Tribù: [tri-bù] s.f. inv. 1 ETNOL Forma di società primitiva
costituita da un raggruppamento di famiglie, etnicamente, linguisticamente e
culturalmente omogeneo, con ordinamenti propri, gerarchicamente organizzato
sotto la guida di un capo. (dal Dizionario della Lingua Italiana Hoepli Ed.)
E già, perché questa sarebbe
la concezione della Fondazione Merloni riguardo agli abitanti dell’Appennino
terremotato. Infatti, il progetto “Salvare l’Appennino”, si rivolge a 10 tribù:
gli allevatori, gli amministratori
locali, le comunità scolastiche, gli agricoltori, gli immigrati, gli emigrati
di ritorno, i pendolari, i possessori di seconde case, gli operatori di
settori di nicchia (turismo, prodotti tipici,…), i camminatori.
Gli abitanti dell’Appennino intesi non come cittadini della
Repubblica, così come li definisce la Costituzione e facenti parte di una
Nazione (parola che, guarda caso, nella Prima Parte della Carta, trova utilizzo
solo nell’art. 9, quello in cui si parla di cultura, paesaggio e patrimonio
storico), ma considerati dei gruppi umani, scarsamente avvezzi alle conoscenze
e alle regole di una comunità statale, organizzata e civilizzata.
Il territorio appenninico, di conseguenza, inteso non come
spina dorsale (per primo geomorfologica) di un sistema Paese, ma come una sorta
di prateria, abitata, senza alcun ordine e logica, da nativi primordiali. Da
conquistare e colonizzare.
L’Appennino al contrario, viene riconosciuto dalla storia
come luogo fondamentale per lo sviluppo antropico, culturale, sociale e civile
dell’intera Italia; e questo già dall’età del bronzo. I cosiddetti Popoli
Appenninici: Umbri, Piceni, Sabini, Osci, Sanniti, Etruschi Latini.
Nel definire e classificare, nel XXI° Secolo, tribù gli
abitanti dell’Appennino, secondo una suddivisione che non è più neanche etnica
e storica, ma in qualche modo socioeconomica, più che offendere le persone, si
rischia di essere ridicoli.
Anche se l’espressione linguistica, volesse essere stata intesa
ad uso di un nuovo accattivante brand,
o strategia di marketing.
Sorprende che, tra tutte le tribù, manchi proprio la più
importante: quella della conoscenza e del sapere. Eppure, sull’Appennino, dal
1336 c’è l’Università di Camerino; esempio di tenace dell’“etica della
restanza”, ancor di più dopo il terremoto. E che, con i suoi circa 63 ml di
euro di bilancio, è l’impresa locale più importante dell’Appennino.
Di conseguenza, anche l’Appennino ferito dal sisma, diviene
per una determinata filiera economica, un territorio di espansione e un nuovo
mercato; un’area geografica dove sperimentare nuove ambizioni per attività di
impresa.
La buona idea di partenza c’è, ed è quella di predeterminare per
un futuro assetto geopolitico, una specifica Macroregione Appenninica, che
superi i confini regionali.
Ma questa, è un’idea che non può essere codificabile
esclusivamente ai fini economici; tanto che già mesi fa, uguale idea è già
stata sviluppata dalla rete Terreinmoto Marche, che rappresenta cittadini e
realtà associative di base, dalla connotazione sociale e civica, e che pensa al
futuro dell’Appennino mettendo al centro le persone che lo abitano.
La prima proposta rappresenta una sorta di preambolo del
passato: la realizzazione di una nuova strada che colleghi la statale 77, da
Tolentino, alla Salaria fino al Lazio. Mettendo in cantiere un ulteriore e
impattante consumo di suolo, in un territorio in cui da spolpare a livello
paesaggistico ed ambientale, c’è rimasto giusto l’osso.
I progetti si fondano su una concezione subordinata della
società: quella di un IO superiore, che conosce, a differenza dell’appartenente
alla tribù, e gli spiega come deve vivere, lavorare, intraprendere,
relazionarsi.
