capelli. Non ci sono i social, non c'è
internet. Il telegiornale a pranzo dice che c'è stato un terremoto tremendo tra
Marche ed Umbria, 6.0, dopo una forte scossa della notte che non avevo, uno dei
pochi, sentito; facevo tardi al bar, la sera, in quei tempi. Nel primo
pomeriggio arriva la telefonata di mia madre, c'erano però già i primi
Motorola. Stavano a Falcioni, 28 km da Jesi. Piange (mia madre nei momenti topici,
anche quelli superlativi, piange sempre, come mia nonna). Dice che casa è
venuta giù, è un disastro. Sono frastornato. Parto, prendo la fiesta e arrivo a
Falcioni; non ci andavo tanto spesso, era la seconda casa dei miei, che oramai
per loro era diventata la prima. Io ci andavo ogni tanto di notte, per le
spaghettate e le svinate (soprattutto le ultime) con gli amici. Arrivo,
sono tutti per strada. Le case sono quasi tutte danneggiate. Casa fuori ha
molte crepe e ci sono calcinacci. Entro, incautamente. Mia madre fuori continua
a piangere. Babbo non parla, è molto serio. Salgo le scale, crepe, calcinacci.
Arrivo sopra alle camere. Dal tetto entra la luce del sole. È crollato, c'è un
buco enorme e le travi spezzate, come se ci fosse cascata una bomba. Scendo.
Esco. Rassicuro i miei. Dai, che la rimettiamo in piedi. Dopo 24 ore arrivano i
tecnici per la verifica: inagibile; casa rossa, più che zona rossa. Da quel
momento parte un percorso lungo, quello della ricostruzione. Col senno di poi,
a vedere la situazione di oggi, manco tanto lungo. Il Presidente della Regione
era Vito D’Ambrosio, un galantuomo, un antifascista, magistrato, incasellato nella
generazione dei “pretori d’assalto”, che indagavano su scandali e corruzione
pubblica molto prima di Tangentopoli. I miei tornano stabilmente a Jesi, io nel
frattempo parto per altre avventure. Confesso che ho seguito a distanza e con
scarsa partecipazione quegli anni. Parte l'iter della ricostruzione,
progetto, conto dedicato e tutta la solfa, carte su carte. Contributo del 50%
per la ricostruzione, era una seconda casa. Mio padre la ritira su, il suo
lavoro di vecchio muratore si aggiunge a quello dell'impresa, probabilmente
quello determinante nella direzione e tempistica dei lavori. La casa in 5/6
anni da quel giorno di settembre è di nuovo fatta. Alla fine, conti alla mano,
per rimetterla come è oggi, mio padre ci ha messo sopra del suo, e non di poco,
rispetto al contributo del 50%. Nel mentre, era arrivato l'avviso di garanzia a
mio padre. Il geometra del Comune l'aveva denunciato perché, secondo lui, aveva
preso indebitamente i contributi per la ricostruzione; probabilmente al
geometra era rimasto fuori qualche progetto di amici degli amici… Ipotesi di
reato, truffa ai danni dello Stato. Inizia il processo. Cinque anni di udienze,
con i miei trasfigurati ad ogni udienza. Arriva la sentenza: archiviazione
perché il fatto non sussiste. Nel frattempo, il geometra del Comune, era stato
arrestato all'alba una mattina dai carabinieri, mentre scappava in mezzo ad un
campo, con dei rotoli di progetti sottobraccio, insieme ad una collega
(l'amante dicono le malelingue di qui), per delle porcate che aveva combinato
in Comune. Due anni fa il geometra è morto. La politica e le istituzioni locali
l'hanno pianto molto; io no. Mio padre oggi ha 83 anni, sta benino. Lui e mamma
hanno lasciato Jesi, adesso abitano a 100 metri da casa mia. Gli ultimi
risparmi di una vita di lavoro l'hanno spesi per comprarci una casetta qui a
Falcioni. In quella terremotata nel '97 adesso ci abito io. Laura, quando la
vide in un tramonto di settembre, mi disse che voleva vivere qui; io pure c’avevo
da tempo fatto un pensiero. Adesso Falcioni è diventata la nostra finis terrae; provvisoria come direbbe
Franco Arminio. In Patagonia, lungo la Ruta 40 ci andremo più in là... Qui
abbiamo fatto il 24 agosto, il 26 ottobre, il 30 ottobre 2016 e il 18 gennaio
2017. Siamo scappati fuori di casa in pigiama, abbiamo dormito in macchina, e
per mesi a piano terra, sul sobrio divano letto ikea. La frazione le ha prese
di nuovo, due terzi delle case danneggiate, dieci sfollati per inagibilità su
40 abitanti. Il Comune sta fuori dal cratere, per scelta; perché qui vige il “prima
le Grotte (di Frasassi) e poi i bambini”. Casa nostra è integra; quella accanto
alla nostra è puntellata; rimarrà così per almeno vent'anni, perché qui, come
si dice, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia; la politica
locale è la stessa del 26 settembre di vent'anni fa. Quella che commemora la
memoria di un mascalzone, di uno che, anziché servire lo Stato, fugge nei campi
con la borsa. Io e Laura rimaniamo qua, c'è pure Broz adesso (lui si occupa
della sicurezza, e non solo). Si, si chiama come Josip Broz Tito, così è chiaro
come la penso su certe questioni. Ogni tanto ci stanno anche Chiara e Jacopo;
loro sono cervelli, per giusta causa, in fuga. Vivere qui, sull’Appennino, in
una piccola comunità, ti fa guardare le cose in maniera differente; amplifica a
approfondisce sensazioni, valori e radici che già c’erano. Io non so ancora,
vent'anni dopo, se sto realizzando un desiderio o scacciando l'incubo di un tetto scoperchiato Comunque sto sperimentando una
nuova visione di democrazia e di comunità. Mi diranno, un giorno.
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