domenica 9 dicembre 2018

SONO SOLO CANZONETTE

Ora è il momento del dolore". È questo oramai l'incipit, da anni, del cerimoniale istituzionale e di Stato. Che ricorre e viene praticato, a seconda della fattispecie del caso. Vuoi un'alluvione, un terremoto, un ponte che casca, un cedimento strutturale di un fabbricato, una tragedia in una discoteca, come a Corinaldo.
Dopotutto, che cosa si potrebbe o dovrebbe dire di diverso? 
Per classi dirigenti che si succedono rapidamente, non responsabili nessuna, nello specifico temporale, del fatto accaduto; ma accomunate in una responsabilità collettiva, tutte assieme, da una filiera di tragici episodi, pur diversi tra loro, che si succedono negli anni. E, ogni volta che il dramma del momento ci fa fermare qualche attimo a tirare una riga come nella somma aritmetica, ci mettono di fronte ad un Paese e ad una comunità nazionale allo sfascio, materiale ed etico. 
Perché, in quel momento matematico di manifesta lucidità, prendiamo atto che quello che è successo nuovamente, non è la straordinarietà, l'accidentalità, l'eccezione alla regola.
Ma è, drammaticamente, regola. Quanti locali, privati e pubblici, sono in Italia, nelle stesse condizioni di sicurezza strutturale e modalità gestionale, della Lanterna Blu di Corinaldo? Migliaia, probabilmente. Come i ponti, viadotti, piccole e grandi infrastrutture. Come lo era il Ponte Morandi di Genova. O la Casa dello Studente a L'Aquila; o la scuola di San Giuliano di Puglia. 
E allora, la questione centrale della discussione, non può ridursi appena poco oltre il fatto scatenante la tragedia, per quanto esecrabile, come lo spray urticante a Corinaldo o il petardo a Piazza San Carlo a Torino. E se alla Lanterna Blu di Corinaldo, con dentro molte persone in più del consentito, ci fosse stata una scossa di terremoto (frequente da queste parti), o un accendino che per gioco o per sbaglio avesse dato fuoco ad cavo elettrico, o ad un piumino sintetico, sarebbe cambiato qualcosa? Sarebbe stato possibile gestire con ordine e in sicurezza il panico venutosi a creare? No.
"Ora è il momento del dolore", è la frase, non certo di circostanza ma sinceramente sentita che si usa, temporalmente per qualche ora o giorno, in circostanze come quella di Corinaldo. Ma dovrebbe, per avere davvero una efficacia rigerante, diventare uno status permanente di una società intera, cittadini e responsabili istituzionali, che sentano davvero dolore per non aver saputo, o conosciuto, o aver avuto la volontà e il tempo di informarsi, che decine di migliaia di adolescenti di questo Paese, hanno come idolo, mito, punto di riferimento valoriale, un cantante come Sfera Ebbasta. Uno che mette in musica testi così (ne metto uno a caso, ma leggetene anche altri):

Non fottere il mio squad
Da C.O.G.O
Non fottere il mio squad
Da C.O.G.O

Roccia sto col ‘Rkomi
Segna Calvairate
Faccio un salto a Nord-est che Ciny è ospitale
I miei fra' fumano Northern affacciati in Aler
Un fumo così crema
No Frè non scaldare
Roccia ho portato il mare a Milano
Ho ancora il rispetto di dove abitavo
La tua squad varrà si e no 7 carati
Scendo in Drilliguria mi sembran Caraibi
Falco offre cena che ha vinto ai cavalli
NEURO SERT all'EuroBet
Per me no, non puntare il pari
Quando parli a Tedua devi moderare
Tu vuoi un beat di Charlie ma non lo sai usare

Non fottere il mio squad
No, no, Non lo fare
Da C.O.G.O, dacci oggi il pane
La mia pussy gira in casa in Lingerie Orientale
Ha big booty jeans e inala droghe ricettate
E non lo sanno che faccio da solo
No no loro non lo sanno
Sta strada è un tesoro
Se chiedi perché lo faccio
Rispondo per loro
Prima era tutto uno scherzo
Mo per Vito è un lavoro

I tuoi con le Canon
I miei coi cannoni
Zero cinta, soldi in tasca
Casca il pantalone
Dimmi tu come li fai
O se li hai e non li sudi mai
Giri in quartiere con Manu e con Vito
Tu punti il dito
Stiamo vincendo fra'
Mi sa sei il solo che non l'ha capito
Stiamo provando a scappare dai guai
Cambiare vita non l'ho fatto mai
L'unica cosa che cambia col tempo
E' la tipa che scopi e i modelli di Nike
In zona non pompano i pezzi d'amore
Si pompano la tua tipa
Che si fa scopare in cambio di un raglione
Chiaro che non vuoi più avere ragione
Quando c'è orecchio in mezzo alla faccenda
Guardo la tua giacca è in finto montone
Pensa alla tua finta vita di merda

Non fottere il mio squad
No, no, Non lo fare
Da C.O.G.O, dacci oggi il pane
La mia pussy gira in casa in Lingerie Orientale
Ha big booty jeans e inala droghe ricettate
E non lo sanno che faccio da solo
No no loro non lo sanno
Sta strada è un tesoro
Se chiedi perché lo faccio
Rispondo per loro
Prima era tutto uno scherzo
Mo per Vito è un lavoro

È il palesarsi di questo palinsesto di valori, di una concezione delle relazioni e della vita per migliaia di adolescenti italiani, che rappresenta il fallimento di una comunità di adulti. A prescindere dal ruolo. La consapevolezza di averli lasciati andare dentro un tunnel dell'orrore culturale ed educativo. Di averli esclusivamente spinti dentro una macchina in corsa, dove la benzina è solo il denaro. E che è il nostro unico valore di misura per tutto. Una colpa questa, più grave di un ponte non manutenuto e controllato, o di una scuola costruita male. Perché in questo caso, non c'è solo più colpa, ma dolo. Perché siamo consapevoli di ciò che si trattava, di ciò che stavamo facendo. Almeno dall’ingresso nella società italiana della televisione commerciale. 
Il fallimento di generazioni di adulti che non sanno più dire, con discernimento, un SI o un NO, ai propri ragazzi. Che non sanno più indicare con autorevolezza gerarchica, in senso orizzontale e laico, quale è l'albero del bene e del male, ai più piccoli. Autorevolezza di una generazione adulta che sa dire con fermezza ed intransigenza, che al concerto di Sfera Ebbasta non ci si va non perché si fa tardi la notte, o perché come è gestito quel locale non è certo rassicurante, e lo si sa da tempo. Ma perché le canzoni di quell'essere lì sono una merda; perché i valori e le relazioni tra le persone, con cui si diventa grandi ed adulti, sono il contrario di quello schifo cantato. 
Ecco, questo è il dolore straziante che arriva da quel locale di Corinaldo. Facile, a dirsi, per me che non ho figli. Però ho avuto un padre, come deve essere un padre, e per fortuna ce l'ho ancora, che mi portò al primo concerto da adolescente, a sentire le canzoni di uno sulla sedia a rotelle che cantava suonando la chitarra. Che non sapevo manco chi fosse, ma le cui canzoni raccontavano un senso della vita e dei valori, che mi hanno, insieme ad altro certamente, aiutato a credere che l'essere uomini significhi vivere e relazionarsi in un certo modo. E il mito erano le idee che c'erano in quelle canzoni, non chi le cantava, se era figo, bello o ricco. E, seppur corresponsabile di un fallimento generazionale, sono consapevole e lucido di questo. Per questo tutto quel dolore che arriva da Corinaldo, è inconsolabile anche per chi, l’altra notte, a Corinaldo non ha perso quello che si ha di più caro.

