E’ piovuto fino a pochi minuti fa. Le strade all’ingresso di
Perugia sono ancora abbondantemente bagnate, ma è evidente che il tempo si sta
rimettendo, e questo già fa guardare alla giornata con uno spirito diverso.
Attorno alla Stazione Centrale di Fontivegge, nel deserto
della giornata festiva, si vedono persone con zainetti e bandiere della pace
che, scese dal treno o lasciata la macchina in zona, si dirigono verso la
fermata del MiniMetro, una delle infrastrutture degli anni più recenti, sempre
in discussione riguardo la sua utilità.
Infatti, per affollare le navette dell’ovovia eugubina, di
domenica mattina e al costo di 1.50 € a corsa, ci volevano giusto i
partecipanti alla Marcia della Pace Perugia-Assisi, diretti verso il punto
storico di partenza: i Giardini del Frontone.
Condivido la corsa nella navetta senza conducente con un paio
di suore, un boyscout, una famiglia con passeggino, due ragazzine, una delle
quali ad un certo punto, si accorge di non aver conservato il biglietto per
uscire, e a cui passo il mio, una volta uscito, per poter superare il tornello;
ma l’espediente non funziona, e tocca chiamare il sorvegliante per farle
uscire, spiegando la distrazione avuta.
Loro, generazione Greta Thumberg, sono arrivate il giorno
prima in treno da Asti per partecipare alla Marcia; al Frontone dovrebbero
incontrare i loro conterranei che invece sono giunti in pullmann, viaggiando
tutta la notte.
Ci salutiamo all’inizio di Borgo XX Giugno, loro vanno a
cercare i loro amici, ed io comincio ad aggirarmi per osservare quello che
potremmo definire “il popolo” della Marcia della Pace; e che sono le persone
che poi fanno la straordinaria forza di questa esperienza.
Quelle che camminano per davvero; chi se l’ha fa tutta, chi
si aggrega da Ponte S. Giovanni, chi arriva direttamente a Santa Maria degli
Angeli e sale fino ad Assisi. Mentre ai Giardini del Frontone va in scena la
cerimonia iniziale, con le Istituzioni, i molti politici giunti lì per la foto opportunity (anche marchigiani), ma che
poi risalgono in macchina e te li ritrovi freschi come un fiore ad Assisi,
mentre chi ha camminato arriva disfatto…
Intanto il popolo della marcia freme, e dei gruppuscoli
avanguardisti sono partiti ancor prima dello striscione iniziale con gli
organizzatori, e il furgone con la musica. Anche io, ad una certa, considerato che
la partenza ufficiale ritardava, mi sono incamminato lungo la discesa in
direzione Ponte S. Giovanni.
Lì gli abitanti ti aspettano affacciati dai balconi per
salutarti, e al grande svincolo con l’E45 si incontrano quelli scesi da
Perugia, con agli arrivati direttamente nella frazione perugina vicino al
Tevere. E dove si trovano, anche casualmente, senza whatsApp preliminari,
persone che non si vedono da tempo; come accade anche inaspettatamente a me,
con due fratelli jesini, con i quali non ci si vedeva da anni, con cui
proseguirò insieme fino ad Assisi, recuperando in chiacchiere lontani tempi
giovanili perduti.
Camminando, la cosa che mi incuriosisce di più, è guardare un
po’ le facce di questo popolo della Perugia – Assisi. Una Marcia storica,
istituita 61 anni fa da Aldo Capitini, che non necessariamente si tiene tutti
gli anni. Quella di domenica 24 aprile è un’edizione straordinaria e, degli
ultimi anni, la più urgente e necessaria, perché risponde alla tragedia della
guerra in corso in Ucraina a seguito dell’invasione di Putin, nel cuore
dell’Europa.
Una guerra dalla quale, dopo i primi giorni, sembrano essere
sparite dal linguaggio comunicativo quotidiano occidentale, le parole “tregua”,
“negoziato”, “compromesso”, “Pace”.
Quella di domenica 24 Aprile, è indubbiamente l’Edizione che
ha suscitato più polemiche, strumentalizzazioni, ed etichettature di carattere
politico. In un’Italia in cui la politica, quasi tutta, sembra aver dismesso il
buonsenso comune, dimenticato la Costituzione, ed indossato l’elmetto, snobbando
perfino la voce accorata di Papa Francesco; il solo che domenica da Piazza San
Pietro, abbia salutato e sostenuto i partecipanti della Perugia-Assisi.
E allora, già dopo i primi chilometri, ed esser stato
superato dallo striscione ufficiale portato da ragazzini, ho avuto la
percezione della distanza siderale che c’è tra la politica italiana ed europea,
assieme al sistema informativo e della comunicazione, e le persone che da tutta
Italia, dall’età del marsupio e del passeggino, fino a quella del centro
sociale per gli anziani, domenica sono venute nel cuore dell’Umbria, per
chiedere a quanti dovrebbero responsabilmente governarli, l’unica azione che da
oltre sessanta giorni, al contrario, non intendono fare: “FERMATEVI!”.
Che è la parola-slogan di questa ed altre passate edizioni
della Marcia.
Ma, nel dibattito quotidiano, chiunque chieda di fermare
questa guerra, dalle ragioni straordinariamente molto complesse rispetto al
semplicismo della narrazione informativa, viene ancor prima che passato per le
armi, sottoposto ad una serie di etichettatture politiche, e tacciato di
codardia, viltà, o di essere filo “questo” o filo “quell’altro”.
Mentre a guardare le facce pulite di quelle decine di
migliaia di donne e uomini, che si sono incamminate tra Perugia e la Basilica
di Assisi, l’unica etichetta che si poteva attribuirgli era quella di
“persona”.
Uomini e donne di ogni età, impossibili da classificare
forzosamente in una delle tante oramai necrotiche categorie politiche e
culturali del Ventesimo Secolo.
Ecco, nel vedere i tanti ragazzini che “volavano” sui piedi, illuminati
da un sole d’Aprile divenuto scottante, scavalcando tronconi di marcia,
richiamati lì non da un capopartito o da un capobastone, ma solo dal loro
diritto di un futuro senza armi e senza guerre, è evidente come sia
drammaticamente pericoloso leggere, e pensare di risolvere, la tragedia che sta
avvenendo in Ucraina (ma anche negli altri 48 conflitti in corso sparsi nel
Pianeta), con le lenti, le parole e gli strumenti del Novecento.
Questa è la Prima Guerra Mondiale del Ventunesimo Secolo.
Ma ad occuparsene, ad averla scatenata, a spergiurare di
volerla risolvere presto, c’è una classe dirigente mondiale del Secolo scorso.
Distante anni luce dai desideri di quei ragazzini che
sfrecciavano per le strade umbre, e che reggevano quel tanto contestato
striscione con scritto “FERMATEVI”.
Una delle canzoni che accompagnava il cammino dello
striscione della Marcia della Pace, era “Chiamami ancora amore” di Roberto
Vecchioni. Che ad un certo punto del testo, diventa come un’invocazione di
preghiera:
“in questo disperato sogno
tra il
silenzio ed il tuono
difendi
questa umanità
anche se
restasse un solo uomo”
La preghiera laica di quei giovani, che chiedono di
fermare la guerra; e che hanno diritto ad un futuro di Pace. Ma anche a delle
classi dirigenti radicalmente diverse.
Perché quelle attuali, hanno la responsabilità imperdonabile di aver fatto sì che “(…) gli esseri umani vivono sotto l’ombra di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacchè le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico.(…)”. ( da Pacem in Terris, 1963)
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