Qui,
come altrove, i turisti non servono a niente. Qui c’è bisogno di nuovi abitanti,
di qualche panchina per i vecchi e di un altalena per i sei bambini. Qui c’è
bisogno di censire i ruderi, metterli in sicurezza o demolirli, di rendere di
nuovo abitabili case dismesse da anni. Qui c’è bisogno della metanizzazione e
della banda larga, anziché della superstrada. Qui c’è bisogno che le macchine
rispettino il limite dei trenta chilometri orari, che quelli che passano in
bicicletta non buttino fialette, bottigliette, incarti per terra, che gli
escursionisti e i climbers pensino che non stanno in una parco divertimenti all’aperto,
ma in luoghi che sono di tutti, comprese le bestie. Qui c’è bisogno che se fa un
po’ di neve, oltre a scansarla si butti anche il sale o il breccino, perché alle
quattro c’è chi si sveglia per andare al lavoro. Qui, come altrove, i turisti
non servono. Perché il turismo è un’industria. E come tale non può essere “slow” o “responsabile”. Perché l’attività
industriale ha bisogno di consumare risorse naturali e materie prime, sennò non
produce. E qui, l’industria ha già consumato molto; e molto di più di quello
che ha prodotto. Qui anche la politica non serve a niente. Perché ha pensato e pensa solo ai turisti, ma non agli abitanti. Qui, come altrove, i turisti non servono. Qui servono i
viaggiatori e i villeggianti. Quelli che si chiedono dove saranno migrati i caprioli
scacciati dal bosco dalle ruspe dei cantieri stradali. Quelli che si chiedono,
quando ritornano d’estate, se sarà ancora vivo il vecchio che viveva accanto
casa dei loro nonni. Qui, come altrove, serve nuovo umanesimo. I turisti sono
disumani. Sono quelli che calpestano i fiori delle lenticchie di Castelluccio,
che parcheggiano le macchine sui prati per sentire un concerto, che si fanno un
selfie sulle macerie dei terremoti, che toccano con le dita un quadro in un
museo e le stalagmiti di una grotta, che entrano in un luogo sacro vestiti per
la spiaggia, che vanno nel Canal Grande su una nave da crociera. Sono anche quelli
che, imperturbabili, fanno acquagym sul bagnasciuga, davanti ad una nave carica di
migranti a cui viene negato l’accesso al porto. Sulla battigia, la disumanità.
In mezzo al mare, l’umanità. Quella di cui c’è bisogno anche qui.
sabato 30 giugno 2018
venerdì 15 giugno 2018
LA STRADA DEL PAPA RE
E’
curioso che la Strada Clementina, fatta costruire nel 1733 dal Papa-Re Clemente
XII, come allora moderna infrastruttura pubblica per collegare il porto di
Ancona a Roma (si innestava infatti alla Flaminia a nord di Nocera Umbra), sia
stata di fatto privatizzata da anni dai Sindaci dell’Italia Repubblicana.
Infatti, quelli di una certa età oramai, ricorderanno che prima della
realizzazione della superstrada tra Ancona e Fabriano, per raggiungere la Città
della Carta si passava lungo la Gola della Rossa, attraversando le frazioni del
Comune di Genga di Pontechiaradovo, Falcioni, Camponocecchio, Gattuccio e Valtreara,
e lambendo, dall’altra parte dell’Esino, la due frazioni di Palombare e
Mogiano. Con la realizzazione, qualche decennio fa, della Superstrada e del
tracciato in galleria, quel suggestivo percorso stradale, è stato progressivamente
abbandonato dal traffico ordinario, ed utilizzato solo dai mezzi pesanti delle
imprese di attività estrattive, concessionarie dei bacini di escavazione del
Monte Murano. Tanto che, ad un certo punto, la Clementina, riconosciuta
originariamente come Statale, è stata declassata prima a provinciale, e poi a
comunale. Così, negli anni, il Comune di Serra S. Quirico, che nel 2009 ha
rinnovato la concessione di estrazione ai privati fino al 2048, ha pensato bene
di darla in uso esclusivo alle imprese delle cave, in cambio del prendersi
carico, da parte di queste ultime, degli aspetti manutentivi del tracciato
viario. Il risultato è che alla fine, Comune e imprese, la manutenzione della
strada e della Gola, non l’hanno mai fatta (nonostante un progetto esecutivo
presentato qualche anno fa dalle imprese interessate al Comune, che lo approvò,
ma poi misteriosamente scomparso); anzi, l’hanno sbarrata sia a monte, verso
Fabriano, che a valle, verso Jesi. Ciò a seguito di un’Ordinanza Sindacale di
chiusura totale (la n. 9 del 24.02.2010, mai modificata o revocata), che vieta