sabato 1 dicembre 2018

NIENTE HA PIU' REALTA' DEL SOGNO


Da un po’ di tempo, incrociandosi nello struscio lungo le scale con le guide di moquette dell’Aula, ne avevano cominciato ad accennare. Alla spicciolata, dapprima. Un sussurrato, un bisbigliato, nella casualità degli incontri. Poi qualche giorno dopo s’erano ritrovati tutti assieme ad una cerimonia, ed allora, l’uno di fianco l’altro in prima fila sulla sinistra, presero il toro per le corna. Approfittando del ritardo di inizio dell’evento.
“Sentite – disse il primo rompendo il ghiaccio – oramai sono passati oltre due anni. Secondo me è giusto che gliela diciamo tutta fino in fondo. Dobbiamo avere l’onestà e il coraggio della verità, per una volta. Mettiamo da parte i ruoli, passati e presenti, e proviamo ad essere uomini veramente di Stato.”
“Si – abbozzò il secondo – me pare giusto. Almeno se mettono ‘l core in pace.”
“Ci sto –chiarì il terzo – ma a patto che voi due non fate i bischeri come al solito, e mi si dà la colpa sempre a me”
“No, no – disse il secondo – qui o è chiaro che stamo tutti su la stessa barca, o nun famo proprio gnente. Io c’ho pure le discendenze da quelle parti.”
“Tranquilli – riprese il primo – tutti assieme, senza trucchi e furbizie. Vale primo per me, che in pochi mesi già là ci sono andato ben tre volte. Io però bisogna che mi porti pure quegli altri due.”
“E che palle – sbottò il terzo – tu sempre con codesti badanti appresso. A un patto però. Che almeno stanno in disparte e non insieme a noi tre. Almeno un poco di rispetto per il cerimoniale.”
“Si, vabbè, ma quanno jelo dimo? – chiese il secondo – Mica adesso proprio che s’avvicina er Natale e le Feste?”
“Allora facciamo così – concluse il primo – lo facciamo direttamente dopo la Befana. Però oltre a noi tre ci devono stare tutti quelli che finora hanno avuto un ruolo. Deve essere un’assunzione di responsabilità completa e collettiva.”
“Vabbè”, “Okay”, condivisero gli altri due.

E fu così che qualche giorno dopo l’Epifania, fu convocata l’ufficiale conferenza stampa. Una cosa mai vista finora. Da Quarta Repubblica.
Tre Presidenti del Consiglio. Quattro Presidenti di Regione. Tre Commissari. Un Sottosegretario delegato.

“Cari cittadini del Cratere – esordì il primo – come Portavoce dei presenti, sta a me l’onere e l’onore di dirvi, a nome di tutti, e condiviso da tutti, sia chiaro, quanto segue. Sono passati oltre due anni, e riteniamo giusto raccontarvi fino in fondo la verità, perché possiate una volta per tutte farvene una ragione e mettervi il cuore in pace. Spiegando anche le ragioni di quello che tutti assieme abbiamo fatto finora. E la verità, come la storia ci insegna, è sempre molto semplice. La Ricostruzione non ci sarà. Ecco tutto. Sarebbe inutile, e poco onesto e corretto, che continuiamo a portarvi in giro. Alimentando aspettative, e generando ancora conseguenti delusioni. Abbiamo ancora le baracche in Belice, abitate e pure con l’amianto; opere finanziate e mai completate in Irpinia; a L’Aquila ancora è quello che è; in Emilia ci sono ancora diverse migliaia di persone senza casa, però almeno lì, che si sappia, i capannoni li abbiamo rifatti tutti, anche dove prima del terremoto non c’erano. Questa è la situazione in Italia. E voi pensate per davvero che noi ci potremmo occupare concretamente del post terremoto vostro? Uno statista, come diceva uno anni fa, non pensa all’oggi, ma progetta già il domani. E noi, ci stiamo occupando già da ora del terremoto che deve ancora arrivare. Questo è il compito di una vera classe dirigente italiana. Degli affari che esso potrà muovere e sviluppare. Che potranno ancor meglio far viaggiare la locomotiva Italia. Noi, per voi, che poi non siete manco tanti a potenziale elettorale, diciamocela tutta, abbiamo fatto già molto. Molto di più che nel passato per i vostri connazionali. Vi abbiamo portato via un po’ di macerie. Vi abbiamo fatto le casette. Ci sono costate a metro quadro più che le case vere. E se si fradicia un pavimento, se l’umidità ci fa spuntare dentro qualche fungo, che volete che sia. Un po’ di manutenzione periodica e si risolve. Che poi significa anche continuitàoccupazionale, no? Sono due anni che vi manteniamo con il CAS. Milleottocento e passa di voi sono ancora in villeggiatura sugli alberghi al mare. Altro che la pacchia è finita… (secondo, terzo e badante uno lo fulminano con lo sguardo) No, scusate, una battuta per alleggerire, m’è scappata. Comunque, però, che volete di più? E tutto questo sappiatelo, ha già smosso quell’economia che a noi sta più a cuore. Movimento terra a tutto andare, sbancamenti, gettate, consorzi che hanno realizzato, imprese che hanno dato lavoro (e anche in nero, quando è stato indispensabile), consorterie che hanno trovato nuova linfa. E poi vi abbiamo fatto il Deltaplano a Castelluccio, quello è indispensabile per il turismo, a che serve ricostruire un paese per otto famiglie? Abbiamo speso più di due milioni di euro per riaprire la Grotta sudatoria nel Piceno anche se non è stata lesionata, vi faremo le piste ciclabili, c’avete pure i concerti di Risorgimarche gratis; e non è che ci costino poco. Abbiamo comprato per voi, a spese dello Stato, da banche fallite e costruttori sul lastrico, nuovissimi appartamenti invenduti, in pianura e sulla costa. E poi il condono, per primo per Ischia. Vi pare niente tutto questo!? Ma perché insistete così tanto a voler restare sull’Appennino? Ma chi ve lo fa fare a voler tornare in quei posti sperduti dimenticati da Dio? In quei paesi sgarrrupati dove è freddo pure d’estate? Ma trasferitevi sulla costa, in pianura, nelle grandi città. E lì lasciateci, se proprio si rifiutano di far altro, quei pochi anziani e qualche perditempo nostalgico. Nelle casette, tempo qualche anno, ci resteranno giusto loro. Come pensate di stare in quei box di plastica, senza un negozio, un bar, uno spazio di socialità intorno? Con l’ospedale più vicino ad oltre un’ora di macchina? E non penserete mica che i nostri giovani dovranno arrivare fino su quei monti per studiare? Come 683 anni fa? Adesso che non c’è più manco la cittadina? Costa troppo, e di Università in Italia ce ne sono già troppe. Dobbiamo razionalizzare, ce lo chiede pure l’Europa, lo sapete. Se ve ne andrete definitivamente, ci darete una mano. Un contributo all’interesse nazionale. A noi l’Appennino serve. Vuoto e spopolato, però. Ci dobbiamo far passare il gasdotto della Snam, fare gli eliporti, i villaggi vacanze per i ricchi, con tutti i confort necessari: centri commerciali, campi da golf, parchi acquatici per le moto d’acqua, aziende faunistiche private per poter cacciare liberamente, itinerari trend per i Camminatori dello Spirito, progettati dalle fondazioni private. E grazie a queste, sempre, finalmente, una vera agricoltura e zootecnia industriale intensiva. Piantagioni sterminate di nocciole e stalle con almeno mille vacche nutrici. Così si aumenta il PIL dell’Appennino, mica con i pascoli e i prodotti autoctoni. E poi, dobbiamo fare nuove strade: pedemontane, intervallive, che consentano di far arrivare in fretta sulla costa i turisti, saltando tutte quelle curve, quei paesi diroccati che oramai sono solo un pessimo biglietto da visita del sistema Paese. Ci sarà di nuovo lavoro per le grandi imprese di costruzioni. Insomma, cari italiani del Cratere del Centro Italia, tutto questo, se voi insistete a resistere, non sarà possibile. Con voi lì, e qualche Sindaco un po’ matto, che non si accontenta neanche di essere eletto in Parlamento, che mette i bastoni tra le ruote, a fare tutto questo ci metteremmo troppo tempo. Vi chiediamo rassegnazione, ne siamo consapevoli. Ma anche responsabilità. Di mettere da parte un vostro interesse particolare, per quello più generale della Nazione. Di questo, sappiate, non solo noi, ma tutti gli altri italiani, ve ne saranno grati. E infine, poi…”

