Quando il 546 Atac che attraversa questa periferia romana mi “sbarca” alla
fermata Boccea/Torrevecchia, a pochi passi dal Grande Raccordo Anulare,
intravedo subito, pur ancora distanti, due strutture che si distinguono dalla
classica edilizia residenziale di questa zona: la cupola bianca della Basilica di Santa Sofia, e un tendone da circo, in
un prato limitrofo alla chiesa.
La Basilica di Santa Sofia, così decentrata dalle “chiese importanti” della
Capitale, e unica per disegno architettonico, è stata costruita tra il 1967 e
il 1969, con i fondi raccolti dall’Arcieparca Josyp Slipyj, e inaugurata e
consacrata alla presenza di Paolo VI. Josyp Slipyj, ucraino, subì come molti
cattolici ucraini e russi, le persecuzioni del regime sovietico. Fu deportato
nel 1945 in un gulag, e venne liberato nel 1963 da Chruščëv, in seguito alle
pressioni politiche esercitate da papa Giovanni XXIII e da JF Kennedy. È noto
che lo stesso Chruščëv, al momento della richiesta pontificia, rimase sorpreso
del fatto che l’Epiaparca fosse ancora vivo.
Santa Sofia in Via Boccea a Roma, legata spiritualmente e per rito Cattolico-Bizantino alla Basilica di Agía Sofía a Istanbul e alla Cattedrale di Svjatoï Sofiï a Kiev, è la Chiesa nazionale a Roma degli ucraini.
La Basilica all’interno è molto bella,
l’iconogragfia tutta a mosaico rievoca scene bibliche, Santi e Patriarchi
della Chiesa d’Oriente. È difficile non lasciarsi trasportare dalla liturgia
della messa che sta celebrando secondo il rito orientale don Giovanni,
sacerdote ucraino originario di una cittadina vicino il confine polacco, ma da
qualche anno in Italia, e in servizio spirituale, oltre che a Roma, anche a
Follonica, in Toscana.
“Mi è impossibile staccare il pensiero da quello che accade da oltre un anno – mi racconta al termine della celebrazione – anche perché ho una App sul telefono che mi avvisa ogni volta che nella mia città scatta l’allarme aereo. Per cui è come se mi trovassi sempre lì.” Con lui a Roma, ci sono la moglie e due figli che da poco vanno alla Scuola Primaria, ma il resto della sua famiglia è in Ucraina.
Sono 147 le comunità religiose ucraine in Italia, con 87 sacerdoti.
Che fanno di Santa Sofia un punto di riferimento fortissimo anche
organizzativo, e non solo spirituale.
Il Rettore della Basilica è don Marco Jaroslav Semehen, in Italia dal 2005
per studiare teologia e per consacrarsi sacerdote. “La guerra è iniziata dal
2014, con il Donbass e la Crimea – spiega misurando le parole, e non solo per
ragioni di pronuncia linguistica – ed è una storia molto complessa e dolorosa,
difficile da giudicare da qui. Al di là delle notizie che arrivano a noi
dall’informazione, non si sa
realmente quanti morti già ci sono stati, e quanto la guerra durerà”.
Don Marco non è ottimista, e su questo ha un parametro di valutazione inconfutabile: quello dei disegni dei bambini
ucraini. “Se nel primo periodo seguito all’inizio della guerra – spiega
– i disegni fatti dai bambini erano a colori, ora la loro dinamica espressiva è
sempre meno colorata e la grafica sempre più cupa; segno che la speranza che il
conflitto finisca presto è sempre minore”.
Si ferma poi per delle parole di affetto verso una signora che era prima in chiesa per la messa. “Lei è in Italia da qualche anno – mi dice – ma ha un nipote di vent’anni che dall’inizio della guerra, sta combattendo nella zona di Bucha, e lei viene tutti i giorni qui a pregare”. Intanto mi porta a vedere i locali interni della parrocchia. “Vedi questo corridoio e queste stanze? – indica – Nelle prime settimane a seguito del 24 febbraio del 2022, erano talmente piene di aiuti, donazioni, materiali per il popolo ucraino che arrivavano da tutta Italia, che gli scatoloni toccavano il soffitto e si riusciva a malapena a passare”.