l’accesso alla strada a qualsiasi essere vivente che non sia dotato di ali per
il suo sorvolo… La strada però è rimasta percorribile fino al 2013, più o meno
clandestinamente, quando si trovavano le sbarre aperte per via del transito dei
mezzi pesanti che accedevano ai cantieri di estrazione. Chi sapeva ed era del
posto, considerata l’assenza di qualsiasi controllo, ci passava. Poi, in
conseguenza della piena straordinaria dell’Esino del novembre 2013, un tratto
di carreggiata di circa 30 metri, è parzialmente franato. Ricordo che un
pomeriggio di quell’autunno 2013, il fiume allagò la superstrada e la galleria
“Colle Saluccio”, isolando il fabrianese dalla Vallesina, e per circa 24 ore il
traffico da Fabriano verso Ancona fu deviato straordinariamente lungo la
Clementina. Da anni quindi, paradossalmente, il divieto di accesso e transito,
per quanto riguarda pedoni, ciclisti e climber, viene quotidianamente
disatteso. Non si capisce quindi, ad esempio, come da qualche anno il Comune di
Serra S. Quirico consenta, peraltro da Ente Patrocinante l’evento, lo
svolgimento di una manifestazione internazionale di arrampicata sportiva
all’interno della strada interdetta a chiunque. Inoltre, il 14 maggio 2016,
lungo la strada, in prossimità del fronte di cava di Serra S. Quirico, sono
franati massi molto grandi che, ad oggi, nessuno ha rimosso, né il Comune di
Serra S. Quirico, né le imprese delle cave. Uno stato di progressivo e concreto
abbandono, a fare da contraltare alle più volte ascoltate promesse di
ripristino della strada. Nel febbraio 2016, è nato un Comitato dal nome
“Riprendiamocilastrada”, che dopo un lungo silenzio, ha rimesso al centro la
necessità riaprirla e renderla pubblica. Un Comitato di abitanti, cittadini, Associazioni,
che annovera, tra le centinaia di firmatari, anche l’attuale Sindaco di
Fabriano e Vicepresidente dell’Unione Montana, Gabriele Santarelli. La
Clementina, al di là del valore storico e paesaggistico, è tornata in questi
ultimi mesi ad essere strategica, più che in passato, per gli abitanti delle
frazioni di Genga che si vedono costretti, per andare verso Jesi, a tornare
indietro verso Valtreara ed imboccare la nuova superstrada della
Quadrilatero-Anas (la galleria di oltre 3 km); cosa che, praticamente, comporta
circa venti minuti in più per trovarsi lungo la Vallesina. Ma ad impiegarci questo
tempo, oltre i cittadini di queste zone, per primo per recarsi quotidianamente al
lavoro, potrebbero essere anche eventuali mezzi di soccorso, chiamati a raggiungere
le quattro frazioni penalizzate (Falcioni, Pontechiaradovo, Palombare e
Mogiano); sempre che trovino aperto il passaggio a livello di Pontechiaradovo,
che nell’arco delle 24 ore, è chiuso circa per 7 ore al giorno. Due frazioni in
particolare, Palombare e Mogiano, in caso di qualsivoglia emergenza, si
ritroverebbero ad essere di fatto isolate e non raggiungibili, non potendo
contare sull’accesso o fuga veloci in direzione Vallesina, che restituirebbe
loro la Clementina riaperta. C’è da evidenziare poi che, con il nuovo assetto
viario del raddoppio della SS 76, i mezzi inferiori a 150 cc (motorini, apetti,
biciclette) non possono già da adesso andarci secondo quanto previsto dal
Codice della Strada. E una persona che dispone solo di questi mezzi, come fa?
E’ pur vero che ci sono sempre dei sentieri di montagna percorribili per andare
verso Jesi… Ma anche per raggiungere Fabriano, si è costretti a passare
esclusivamente per Collegiglioni. Per questo nei giorni scorsi, gli abitanti delle
frazioni, esasperati, hanno scritto al Prefetto, richiamando il civico valore e
diritto alla sicurezza, affinché il tratto della Clementina chiuso, venga
riaperto, messo in sicurezza, e destinato al traffico locale, perché le persone
che vivono da queste parti, possano avere piena agibilità di spostarsi, sia
nell’ordinario, sia nell’emergenza. Farlo ora, contestualmente ai lavori della
Quadrilatero in quella zona, significherebbe a detta del buon senso, anche una
razionalizzazione dei costi. C’è da affrontare, è pur vero, la questione della
sicurezza delle pareti rocciose, ma oggi ci sono tecniche di messa in sicurezza
efficaci e durature; basti vedere il pregevole intervento, che le Ferrovie
hanno fatto con le reti, sulle pareti sovrastanti il binario a Pontechiaradovo.