…poi un sussulto, ansioso. Sudato. Sono sveglio. Laura dorme, meno male. Era un sogno. Un incubo. La cena pesante, ieri; quel bicchiere di troppo. Sollievo. Per fortuna. Nella realtà non è così. Non sarà così che andranno le cose. Ho visto, in questi due anni; toccato con mano. E’ proprio tutto il contrario. Bene. Mi posso riaddormentare, che fra non molto suona la sveglia sul cellulare.


giovedì 18 ottobre 2018

LA CATTIVA STRADA

Il parcheggio pieno della centrale Piazza Mattei, con il vigile urbano che controllava la circolazione, lasciava ben sperare riguardo la partecipazione dei cittadini all’assemblea pubblica sulla Pedemontana Fabriano – Muccia, promossa dall’Amministrazione Comunale al Teatro Piermarini. Invece, le presenze sparpagliate in platea, hanno subito contraddetto la mia impressione, ma anche la speranza, avuta arrivando in piazza. Poco più di quaranta persone nel complesso della serata. Che costituiscono un indicatore civico sul livello di attenzione verso un’opera infrastrutturale che cambierà, o quantomeno ambisce a cambiare radicalmente, la qualità della vita della città natale di Enrico Mattei. La Giunta Comunale, sollecitata da tempo dal civico Comitato “Pedemontana Matelica”, ha avuto il merito di proporre una serata, in cui la fattezza tecnica della realizzanda arteria stradale, è stata spiegata con chiarezza e competenza dal Responsabile Tecnico del Comune, l’ing. Ronci. Coadiuvato, quando è stato proprio indispensabile, dall’ing. Petrizzelli, della Quadrilatero s.p.a. L’Amministratore Delegato della Società, oggi tutta a capitale pubblico e compartecipata da ANAS, dott. Guido Perosino, che avrebbe dovuto partecipare, per uno dei più classici dei contrattempi ed impegni dell’ultim’ora, non è più venuto. E’ toccato al Sindaco, Alessandro Del Priori, introdurre la serata, rendendo ragione dell’impegno del Comune, nel cercare di mitigare alcuni abnormi elementi di impatto paesaggistico ed ambientale della pedemontana, per quella parte del tracciato che interessa il territorio comunale. L’opera pubblica, come ha richiamato il Sindaco, “più importante per Matelica dalla realizzazione della ferrovia Fabriano – Civitanova”. Quest’ultima, invece, purtroppo, nonostante le declamate e annunciate “cure del ferro”, si accinge a diventare progressivamente un’infrastruttura storica. Un Sindaco, consapevole, e già di questi tempi è molto, che un’opera come questa, avrebbe avuto senso oltre vent’anni fa, quando se ne iniziò a parlare. Oggi, invece, si deve fare una fatica leonina dal punto di vista dell’onestà intellettuale e della razionalità, per darsi qualche buona ragione per la realizzazione di un’infrastruttura di questa portata. Ma anche un Sindaco, e come quello di Matelica tutti i suoi colleghi, senza alcun potere di interdizione o decisorio, su opere come la Pedemontana. Perché, queste cosiddette “grandi opere”, sono regolate dalla Legge Obiettivo del Governo Berlusconi nel 2001, e dalla Legge Sblocca Italia del Governo Renzi, nel 2014. Provvedimenti legislativi, che in materia infrastrutturale, sottraggono qualsiasi potere e funzioni alle Istituzioni locali e territoriali, e di conseguenza si tratta di uno scippo di democrazia per i cittadini ed i territori. E anche l’attuale Governo, cosiddetto “del cambiamento”, e le Istituzioni locali idealmente affini ad esso, non stanno segnando ad oggi, rispetto agli anni e ai Governi passati, alcuna discontinuità; anzi. L’impatto paesaggistico ed ambientale, le problematicità dei cantieri e della movimentazione di mezzi e di materiali per diversi anni, sono stati ben resi evidenti dalla illustrazione tecnica, facilitata dalle slides e dal rendering della futura strada. Tratti in gallerie naturali ed artificiali, la carreggiata stradale che correrà su tratti in trincea o elevati rispetto al piano campagna, svincoli con rotatorie dalle dimensioni areali che potrebbero servire flussi di traffico metropolitani (e non le poco più di dodicimila auto giornaliere che in media attraversano la città di Matelica, che conta circa diecimila abitanti). Questa Pedemontana di 42 Km (l’attuale tracciato di strade regionali è meno di 40 km), che escluderà dal traffico extraurbano, tra Fabriano e Muccia, i Comuni di Cerreto D’Esi, Matelica, Castelraimondo e Camerino, andrà a sventrare ettari ed ettari di colture di pregio, i vigneti del Verdicchio di Matelica, sradicare filari di querce secolari, attraverserà in diagonale interi poderi, arrecando un danno ad una economia importante per questo territorio, che rappresenta un futuro occupazionale autentico, dopo l’implosione del “distretto del bianco”. Con conseguenze, che per gli imprenditori vitivinicoli non saranno compensabili dalle cifre offerte dalla società satellite della Quadrilatero s.p.a, la Esproprianda s.r.l. Ma allora, alla fine, oggi, a che cosa servirà realmente la Pedemontana? Non certo alla velocità, considerato che si tratta di una strada con un’unica carreggiata a due corsie, con limite da Codice della Strada a 90 km/h. Non certo agli spostamenti delle popolazioni locali, considerando che gran parte degli abitanti di Castelraimondo e Camerino li ha già delocalizzati definitivamente in altri luoghi il sisma dell’ottobre 2016. E nemmeno a tutte quelle piccole attività economiche lungo e dentro i centri abitati, che vedranno perdere il proprio fatturato, come già avvenuto in altri posti per scelte analoghe, a causa del minor transito veicolare. Per risolvere alcuni piccoli congestionamenti quotidiani del traffico dentro Matelica, attenuare l’impervia salita delle Serre verso Cerreto da Fabriano, o per migliorare i piccoli tornanti tra Matelica e Castelraimondo, non era sufficiente intervenire, come dice qualcuno animato da buon senso, con “qualche bretella e raddrizzando qualche curva”, invece di spendere per quest’opera circa 320 milioni di euro? Sono un po’ queste, alcune delle domande, poste con cognizione tecnica dai presenti in platea del Teatro Piermarini, con pacatezza e competenza, perlopiù esponenti del Comitato Pedemontana e proprietari di terreni produttivi espropriati. A questi, da una parte, le risposte dell’ing. Petrizzelli, disponibile a valutare piccole modifiche su un progetto esecutivo, per definizione stessa non modificabile. E del Sindaco Del Priori, a fianco, per quello che potrà fare, delle istanze di questi cittadini ed imprenditori. Su tutti, la chiosa finale, per certi versi conclusiva, dell’Assessore all’Urbanistica, LL.PP. e Viabilità del Comune di Matelica, Massimo Montesi che, coniugando una esperienza e cultura politica intrise di verace riformismo emiliano di un tempo, e di decisionismo imperativo di manzoniana letteratura, ribadiva ai presenti che, siccome questa strada s’è decisa da anni, “s’ha da fare”. E, su tutta questa storia, considerata l’incerta finanziabilità completa dell’opera da parte del CIPE, e i guai quasi irreversibili, aziendali e finanziari, del Gruppo Astaldi, impresa aggiudicatrice e realizzatrice dell’opera, parafrasando una canzone di Enzo Jannacci, oltre “la tristezza”, anche l’incompiuta “è lì a due passi, e ti accarezza e ride, lei”. Una prospettiva che, considerati i cantieri già aperti, i tratti realizzati, lascerebbe delle ferite non più sanabili al territorio, e dei danni alle comunità e al paesaggio. E davvero, lo skyline di questi dolci colline, che rappresenta un tratto identitario di questa parte del pre-Appennino Marchigiano, che si affaccia verso quelli che Leopardi chiamò “i monti azzurri”, si potrà definire una terra mutata. Ma non a causa delle cicliche intemperanze violente della natura, come il terremoto, ma per la scellerata ed irresponsabile azione dell’uomo.