Grande è stata la solidarietà degli italiani, da
subito, e la Basilica di Santa
Sofia è diventato lo snodo logistico cruciale per la raccolta e la spedizione
degli aiuti. “Nelle prime settimane partivano da qui per l’Ucraina
quattro Tir di aiuti umanitari al giorno – racconta Don Marco – e anche adesso,
un camion o due a settimana parte sempre”. In quel periodo vennero qui, a dare
la loro solidarietà, sia il sindaco di Roma Gualtieri, che il presidente della
Repubblica Mattarella.
A questo punto, accompagnato dal Rettore, scopro la funzione di quel
tendone circense che avevo avvistato sceso dall’autobus. Qui non c’è mai stato
un circo, ma il tendone era, ed è
tutt’ora funzionale al deposito e alla selezione del materiale donato da
tanti soggetti, singoli e organizzati. “C’è stato un concorso di solidarietà
inimmaginabile in questi mesi – dice il sacerdote – sono venuti ad aiutarci migliaia di volontari
anche di altre religioni, perfino musulmani e buddisti; un gruppo di
Scientology di Roma è stato qui ad aiutare per diverse settimane”.
Anche stamattina all’interno del tendone c’è una signora ucraina che
sistema, selezione e separa per merceologia, le donazioni arrivate. Perché poi
possano essere pronte negli scatoloni per la prossima spedizione; ma anche per
dare qualcosa, indumenti, piccoli elettrodomestici, mobilio e altra
oggettistica, a quelli che dalla guerra sono riusciti a scappare ed arrivare in
Italia.
Perché poi, quando sei qui, la
guerra si sposta da internet e dalla televisione, e la vedi “in presenza”
appena fuori dal tendone. È la guerra di quelli che sono fuggiti, donne giovani
e anziane, bambini, qualche uomo renitente all’arruolamento obbligatorio dai
diciotto fino a sessant’anni, che con qualche espediente è riuscito a passare
il confine. La guerra ora la vedi nella loro fisiognomica; le facce
stanche, preoccupate, gli sguardi persi e distratti, gli occhi che si arrossano
quando don Marco spende una carezza e una parola per ciascuno. Loro sono qui
che aspettano; stamattina un pacco di generi alimentari che la Caritas
distribuisce quotidianamente; e h24 quel whasapp, telegram o sms delle persone
a loro care che sono rimaste in Ucraina. Sperando sempre che non ritardi dalla
consuetudine di invio quotidiano. Perché anche il minimo sfasamento orario,
produce un picco di angoscia.
Quando ti guardano, e ti ricambiano un sorriso e un saluto, perché più di
questo non riesci a fare e dire, come disorientato da questa situazione, allora
vedi e senti tutto: le bombe, gli spari, il fumo, il freddo, il terrore.
Ogni news, diretta internet, analista geostrategico che ti spiega, diventano inutili, banali, superflui. La guerra qui te la spiegano, senza parlare, queste persone in fila davanti la tenda della Caritas, a qualche centinaio di metri dalla rampa del Grande Raccordo Anulare. Nel cortile di una Basilica orientale, inserita nel contesto edilizio e urbanistico della città di Roma, come una navicella spaziale in una foresta incontaminata.
L’aria che tira te la sintetizza don Marco: “Vorrei tornare in Ucraina, anche per vedere qualche ora i miei familiari.
Ma se rientro adesso non tornerei più in Italia; perché c’è l’obbligo di
arruolamento anche per i sacerdoti, e se mi rifiuto verrei considerato
disertore e c’è la legge marziale.
In questi profughi d’occidente stremati, così come nei loro sacerdoti, si
percepisce solo la speranza che la guerra finisca e torni la pace. Parola che
in questi tredici mesi, è stata bandita dal lessico della politica, quasi fosse
un’espressione oscena. Che, paradossalmente, è rimasta solo sulla bocca di papa
Bergoglio. Il quale, nel giorno del decimo anniversario del suo “trasgressivo”
pontificato, in un podcast per Vatican News, dice “per i miei
dieci anni da papa, regalatemi la pace”. “L’obiettivo non è di raccogliere
informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza,
osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così
riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare”, scrive sempre papa
Francesco nella Laudato Si’.
Venire a conoscere questa realtà ai “bordi di periferia” romani, riesce
davvero a trasformare in sofferenza personale quello che, dal 24 febbraio dell’anno scorso, sta
vivendo la popolazione civile ucraina.
*pubblicato su comune-info.net il 23 marzo 2023
Nessun commento:
Posta un commento