Mentre, non solo il da farsi dopo il terremoto (dove lo stato
delle cose, dopo 16 mesi, è anche la conseguenza dell’abuso del concetto
politico ed istituzionale dell’IO), ma ancor prima, esigeva già la messa in
campo di una nuova pratica del NOI, con processi di democrazia e partecipazione
dal basso, non solo informativi, ma decisionali.
Capaci di rafforzare il valore e l’identità di un territorio,
e di rendere ragioni motivazionali concrete, a quanti per scelta sull’Appennino
avevano deciso di restare, e a quelli che avevano scelto di radicarvisi.
C’è un progetto in particolare che mette in evidenza molte
delle contraddizioni generali: quello delle vacche nutrici, un’idea di
allevamento intensivo dei bovini, già pensato anni fa dalla Granarolo, e rigettata
dagli allevatori molisani. Al pascolo, allo stato brado e alla transumanza, si
sostituiscono mega stalle di produzione; come se si ignorasse il fatto che le
grandi centrali agroalimentari, già oggi, pagano ai piccoli e medi allevatori,
meno della metà del costo al litro di produzione del latte. Come se non si
volesse avere la consapevolezza che il futuro in generale dell’allevamento,
rispetto al costo sull’ecosistema planetario, è obbligatoriamente quello di
allevamenti non più intesivi. Anziché partire dalle peculiarità agricole e
zootecniche di un territorio, uniche perché legate per primo alla conformazione
del paesaggio, si persegue il metodo dell’imposizione di altri modelli e
scelte, facendo leva su una prossima resa per fame di piccole imprese agricole,
stremate negli anni da politiche sbagliate.
Discutibili, anche le proposte sul turismo, in cui
l’Appennino viene considerato come un grande villaggio vacanze, in cui gli
abitanti non sono elementi essenziali, ma quasi un fastidio; utili semmai come
dipendenti di grandi vettori della movimentazione turistica.
In questo, ad esempio, il progetto dell’home sharing per le seconde case (e anche per gli eremi…),
rappresenta una conferma. I tanti patrimoni immobiliari, frutto di lasciti e
eredità di parenti, hanno un futuro, non come case vacanze da acquisire ed
affittare ad anonimi turisti stagionali, ma se gli stessi proprietari che le
utilizzano sporadicamente, saranno incentivati a custodirli, metterli in
sicurezza, riscoprendo una concretezza del valore della memoria e delle radici;
proprietari che, nonostante siano anche loro spesso in parte responsabili di un
depauperamento, hanno continuato comunque negli anni a contribuire, in virtù
del diritto di proprietà, alla fiscalità locale, con voci significative per i
bilanci di tanti piccoli Comuni.
“Salvare l’Appennino” si rivela come la conferma di un
modello politico, economico e culturale, che ha esaurito da tempo forza e
legittimazione, ma che cerca di riconvertirsi e riposizionarsi.
L’Appennino ha bisogno di altro; e questo passa per nuovi
modelli e pratiche che nelle fasi successive al sisma sono già in fasi di
sperimentazione; a livello democratico, civico ed economico. La strategia
dell’abbandono, che fenomeni quali un terremoto, semplicemente accelera, si
combatte con una ricostruzione, che ancor prima che strutturale ed
ingegneristica, sia etica e civile.
E le credenziali e la credibilità per essere protagonisti e
motore di questo non appartengono a tutti. Ma le possiedono quelle esperienze
che nel tempo sono state capaci di essere antagoniste di un determinato modello
economico, e di offrire alle persone, ai cittadini, le ragioni di un nuovo
sentimento comunitario.
La salvezza dell’Appennino esige per prima un nuovo
vocabolario: cittadini e non clienti, persone e non dipendenti, comunità e non
tribù.
Altro, che persegue fini diversi, nel caso dell’Appennino e
delle comunità che lo abitano, non prefigura alcuna salvezza, ma semmai un’ulteriore
minaccia.
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