mercoledì 17 ottobre 2018

IL PREZZO DELLA TRASPARENZA (a Genga, almeno)


Certo, che la vita da cittadino, in certe situazioni, è difficile. Intendo se vuoi essere un cittadino attento, informato, e partecipe di quelle che sono le dinamiche gestionali e decisionali delle Istituzioni politiche che regolano la vita del posto dove abiti. Poi, se non te ne importa nulla, la qualità della vita nel luogo dove stai non è la tua priorità, se non pensi che chi ti amministra ti debba garantire dei servizi, agendo nella trasparenza, se sei uno di quelli che il voto se lo vende per un frizzantino, allora tutto chiaramente è molto più semplice e indolore. Ma alla fine, non sei diverso dal somaro che abbassa la testa per paura del padrone. Cercavo da tempo un’Ordinanza Sindacale del Comune di Genga, che disciplina la viabilità della strada comunale della mia frazione, di molti anni fa. Uno di quei provvedimenti di cui si parla, si dice, si menziona, ma di cui nessuno sa bene cosa ci sia scritto. Un atto, che per età, non si trova sull’Albo Pretorio on line del Comune, che per le Ordinanze non va indietro nel tempo oltre il 2010.  Per cui mi sono recato in Comune per fare la richiesta di accesso agli atti ai sensi della Legge 241 del 1990. Chiedendo di avere copia semplice del documento che mi interessava. Era il 10 settembre 2018. Il 4 ottobre, mi arriva un email del Comune, firmata dal responsabile dell’Ufficio competente, che mi comunicava che, per avere copia semplice di quell’atto che risultava essere del 1991, avrei dovuto versare anticipatamente alla Tesoreria Comunale 30 centesimi di euro per il costo della fotocopia (trattandosi di un solo foglio), più 50 euro di diritti di ricerca, trattandosi di un documento di oltre 10 anni fa. I 50 euro, stabiliti non dalla legge, ma da una delibera, la n.7 del 19 gennaio 2002, della Giunta Comunale di Genga, con oggetto: “Approvazione tariffe e rilascio copie documenti – art. 6 comma 2 del Regolamento Comunale per il diritto di accesso agli atti amministrativi: conteggio diritti”. Abbastanza sconcertato che ad un cittadino, dovendo per legge favorire il diritto alla trasparenza e all’informazione, un Comune chieda 50 euro, mi informo su altri Enti per sapere un po’ come si regolano. A Jesi ad esempio, a prescindere dalla stagionalità dell’atto non si paga nulla, oltre il costo della fotocopia (20 centesimi di euro, meno che a Genga…). Ho il buon esempio dell’Unione Montana Esino Frasassi, dove per una richiesta di atti e documenti, abbastanza corposa, non solo non mi hanno chiesto il pagamento di alcun diritto per qualcosa, ma addirittura mi hanno spedito a casa con raccomandata A/R i documenti chiesti. La cosa che poi costituisce un aggravante, è che sull’Albo Pretorio on line e sul sito del Comune di Genga, la delibera di Giunta del 2002, non c’è; o meglio c’è solo il frontespizio che non dice nulla nel merito, con i nomi dei componenti della Giunta di allora, tutti presenti. Così come non c’è on line sul sito del Comune il richiamato Regolamento per il diritto di accesso agli atti. Il 5 ottobre rispondo all’email del responsabile comunale, chiedendo se per la sola presa visione del documento fosse necessario pagare qualcosa. Mi risponde, sempre in giornata, che “per la sola presa visione l’esame è gratuito”. Per cui qualche mattina dopo salgo in Comune, vado all’ufficio di riferimento, e il responsabile mi mette sopra tavolo il foglio del documento richiesto perché potessi leggerlo, tirandolo fuori da un fascicolo posato sulla sua scrivania. “Se vuole – mi dice - può fotografarlo con il cellulare”. Per cui, il paradosso grottesco è che ho il documento che cercavo, che posso stampare e volantinare, senza aver pagato il costo della fotocopia e i 50 euro del diritto di ricerca. Ricerca che, e questo è l’assurdo, un impiegato comunale ha comunque fatto nell’archivio comunale, dentro qualche vecchio scaffale e faldone, per far arrivare quel foglio sopra il tavolo del responsabile del servizio. Sia che io avessi voluto una copia semplice, sia che avessi voluto semplicemente prenderne visione. Nel mentre, il 7 ottobre, abbastanza incazzato per tutta questa storia miserabile, avevo fatto un quesito all’Ombudsman della Regione Marche, il Garante dei Diritti dei Cittadini, quello che un tempo si chiamava semplicemente il Difensore Civico Regionale. Chiedendo se questa questione dei 50 euro richiesti, fosse regolare rispetto alla legge, o se fosse un prezzo, considerata l’onerosità per il cittadino, che di fatto proibisse e scoraggiasse il diritto alla informazione e alla trasparenza. Con grande dovizia di riferimenti normativi, il 16 ottobre, il Garante mi ha risposto, ed inviato la risposta via p.e.c. anche al Comune di Genga. In sostanza, dalla risposta si evince che il Comune di Genga applica un regolamento legato ad una delibera di Giunta del 2002, e non aggiornato con la normativa di riferimento attuale che è del 2006. Inoltre, la tariffa oggi richiestami di 50 euro per i diritti di ricerca, contravviene il Regolamento dell’Autorità Nazionale Anticorruzione del 31 maggio 2016, che fissa una soglia massima di 12,50 euro per il diritto di ricerca. Che dire, in conclusione? Semplicemente che questo piccolo fatto, conferma la cultura politica che a Genga, ma anche da altre parti, da troppi anni opera perché trasparenza ed informazione non siano una pratica quotidiana e un patrimonio di valori condiviso con i cittadini. Perché, chiaramente, quest’ultimi, meno sanno, conoscono, sono informati, più la politica melmosa e putrescente, che manovra la cosa pubblica favorendo solo gli interessi particolari di alcuni, sopravvive, si perpetua, si riproduce.







