Negli
ultimi trent’anni sono stato a Castelluccio, sulla Piana, due volte. La prima
con un amico prete ed altri, dopo un ritiro spirituale a Castelsantangelo sul
Nera; la seconda, con una giovane allevatrice transumante di pecore, e un amico
scrittore. Per cui, due volte in trent’anni, non mi danno, secondo molti, a
partire dalla statistica, alcuna legittimità ad esprimermi su quello che
succede in quel territorio. Però sono più che sufficienti, secondo gli stessi,
per sentirmi al contrario obbligato ad essere un consumatore del brand Castelluccio, a farmi i selfie in
mezzo ai fiori, parcheggiandoci sopra anche la macchina, come da anni fanno in
tanti, a mangiare dai “porchettari” o dai ristoratori, e a comprare nei
supermercati di tutta Italia, i prodotti a marchio Castelluccio di Norcia (dei
quali, a partire dalle famose lenticchie, oltre il 70% di quanto messo in
commercio, viene da anni coltivato, prodotto e confezionato in altre Regioni,
se non in altri Stati). Compra, consuma, spendi e, contestualmente, “amico caro...fatte li
cazzi tua!”, come direbbe Razzi/Crozza o viceversa, rispetto ad alcune scelte
che sono in essere a Castelluccio; prima e più emblematica il costruendo
Deltaplano. Però, diversamente, i cazzi miei, non debbo farmeli quando vado a
fare la spesa, oppure quando decido la gita della domenica o la vacanza. Questo
il pensiero dominante, secondo coloro che a Castelluccio, in forma diverse e
con ruoli molteplici, hanno a che fare con il solo prodotto universale che
regola i rapporti all’interno della società e degli Stati: i soldi. O quanti,
in un modo o in un altro, hanno a che spartire con un altro concetto: la
proprietà. Che non è quella immobiliare tradizionale, s’intenda. Tanto per fare
un esempio, chi appartiene ad una Comunanza Agraria, secondo la storia e la
legislazione, fa parte di un ente dotato di personalità giuridica pubblica, ed è
gestore in forma collettiva di proprietà: terreni, boschi, pascoli, etc (quella
di Castelluccio possiede 1136 ettari; cfr. SIUSA-MIBACT). Castelluccio è stato
raso al suolo dai terremoti del 2016, sono in corso le demolizioni delle rovine
del borgo. Dopo quasi due anni, le otto SAE richieste, dagli otto nuclei
familiari residenti a Castelluccio (che non verrà mai ricostruito, così almeno
siamo chiari e non raccontiamo fiabe), non sono state ancora consegnate. Questo
fatto ci dice che a Castelluccio, al contrario di quello che si tenta di far
credere, i problemi dei pochi abitanti stabili, non sono sovrapponibili ai
problemi e alle esigenze (seppur legittime) di chi sulla Piana vi svolge solamente
un’attività imprenditoriale o commerciale, diretta o indiretta; e che sono numericamente
molti di più degli abitanti. Questi ultimi hanno bisogno delle SAE e di un
paese che il terremoto ha cancellato e che non avranno più; tutti gli altri
hanno bisogno del Deltaplano e di altre possibili iniziative tese alla ripresa
e al potenziamento del business turistico
e commerciale di massa sulla Piana, con il brand
Castelluccio da proporre e vendere. Sostenere con pacatezza queste cose, da
diversi mesi, comporta essere additati e perseguitati (per ora solo sui Social
e sui giornali) come nemico del popolo (quale? otto famiglie?) castellucciano, nonché
affamatori della “ggente” di Castelluccio. Dire o scrivere che l’operazione
Deltaplano è una schifezza, una porcata (come direbbe il Calderoli)
paesaggistica e urbanistica, o che è semplicemente brutto sul piano estetico, viene
considerata lesa maestà istituzionale e popolare, ed infamia verso i
terremotati di Castelluccio. Condividere la giustezza dell’azione legittima,
intrapresa dal WWF nelle sedi deputate, comporta espliciti inviti a tenersi
fisicamente lontani dalla Piana per i giorni a venire. In tutto questo c’è un
però: anche io, insieme a tanti altri, potremmo divenire comproprietari (esclusivamente immateriali)
di Castelluccio. E già, perché stiamo parlando di un territorio che da tempo è considerato lì lì per diventare Patrimonio dell’Unesco (tanto che alcuni siti web turistici lo scrivono da anni): patrimonio mondiale dell’umanità. E quindi, io e molti altri,
in quanto facenti parte dell’umanità, siamo anche noi proprietari in pectore di
Castelluccio. Ed eticamente corresponsabili di quel luogo, e delle questioni che
lo riguardano. E, di conseguenza, legittimati e liberi a dire e scrivere quello
che pensiamo su quel tratto di Appennino, e sulle scelte che vi sono state
compiute, e che vi si intenderanno fare. Al pari degli otto nuclei familiari, e
di tutti quelli che da sempre ci commerciano nelle forme consentite dalla legge.