E ci sarebbero già anche, nel cassetto del Comune di Serra S. Quirico, 250.000
euro che la Regione nel dicembre 2016 ha assegnato all’Amministrazione per la
messa in sicurezza della Gola della Rossa, e che, ad oggi, non risultano dagli atti
amministrativi, né da cantieri in evidenza, essere stati impegnati. Nessuno
vuole che la Clementina sia di nuovo oggetto di traffico sfrenato; anzi, gli
abitanti per primi, sono d’accordo che un tratto della carreggiata possa essere
ciclopedonabile, e che magari nei giorni festivi si possano prevedere fasce orarie
di chiusura, fatta eccezione per i mezzi di soccorso, per favorire
escursionisti ed amanti della natura. E siccome siamo nel XXI secolo, ci sono
accorgimenti tali che possono contemplare tali differenti esigenze. Ma i
diritti, anche se di poco meno di settanta cittadini, per primi quelli alla
sicurezza e alla salute, devono tornare ad essere prioritari per quanti hanno
la responsabilità della vita pubblica; altrimenti tutte le riflessioni che da
anni si fanno nei convegni e nei tavoli istituzionali sul valore delle comunità
locali, sulle politiche per le Aree Interne, sullo spopolamento, si riveleranno
quello che già, purtroppo, in molti pensano essere. Cioè delle chiacchiere.
domenica 10 giugno 2018
I SOVRANISTI DELL'ALTOPIANO
Negli
ultimi trent’anni sono stato a Castelluccio, sulla Piana, due volte. La prima
con un amico prete ed altri, dopo un ritiro spirituale a Castelsantangelo sul
Nera; la seconda, con una giovane allevatrice transumante di pecore, e un amico
scrittore. Per cui, due volte in trent’anni, non mi danno, secondo molti, a
partire dalla statistica, alcuna legittimità ad esprimermi su quello che
succede in quel territorio. Però sono più che sufficienti, secondo gli stessi,
per sentirmi al contrario obbligato ad essere un consumatore del brand Castelluccio, a farmi i selfie in
mezzo ai fiori, parcheggiandoci sopra anche la macchina, come da anni fanno in
tanti, a mangiare dai “porchettari” o dai ristoratori, e a comprare nei
supermercati di tutta Italia, i prodotti a marchio Castelluccio di Norcia (dei
quali, a partire dalle famose lenticchie, oltre il 70% di quanto messo in
commercio, viene da anni coltivato, prodotto e confezionato in altre Regioni,
se non in altri Stati). Compra, consuma, spendi e, contestualmente, “amico caro...fatte li
cazzi tua!”, come direbbe Razzi/Crozza o viceversa, rispetto ad alcune scelte
che sono in essere a Castelluccio; prima e più emblematica il costruendo
Deltaplano. Però, diversamente, i cazzi miei, non debbo farmeli quando vado a
fare la spesa, oppure quando decido la gita della domenica o la vacanza. Questo
il pensiero dominante, secondo coloro che a Castelluccio, in forma diverse e
con ruoli molteplici, hanno a che fare con il solo prodotto universale che
regola i rapporti all’interno della società e degli Stati: i soldi. O quanti,
in un modo o in un altro, hanno a che spartire con un altro concetto: la
proprietà. Che non è quella immobiliare tradizionale, s’intenda. Tanto per fare
un esempio, chi appartiene ad una Comunanza Agraria, secondo la storia e la
legislazione, fa parte di un ente dotato di personalità giuridica pubblica, ed è
gestore in forma collettiva di proprietà: terreni, boschi, pascoli, etc (quella
di Castelluccio possiede 1136 ettari; cfr. SIUSA-MIBACT). Castelluccio è stato
raso al suolo dai terremoti del 2016, sono in corso le demolizioni delle rovine
del borgo. Dopo quasi due anni, le otto SAE richieste, dagli otto nuclei
familiari residenti a Castelluccio (che non verrà mai ricostruito, così almeno
siamo chiari e non raccontiamo fiabe), non sono state ancora consegnate. Questo
fatto ci dice che a Castelluccio, al contrario di quello che si tenta di far
credere, i problemi dei pochi abitanti stabili, non sono sovrapponibili ai
problemi e alle esigenze (seppur legittime) di chi sulla Piana vi svolge solamente
un’attività imprenditoriale o commerciale, diretta o indiretta; e che sono numericamente
molti di più degli abitanti. Questi ultimi hanno bisogno delle SAE e di un
paese che il terremoto ha cancellato e che non avranno più; tutti gli altri
hanno bisogno del Deltaplano e di altre possibili iniziative tese alla ripresa
e al potenziamento del business turistico
e commerciale di massa sulla Piana, con il brand