giovedì 27 settembre 2018

LA QUADRILATERO s.p.a, QUESTA CONOSCIUTA


“Io ho lavorato tanti anni e ho fatto tante manifestazioni – dice appoggiato allo sportello della macchina bloccata sulla rampa – ma non si fanno così, creando disagi a tutti. Bisogna manifestare tutti insieme contro le Istituzioni sotto i loro palazzi, uniti”. “Dio cane – strilla con i rayban a specchio che sobbalzano sul viso dall’agitazione, e indica con le braccia protese il sindacalista, evidentemente conosciuto, che guida il piccolo corteo col megafono in mezzo alla strada – ma come si fa a farsi rappresentare da uno che in quarant’anni non ha fatto mai un cazzo”. “Ah, scusi scusi, ho detto le parolacce e non va bene – si ritrae timoroso questo automobilista esagitato, incolonnato pure lui, quando il poliziotto si fa avanti per invitarlo se non alla calma, almeno al decoro. “Però – insiste col poliziotto – vede quello lì, non ha mai lavorato in vita sua, mi creda”. Potrebbe essere, anzi in parte lo è, l’epilogo della manifestazione con blocco stradale, organizzata dai lavoratori della Astaldi a rischio licenziamento, e dalle organizzazioni sindacali, e a raddoppio stradale a rischio incompiuta. Il Cipe, che dovrebbe finanziare il completamento dell’opera, non si riunisce da mesi, e forse si riunirà verso la metà di ottobre. Ma non basta, purtroppo. La questione è un po’ più grave delle mancate riunioni del Cipe. La multinazionale delle infrastrutture, fonte Il Sole 24 Ore, ha un debito di cassa di 2,5 miliardi di euro; una complessa crisi aziendale, che nella migliore delle ipotesi potrebbe finire con un concordato in bianco e l’acquisizione di un gruppo cinese. A rischio migliaia di posti di lavoro e molte opere in corso sparse per il mondo, non solo il raddoppio della Perugia-Ancona. Premetto che io sono ideologicamente contrario a questa infrastruttura, per come è stata partorita oltre quindici anni fa con l’operazione Quadrilatero s.p.a. Il più grande imbroglio politico delle Marche dal Dopoguerra. E che, anche con le problematiche di oggi, si conferma in tutto il suo grande bluff. E, quindi, la vera grande manifestazione che andrebbe fatta, operai, sindacati, abitanti del territorio, automobilisti e autotrasportatori, quei pochissimi rappresentanti politici che siano credibili su questa storia, è quella sotto casa di un ex presidente di regione di centrosinistra, un ex viceministro ed economista berlusconiano, e un importante imprenditore marchigiano che, insieme ad altri comprimari, ordirono il progetto Quadrilatero. Ma stamattina, a manifestare e a bloccare la strada, una rotatoria soprattutto, nella sperduta frazione di Valtreara a Genga, c’erano questi lavoratori dignitosi e coraggiosi, una cinquantina tra i molti che invece stavano comunque lavorando nei cantieri limitrofi, dai dialetti dalle sonorità estranee a questi luoghi, preoccupati, perché da qui a qualche giorno loro saranno quelli che pagheranno, per primi e per tutti. C’era un imponente servizio d’ordine di Polizia, diretto con buon senso ed equilibrio, solidale perché lavoratori anch’essi. C’era il Sindaco della grande città più vicina con la fascia tricolore, un amministratore locale con la badante, un’Onorevole dell’area di governo, alcuni consiglieri e rappresentanti politici territoriali di centrosinistra, dai volti incupiti, perché anche qui questa parte politica non se la passa benissimo da qualche tempo. Qualche abitante del posto, incuriosito dall’avvenimento. E chiaramente, molto circo mediatico. E poi, ho visto quelli che non c’erano. Non c’erano tutti quelli che nei giorni scorsi, leoni sui social, inveivano e si indignavano, dopo l’ennesimo incidente lungo questa strada, resa pericolosa e lenta dai tanti cantieri aperti (una sorta di Salerno-Reggio Calabria dell’Appennino umbro marchigiano). Perché, da automobilisti perdono tempo e denaro non potendo sfrecciare velocemente. Che però ho letto faranno un comitato di indignati nei prossimi giorni, che si chiamerà “Indecente 76”. E vedendo sui social chi sono, molti conosciuti personalmente, gli operai su questi “rivoluzionari da salotto dell’autovelox” potranno certamente farci affidamento… Ho visto quelli che non c’erano (se non alcuni), ma che avrebbero dovuto esserci: gli abitanti di questo territorio, che con gli operai ci coabitano da anni, che ne hanno rispetto e gentilezza. Che, come diceva un anziano di qui ad alcuni di loro durante il presidio, “poi dopo passate giù a casa che ho infiascato il rosso”. Gli abitanti delle piccole comunità che questa strada, che oramai bisogna finire per forza, contribuirà ad isolare e a far spopolare ancora più velocemente. Perché è un tracciato stradale la cui progettualità, gli amministratori locali, quando hanno avuto la possibilità di farlo, hanno concertato non facendosi carico dei bisogni degli abitanti, ma degli interessi dei soliti due o tre imprenditori amici. E, di conseguenza, è anche un progetto che ha un costo ambientale e paesaggistico straordinario, molto oltre quello che avrebbe originariamente potuto avere. Nonostante attraversi un’area protetta come un Parco Regionale. Alla fine, il presidio-corteo si è sciolto. La politica e le istituzioni sono tornate alle proprie priorità, e ad altri numerosi impegni. Qui, su questo territorio appenninico, rimangono, soli come ieri, gli operai e gli abitanti; in mezzo ad una strada pericolosa, piena di interruzioni da cantiere, a rischio incompiuta, con le frazioni tagliate fuori dal mondo, e tenute in stato di abbandono dagli amministratori locali. Grazie ad un progetto politico sbagliato, i cui mandanti che lo architettarono oltre quindici anni fa, ancor’oggi raccontano la fiaba, seppur da ruoli differenti, che le grandi strade portano sviluppo e progresso. Con uno di questi, che pure stamattina, continua a far ironia sui social su quelli che, essendosi opposti, ed essendo contrari ad alcune scelte, il cui fallimento è tutto intorno e sopra quella rotatoria a Valtreara, sarebbero i sostenitori di quella che lui chiama “la decrescita infelice”. 


lunedì 6 agosto 2018

LA MUSICA (di risorgimarche) E' FINITA, GLI AMICI SE NE VANNO


Bene. Si è conclusa la seconda edizione di Risorgimarche. Dico la mia, in conseguenza del fatto che i 350.000 € che la Regione Marche ha speso per il festival quest'anno (quasi il doppio dell'anno precedente), sono anche frutto della mia partecipazione di cittadino al gettito fiscale regionale. Spero sinceramente che ci sia una terza edizione del festival e che si ripeta negli anni. Perché comunque consentire alle persone di vivere esperienze in mezzo alla natura, e di conoscere luoghi che, come si dice, seppur "ad un tiro di schioppo da casa" non avevano mai visto, è un fatto positivo. Meglio sdraiati in un prato assolato, che raggelati dai condizionatori in un parco commerciale. Sono anche convinto che i luoghi in cui si sono trovate nel complesso oltre centomila persone, abbiano indotto tutti ad un grande rispetto, e a comportamenti rigorosi. La montagna è una dimensione educante, sempre. Ho l'auspicio però, che gli organizzatori sappiano per il futuro trovare maggior equilibrio tra la scelta delle location proposte, il pubblico potenziale che potrebbe affluirvi, e la fragilità ambientale di alcuni luoghi. Chi ha partecipato con entusiasmo e ha trovato significativa l'esperienza, deve esserne soddisfatto. Ha preso parte ad un evento di massa. Non di comunità, quelle sono altro. Se volete vedere cosa sia una comunità che si ritrova, venite tra due domeniche alla "Sagra de lu fegatello" a Morro di Camerino. Però, almeno, si abbia l'onestà di non vendere una cosa per quella che non è. Non è un festival originale, ma la scopiazzatura di un'esperienza, di ben altra qualità artistica, che il più grande violoncellista vivente, Mario Brunello, da anni, e con ben altre caratteristiche, propone sulle Dolomiti. Non è un festival che promuove l'imprenditoria agricola locale, tanto che, dopo che nella prima edizione, in cui questo aspetto è stato affidato a due stake holders monopolistici dell'agroalimentare regionale, che hanno diviso in "figli e figliastri" i piccoli produttori locali, nella edizione di quest'anno quest'aspetto è stato subito accantonato. Non è un festival che muove dal basso, ma nasce dal Palazzo, dall'astuta intuizione di una classe dirigente, che l'ha inizialmente pensato per primo come "distrazione" da altro.  Nelle Marche chi fa arte, musica e teatro dal basso, con professionalità e competenze riconosciute in tutta Italia, sono ben altri, e tutto l'anno. E sono quelli che, di anno in anno, si arrabattano per portare nelle proprie comunità progetti culturali che hanno come fine esclusivo la crescita civile delle persone, e non la vendita di un prodotto turistico. Ma hanno il limite di essere estromessi dal cerchio magico della politica culturale istituzionale. E il fatto che Risorgimarche sia gratis, perché totalmente assistito, è un insulto a cantanti, musicisti, artisti, operatori marchigiani, che per 12 mesi sputano sangue per mettere assieme il pranzo e la cena, o far studiare i figli. E soprattutto, la si smetta di mischiare questo evento culturale con il terremoto, e con la solidarietà alle popolazioni colpite. Tutto questo, con la situazione, dopo due anni, delle comunità lacerate che stanno nel cratere, che vivono nelle SAE, o che stanno lontano in CAS, o ancora a pensione sul mare, non c'entra niente. Sono altre le esperienze culturali che in questi mesi, sono state veramente solidali, perché vicine e in ascolto delle persone. Quelle di chi (Furgoncinema) è andato a fare il cinema nelle piazze dei centri sbriciolati o nei villaggi SAE, radunando gli abitanti, o di chi (Liricostruiamo) su un furgone in quei luoghi c'ha messo in scena un'opera lirica; o dell'orchestra di 70 giovani di tutta Europa di Igor Coretti e Paolo Rumiz, che da due estati vivono, lavorano e suonano, per una settimana a Camerino, grazie all'Università. E del regista Sandro Baldoni, che il suo film "La botta grossa", nonostante l'encomio dell'Istituto Italiano di Cultura a Parigi, e dopo che le Film Commission di Marche e Umbria hanno chiuso le porte per produrlo, sta girando in queste serate estive a far vedere la sua opera agli abitanti delle frazioni di Norcia. E il progetto "Futuro Infinito", che ha ricevuto la donazione di migliaia di libri, ma non riesce a renderli consultabili a Visso, per insensibilità varie. E altre ancora, sconosciute ai più e non foraggiate da nessuno. E poi basta con la santificazione in vita del direttore artistico, che è generoso, ha molti meriti, ma del quale ho anche letto messaggi di risposta poco pazienti a persone terremotate, che gli chiedevano di passare qualche ora tra quelli che provavano a ristabilire una quotidianità nelle località colpite. E lasciamo pure perdere con gli artisti così generosi che vengono gratis. Di Erri De Luca, quando a macerie ancora fumanti di polvere, venne e soggiornò in una tenda ad Arquata del Tronto, per aiutare i ragazzi di lì a elaborare lutti e dramma, si seppe dopo che era ripartito; non gli si organizzò alla scopo un festival della letteratura per averlo.  Ecco, fate ancora Risorgimarche, perché piace e perché è un buon prodotto turistico, ma lasciate stare altri discorsi, a partire dal terremoto e dai terremotati. Il terremoto è una tragedia. Di terremoto si muore; e di terremoto si continua ad ammalarsi e morire anche dopo, lo certificano i dati degli ambiti socio-sanitari. Ed utilizzarlo come un brand turistico, da parte di un élite regionale a corto di idee e azioni, non si è eticamente molto diversi dagli imprenditori sciacalli che si telefonano alle tre e quaranta di mattina. E chi sostiene questo, non è un rosicone, un hater (odiatore) come è stato etichettato; anzi, ora al contrario sarebbe un "buonista". Ma è una persona libera, autonoma, che pensa, scrive, dice. Al pari di quelli che hanno invaso i prati d'altura delle Marche. Siamo tolleranti, ci sta bene tutto, ma almeno abbiate l'umiltà di non prenderci per il culo. 