E anche degli stronzi che parcheggiano le macchine sopra la fioritura per farsi
le foto. Comunque, la vicenda del
Deltaplano di Castelluccio è paradigmatica di un clima, di una cultura, e di un
sentimento crescenti nel Paese, e non dagli ultimi tre mesi, ed è il frutto di
una lunga semina ultraventennale. Che è quella di un’idea della società non più
comunitaria, ma tribale; della superfetazione del concetto di interesse
particolare, per il quale è legittimato il cannibalismo del tutti contro tutti;
in tempo di pace, come si dice, e ancor più in tempo di guerra. Del concetto
che non ci si debba interessare di una questione, se questa non coinvolge direttamente
la tua saccoccia; e soprattutto di non permettersi, vivendo fuori da un
determinato luogo (anche se solo di qualche decina di chilometri) di dire,
fare, scrivere, perché lì, la “ggente” vuole così. E che pratiche democratiche quali
la dialettica, il confronto, la mediazione, tolgono opportunità e diritti alla
“ggente”; la quale sa bene da sola cosa è giusto e cosa non lo è. Per cui, in
questa cultura crescente di un concetto di popolo ridotto a banda di
condominio, è normale che chi vende le foto della Piana di Castelluccio o le
magliette sulle bancarelle festive, pur abitando magari nella Pianura Padana,
sia pronto a prendere a legnate (verbali s’intende), chi pensa e scrive che il
Deltaplano rappresenti una scelta sbagliata rispetto ad un valore di territorio
e di resilienza. Così come, tornando in una parte dell’Appennino più vicina a
casa mia, un libero professionista, che da una scelta politica ed
amministrativa che lede il paesaggio in maniera definitiva, ci “spizzica” per
sé qualche migliaio di euro, possa trovare naturale e normale, minacciare (con
l’uso della tastiera) di prendere a palate una signora che scrive di pensarla
diversamente da lui. Questo perché solo chi opera in un luogo, chi guadagna in
quel posto, e quindi non in virtù della nascita o di una scelta di
residenzialità , o di una volontà di “restanza”, così come la definisce Vito
Teti, ma solo in virtù di un tornaconto monetario per sé, è nel diritto di
pensare, dire, operare, giudicare. Il denaro diventa il valore assoluto, che
accredita e legittima al tempo stesso, chi è in condizione di poter esprimere
un punto di vista e un giudizio. E’ questa, la cultura montante, molto
pericolosa, che tiene insieme, nel caso di Castelluccio, il costruttore, il
comunardo e il “porchettaro”; e che esclude l’unico soggetto vocato a definirsi
popolo, le otto famiglie che non ci abiteranno mai più. E, che fa di essi una
categoria del tutto originale, nuova e straordinaria: quella dei sovranisti
dell’Altopiano. E dei tanti altipiani sparsi e diffusi per l’Italia, anche a
livello del mare…
Analisi lucida, asciutta, cruda, esente da diplomazie e scevra da interessi tartufeschi locali. Ben volentieri rilanciamo il link sul nostro sito Fb WWF Perugia
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