Castelluccio da proporre e vendere. Sostenere con pacatezza queste cose, da
diversi mesi, comporta essere additati e perseguitati (per ora solo sui Social
e sui giornali) come nemico del popolo (quale? otto famiglie?) castellucciano, nonché
affamatori della “ggente” di Castelluccio. Dire o scrivere che l’operazione
Deltaplano è una schifezza, una porcata (come direbbe il Calderoli)
paesaggistica e urbanistica, o che è semplicemente brutto sul piano estetico, viene
considerata lesa maestà istituzionale e popolare, ed infamia verso i
terremotati di Castelluccio. Condividere la giustezza dell’azione legittima,
intrapresa dal WWF nelle sedi deputate, comporta espliciti inviti a tenersi
fisicamente lontani dalla Piana per i giorni a venire. In tutto questo c’è un
però: anche io, insieme a tanti altri, potremmo divenire comproprietari (esclusivamente immateriali)
di Castelluccio. E già, perché stiamo parlando di un territorio che da tempo è considerato lì lì per diventare Patrimonio dell’Unesco (tanto che alcuni siti web turistici lo scrivono da anni): patrimonio mondiale dell’umanità. E quindi, io e molti altri,
in quanto facenti parte dell’umanità, siamo anche noi proprietari in pectore di
Castelluccio. Ed eticamente corresponsabili di quel luogo, e delle questioni che
lo riguardano. E, di conseguenza, legittimati e liberi a dire e scrivere quello
che pensiamo su quel tratto di Appennino, e sulle scelte che vi sono state
compiute, e che vi si intenderanno fare. Al pari degli otto nuclei familiari, e
di tutti quelli che da sempre ci commerciano nelle forme consentite dalla legge.
E anche degli stronzi che parcheggiano le macchine sopra la fioritura per farsi
le foto. Comunque, la vicenda del
Deltaplano di Castelluccio è paradigmatica di un clima, di una cultura, e di un
sentimento crescenti nel Paese, e non dagli ultimi tre mesi, ed è il frutto di
una lunga semina ultraventennale. Che è quella di un’idea della società non più
comunitaria, ma tribale; della superfetazione del concetto di interesse
particolare, per il quale è legittimato il cannibalismo del tutti contro tutti;
in tempo di pace, come si dice, e ancor più in tempo di guerra. Del concetto
che non ci si debba interessare di una questione, se questa non coinvolge direttamente
la tua saccoccia; e soprattutto di non permettersi, vivendo fuori da un
determinato luogo (anche se solo di qualche decina di chilometri) di dire,
fare, scrivere, perché lì, la “ggente” vuole così. E che pratiche democratiche quali
la dialettica, il confronto, la mediazione, tolgono opportunità e diritti alla
“ggente”; la quale sa bene da sola cosa è giusto e cosa non lo è. Per cui, in
questa cultura crescente di un concetto di popolo ridotto a banda di
condominio, è normale che chi vende le foto della Piana di Castelluccio o le
magliette sulle bancarelle festive, pur abitando magari nella Pianura Padana,
sia pronto a prendere a legnate (verbali s’intende), chi pensa e scrive che il
Deltaplano rappresenti una scelta sbagliata rispetto ad un valore di territorio
e di resilienza. Così come, tornando in una parte dell’Appennino più vicina a
casa mia, un libero professionista, che da una scelta politica ed
amministrativa che lede il paesaggio in maniera definitiva, ci “spizzica” per
sé qualche migliaio di euro, possa trovare naturale e normale, minacciare (con
l’uso della tastiera) di prendere a palate una signora che scrive di pensarla
diversamente da lui. Questo perché solo chi opera in un luogo, chi guadagna in
quel posto, e quindi non in virtù della nascita o di una scelta di
residenzialità , o di una volontà di “restanza”, così come la definisce Vito
Teti, ma solo in virtù di un tornaconto monetario per sé, è nel diritto di
pensare, dire, operare, giudicare. Il denaro diventa il valore assoluto, che
accredita e legittima al tempo stesso, chi è in condizione di poter esprimere
un punto di vista e un giudizio. E’ questa, la cultura montante, molto
pericolosa, che tiene insieme, nel caso di Castelluccio, il costruttore, il
comunardo e il “porchettaro”; e che esclude l’unico soggetto vocato a definirsi
popolo, le otto famiglie che non ci abiteranno mai più. E, che fa di essi una
categoria del tutto originale, nuova e straordinaria: quella dei sovranisti
dell’Altopiano. E dei tanti altipiani sparsi e diffusi per l’Italia, anche a
livello del mare…