venerdì 27 luglio 2018

ERA UN CONTAINER MOLTO CARINO...


Quando il paese non ce l’hai più, perché il terremoto te l’ha portato via, assieme a quarantasette compaesani, anche un container, donato da un’impresa privata alla Protezione Civile Regionale, riesce a diventare il tuo nuovo paese. Il solo nuovo che avrai. Perché sai pure, siccome non sei scemo, che il tuo paese non sarà mai ricostruito. Per primo perché a nessuno, fatta eccezione per i paesani rimasti, interessa realmente ricostruire un paese per un pugno di abitanti che, tolti i morti, e quelli che dopo quasi due anni hanno già ricominciato la vita altrove, sono quelli che restano. Non in senso negativo. Ma intesi come “i restanti”, categoria antropologica di Vito Teti; quelli che hanno scelto di restare. Poi, non si può ricostruire un paese di nuovo sopra ad una paleofrana, di fianco un monte sventrato da decenni di attività estrattive, che fiancheggia i piloni di un viadotto e che sta sopra una sorgente di acqua buonissima, che ancora sgorga libera e pubblica, nonostante i tentativi fatti nel tempo per imbottigliarla e venderla. Tutti elementi, opera sia della natura che dell’uomo, che negli anni hanno reso quel territorio più fragile di altri, in cui la furia della Terra nella notte del 24 agosto 2016, ha trovato la porta spalancata. Il 24 agosto dell’anno scorso, un anno dopo, sono entrato in quel container, affidato dalla Protezione Civile Regionale alle persone del paese. E ho avuto la sensazione di entrare nel loro paese, che più in alto, sotto il monte, non c’era più, ma riviveva dentro le pareti di quei cento metri di struttura modulare di emergenza. Perché i paesani rimasti, che per farsi forza vicendevolmente, e per farsi voce verso i molti “chi di dovere”, nel frattempo avevano costituito un’associazione, si erano presi cura di quegli spazi, c’avevano appeso dei quadri, salvati da qualche casa crollata, in cui un artista locale, aveva impresso lo skyline di tempera del paese che non c’è più. Avevano fatto da mesi di quei volumi, un po’ asettici e incostanti nelle temperature, un punto di riferimento, di socialità, dove si poteva condividere un piatto di pasta e le ultime informative su come, fuori, stavano andando le cose. Anche l’aria, dentro quel container, sapeva di paese. E, una volta dentro, ho pensato che avrei dovuto, prima di entrarvi, togliermi le scarpe, impolverate peraltro dalla breccia, in segno di rispetto, come ho sempre fatto entrando, seppur da cattolico, in una moschea. Qualche giorno fa, ho letto che il Comune ha intimato all’associazione dei paesani, facendolo precedere dal distacco delle utenze, di lasciare la struttura. Perché, d’intesa con la Protezione Civile Regionale, quel container l’Amministrazione Comunale, ha deciso di assegnarlo ai Vigili del Fuoco. Se vuole, l’associazione dei paesani, potrà usufruire di uno spazio condiviso, all’interno di una struttura realizzata sempre da un Ente filantropico privato. Che però, nel frattempo, il Comune ha assegnato in via esclusiva, ad un’altra associazione. Ora, si potrebbe entrare nel merito amministrativo e procedurale della vicenda; alcuni paesani m’hanno mandato i carteggi intercorsi tra i vari soggetti coinvolti. Ma non mi interessa farlo, perché così, davvero si rincorre quella che io chiamo la “strategia dell’abbandono”, che è fatta anche dal rimanere schiacciati da carte e burocrazia. Mi piacerebbe che questa storia piccola di paese, potesse essere risolta con uno degli antidoti più efficaci contro la “strategia dell’abbandono. Quello, che da ancor prima del terremoto, è stato sgretolato in Italia da una certa idea, e pratica, di politica e di amministrazione. Il buon senso. Quello che per i pompieri, che sono certo di questa situazione se ne dispiacciono per primi loro, ti fa trovare e mettere a disposizione in qualche ora un altro container con le caratteristiche adatte. Quello che, se un paesano un po’ ribelle e arcigno, non vuole lasciare la Zona Rossa, a testimonianza del suo seppur originale senso si attaccamento a quei luoghi, sali su e con pazienza e capacità di mediazione lo convinci a scendere; non mandi i Carabinieri ad arrestarlo perché inottemperante all’Ordinanza Sindacale. Ecco, io non saprei prevedere come finirà la vicenda del container. Se prevarranno la rigidità e l’intransigenza delle carte firmate, in quel paese si allargherà ancora di più la faglia immateriale tra cittadini e politica, questo è certo. Così come io non so, se e quali, saranno i tempi della ricostruzione materiale, ma il vero ritardo, e la vera emergenza che si prolunga, è quello della ricostruzione etica e civile di una comunità e di un territorio. Che il terremoto ha riempito di lutto, precarietà e disorientamento. E che, tutti sanno, paesani e “chi di dovere”, che niente potrà più essere come prima. Ma i paesani a voler essere un nuovo paese ci avevano pensato e iniziato a lavorare, e l’avevano intanto messo dentro un container. Quelli del “chi di dovere” no. Presi da altre incombenze e vicende. Il Sindaco da migliaia di problemi, crollatigli addosso in una notte d’estate insieme al paese; problemi tutti più grandi di lui. Il Responsabile della Protezione Civile Regionale, da qualche tempo impegnato a dover fornire delle spiegazioni alla Guardia di Finanza e al Magistrato di competenza. Ah, giusto. Il paese si chiama Pescara del Tronto. Quello dalle macerie ancora polverose e fumanti, e di poveri corpi raccolti da sacchi e lenzuoli, che prima di lì è solo una scena che hai visto nei film di guerra, e che la casualità della vita mi ha messo davanti agli occhi una mattina d’agosto. Il paese che poi, e non può essere diversamente, ti porti dentro tutta la vita che ti resta. Di giorno, e di notte.


giovedì 26 luglio 2018

VIAGGIO LUNGO IL TUBO


“Portarci il corpo”. L’espressione e l’intenzione, che recentemente lo scrittore Sandro Veronesi ha lanciato per quanto riguarda il tema delle migrazioni e degli arrivi dal Mediterraneo, ripropone un tema più generale. Quello dell’importanza, riguardo a ciò che accade in un territorio, per capirne determinati fenomeni a fatti, di essere lì, viverci, o portarci se stessi. E’ con questo atteggiamento, pur conoscendo la questione nel merito e avendola affrontata in incontri pubblici, ma sempre a distanza e mai con chi ci abita, che ho deciso di “portare il mio corpo” lungo il percorso che avrà il Gasdotto SNAM nelle Marche e in Umbria, che dal Salento, dopo aver attraversato dieci Regioni per 687 km, arriverà al Nord. Un breve viaggio lungo il tubo, all’interno di parte dei 167 km del tratto Sulmona-Foligno. Da Serravalle di Chienti nelle Marche, lungo l’Appennino, fino a Cascia in Umbria.

Nelle Marche se ne parla poco. C’è stato, e c’è il terremoto, che ha sconquassato le aree montane delle Province di Macerata, Fermo, Ascoli Piceno e parte di quella di Ancona. Siamo ancora nella fase dell’emergenza; le persone sono prese da una quotidianità lacerata e problematica, e della ricostruzione non c’è ancora una minima traccia. Il gasdotto nella Regione attraverserà due Comuni, Serravalle di Chienti e Visso. Insieme poco più di duemila abitanti e circa 200 chilometri quadri di superficie. Poco, si dirà. Certo, almeno in termini demografici. Ma comunque un territorio molto esteso che attraversa un lungo tratto di Appennino. Alcune reti dei movimenti di base e sociali hanno già promosso incontri, partecipati peraltro, ma tutti dentro dinamiche che non raggiungono le popolazioni. E il giornalista Mario di Vito e la scrittrice Loredana Lipperini, rispettivamente su Il Manifesto e sul proprio blog, hanno raccontato un fatto che recente che, nelle Marche, potrebbe essere messo in relazione con il gasdotto. Ovvero, la donazione di cinque milioni di euro, ricevuta dalla Regione Marche, con tanto di atti amministrativi ed incontri istituzionali nell’estate 2017, da parte della compagnia petrolifera russa Rosnef, per la ricostruzione dell’ospedale di Amandola, nel fermano, distrutto dal sisma del 2016. Compagnia, di cui risultano, mai smentite, joint venture con la Snam da diversi anni.
Arrivo a Serravalle di Chienti. Qui il terremoto del 2016 ha segnato meno, ma ci sono ancora i segni di quello del 1997, l’epicentro del 26 settembre con magnitudo 5.4 fu a Cesi, una frazione di Serravalle. “Qui in Comune non è arrivato ancora niente, anche se sappiamo. Però qui in paese non se ne parla”, mi dice con gentilezza l’impiegato dell’Ufficio Tecnico del Comune. La piazza centrale è assolata e l’aria è asciutta; riconosco seduto ad un tavolino del bar Venanzo Ronchetti, ex Sindaco di Serravalle; amministratore durante il terremoto del ’97 e la successiva ricostruzione. Ci conosciamo, è un piacere rivederlo. “Io lo so, certo, del gasdotto, e dove passerà. Ma qui non sa niente nessuno, non se ne parla; se entri al bar, qui si parla solo di Salvini”. Da Serravalle salgo a Colfiorito, l’altopiano delle patate rosse. Quando, fino a pochi anni fa, non c’era la strada veloce in galleria della Quadrilatero, per andare da questa zona delle Marche in Umbria, si saliva per la vecchia statale 77 fin quassù, si attraversava la piana, e si scendeva a Foligno. Adesso, la strada nuova taglia fuori tutto, compresi “i patatari”; che prima trovavi uno dopo l’altro a vendere patate, legumi e formaggio con macchine e furgoncini ai bordi della strada, e che adesso non trovi più. Il traffico passa tutto sotto i monti in galleria, e la patate sono costretti a venirle a vendere a decine di chilometri di distanza da Colfiorito, ai bordi delle strade provinciali in pianura. “La strada nuova è una gran cosa, perché Colfiorito è la prima uscita”, mi dice la titolare del primo bar all’inizio della piana. “Si, ma la prima dall’Umbria, e la strada arriva a Civitanova Marche sull’Adriatico – le rispondo, e chiedo – ma i clienti sono di più o meno di prima? “Ah, dipende – mi risponde adesso meno entusiasta – certi giorni non si vede proprio nessuno”. Non sa che lì dietro alla piana ci passerà il gasdotto; gli spiego un po’ di che si tratta. Anche la mamma molto anziana, che ancora dà una mano dietro il bancone, ascolta molto attenta. “Non può essere mica vero – commenta la barista – qui è tutta zona naturale, mica ci possiamo mettere il gas sotto? E se esplode? Ci sono le leggi e non gli daranno i permessi”, chiude molto speranzosa. Le rispondo dicendo che, al contrario, ci sono leggi e permessi che consentono proprio di farlo.
Strada facendo, nello spostarmi tra Colfiorito e Cesi, dove vedo ancora sparse qua e là le casette di legno del terremoto del 1997, alcune tutt’ora palesemente abitate e vissute, telefono alla ViceSindaca di Serravalle di Chienti, Isabella Piermarini, che di mestiere è archeologa. Mi conferma che ancora in Comune non sono arrivati documenti o richieste di convocazione di Conferenze dei Servizi, ma lei sa del gasdotto. E’ favorevole, e anche se brutto paesaggisticamente, la ritiene un’opportunità di lavoro e per la ricerca archeologica (opere come queste prevedono campagne di scavi e rilevamenti preliminari lungo le aree del tracciato, ndr). Mi racconta che anni fa, da archeologa, ha lavorato per i sondaggi della superstrada che da Serravalle va verso Colfiorito, e che più recentemente ha condotto campagne di scavi lungo il passaggio del metanodotto “Cellino – Teramo – San Marco”, della S.G.I s.p.a. (Società Gasdotti Italia). “Anche rispetto alla superstrada qui sotto, c’erano forti perplessità da queste parti – mi dice – ma poi tutti hanno visto che è un’opera positiva, adesso a Colfiorito non ci passa più tutto il traffico di prima, ma c’è solo il turismo di qualità”. Secondo lei, il gasdotto “crea un servizio”. Le dico però che questo è un tubo di solo trasporto del TAP pugliese fino all’Emilia – Romagna, e che non è una rete di distribuzione territoriale. Mi consiglia anche di fare attenzione alle bufale che girano da queste parti sul gasdotto, relative alla pericolosità sismica e alle paventate possibili esplosioni.
Chiusa la telefonata, lasciandomi la piana alle spalle, arrivo a Cesi, frazione di Serravalle di Chienti, oggi circa 20 famiglie ad abitare il piccolo centro ricostruito dopo il sisma di 21 anni fa; ma molto di quella storia è ancora viva nei piccoli villaggi di legno, dove furono realizzate le antesignane delle contemporanee SAE (Strutture Abitative di Emergenza), e che come già si prefigura anche per i terremoti del 2016, sono diventate “strutture abitative eterne” (1). La signora Marika, titolare del piccolo ristorante fuori paese, anch’esso ricavato in una struttura modulare del tempo, mi spiega che queste casette di legno vennero allora poi vendute dal Comune ai chi ne era interessato, ed alcuni le usano oggi come seconda casa, ma altri addirittura come abitazione principale. “L’acquedotto? – mi chiede Marika – Io non so niente”. “No signora – le rispondo - il gasdotto”, e gli racconto un poco. “Allora ci porteranno il metano – mi dice – che qui non c’è” “No”, rispondo e le racconto che il tubo fa solo trasporto tra la Puglia e l’Emilia Romagna”. “Allora – chiosa un po’ rattristata – a noi ci faranno solo del male”.
E si, in questa parte d’Appennino, che non conoscevo affatto, di schiena a Colfiorito e ai Sibillini, sgusciando il tubo proprio come un’enorme anaconda tra i confini di Marche ed Umbria, porterà dei danni irrimediabili al paesaggio, considerata la complessità dell’infrastruttura e delle sue opere accessorie, checché ne pensi la cortese ViceSindaca di Serravalle di Chienti. Qui, lasciando Cesi, e dirigendosi tra le frazioni umbre di Foligno, Fraia e Popoli, piccoli centri abitati da qualche famiglia, si trova ancora davvero un paesaggio incontaminato, vocato ad una agricoltura di alta quota e all’allevamento brado. Le rotoballe di questo inizio luglio, disposte sui campi di foraggio appena tagliati, testimoniano la qualità ambientale e rurale di questo territorio agricolo. Il vecchietto che s’affaccia a Popoli dal balcone di casa, per vedere chi potrà mai essere questo (cioè io) che s’aggira per il piccolo borgo turrito sotto il sole del primo pomeriggio, mi dice che lui del gasdotto non ha sentito mai parlare. “Tanto tempo fa – mi racconta – c’avevano detto che c’avrebbero portato il metano, ma poi non s’è visto più nessuno”. E dell’intenzionalità di tale infrastruttura domestica, a Popoli, a testimonianza c’è rimasta almeno una palina con il cartello; il tutto provato dal tempo e dalle stagioni.
E da questa Umbria di confine, rientrando nelle Marche e arrivando a Civitella, capisci.
Capisci che il gasdotto lo faranno. E l’hanno pensata proprio bene, nel farlo passare da queste parti. In un territorio di margine dove, fatta eccezioni per piccoli abitati di un pugno di persone, non c’è nessuno. E, cosa non secondaria, non ci passa nessuno, se non chi ci abita o chi si sbaglia strada. Non sono questi i luoghi del turismo, di nessun tipo: di massa, “slow”, responsabile, come viene ora classificato pur di giustificare qualsivoglia intervento sul paesaggio. E, di conseguenza, qualunque scempio ambientale verrà praticato, non lo vedrà nessuno, né tantomeno qualcuno controllerà e denuncerà. Quali sono le comunità da queste parti che si opporranno? Che si mobiliteranno? Quali gli amministratori locali che si batteranno per difendere il loro territorio?
Rifletto sututto questo mentre oltrepasso le poche case della frazione di Rasenna, nel Comune di Visso, per ritornare dopo qualche chilometro in Umbria, nel piccolo borgo di Piaggia, Comune di Sellano, dove paradossalmente nella bacheca di legno all’inizio del paesello, mischiato tra l’annuncio di una sagra e un manifesto da morto, trovo appiccicato il volantino di un’informativa del Comitato contro il gasdotto. Che nessuna popolazione avrà probabilmente mai letto, considerato che le case che danno l’idea di essere tutt’ora abitate sono un paio. Rinfrancato da questa pulsione di civismo e democrazia trovata lì in mezzo all’Appennino, rientro nelle Marche, e scendo a Chiusita, altra frazione del Comune di Visso, dove l’unico abitante che incontro mentre sta letamando, in una lingua mista tra l’italiano e lo slavo, mi fa comunque capire che del gasdotto non sa niente, ed anche come arrivare fino a Ponte Chiusita, in piena Valnerina.
Qui, la strada, devastata dalle frane e dallo scostamento del letto del Nera il 30 ottobre 2016, da qualche mese è stata messa in sicurezza ed ha ripreso la sua funzionalità. Non ci ero più passato da quei terribili giorni per la provinciale che da Ponte Chiusita, in una ventina di chilometri, porta a Norcia. Più o meno parallelo alla strada ci passerà il gasdotto. Ora, percorrendola di nuovo, chiunque capirebbe una cosa: che il terremoto di Norcia ed Amatrice, non è stato, come mediaticamente viene ancora spacciato, solo di Norcia ed Amatrice. Ma anche di tutto quello che sta, nel nostro caso specifico, intorno a Norcia. Quel che resta della Basilica di San Benedetto, oggi sta lì intubato, come un paziente nell’UTIC di un ospedale, accudito a vista dal piglio severo della statua del Patrono D’Europa. Norcia è conciata male, ma ha retto. Le piccole località, e molta dell’edilizia delle campagne, non ci sono più, sostituite dalle SAE, come a Preci, Campi, Ancarano, o definitivamente in via di abbandono, come Ocricchio, Civita, Castel Santa Maria, Roccanolfi, Ospedaletto. Ecco, in questo “via crucis” della tettonica appenninica, quella con il massimo grado di rischio simico del Paese, ci passerà il tubo, 1,20 metri di diametro, ad una profondità tra i 4 e i 5 metri, con il gas pompato a 75 atmosfere, con sbancamenti di 40 metri.
Arrivo a Norcia, conosco Arcangelo De Angelis, nursino, attivista del Comitato “Norcia per l’Ambiente”. Loro si sono attivati già da più di dieci anni, dal 2004. Si sono battuti con manifestazione eclatanti, come quella del giorno dell’Immacolata del dicembre 2005, quando portarono delle bare dentro la Sala Consiliare di Norcia. Hanno anche ottenuto nel 2007, la modifica di parte dei 19 chilometri del tracciato che attraversa questa zona dell’Umbria, quella che passava dentro le Marcite, un’area storico-ambientale protetta. Il Comitato è composto da 40/50 attivisti. “Qui la gente lo sa che faranno il gasdotto – mi dice Arcangelo – a livello informativo abbiamo lavorato molto. Però – continua – qui si pensa esclusivamente al turismo, da sempre. Fanno finta di non saperlo… Poi, dopo il terremoto del 2016, oggi la gente ha tutt’altri pensieri e priorità personali e familiari, e al gasdotto non ci pensa proprio; ma le cose non si fermano certo perché c’è stato il terremoto”.
Salgo in macchina con lui, che mi porta a vedere un po’ di cose che riguardano il tubo. Mi parla, guidando, di Norcia, di come funzionano un po’ le cose da sempre da queste parti, a prescindere dalle stagioni della politica. Del gasdotto, che è stato progettato considerando la sismicità storica dell’Appennino fino al 2004, quindi senza prendere in considerazione i sismi dell’Aquila, dell’Emilia, del 2016 e del 2017 vicino Campotosto in Abruzzo. “E’ vero, corretto scientificamente, che la scossa del 30 ottobre 2016 è stata classificata mediamente 6.5 Richter, ma – mi precisa – quella mattina la strumentazione locale a Poggio Capo di Colle sopra Ancarano, ha segnato una magnitudo di 7.1…” Ci sono passato arrivando a Norcia, tra Campi e Ancarano, e i segni distruttivi di quello che sismologicamente mi ha raccontato Arcangelo, si vedono. “Considera – aggiunge – che il progetto del gasdotto è basato su un valore dell’accelerazione dell’onda sismica, che è meno della metà di quello del 30 ottobre 2016”. Arriviamo a Casali di Serravalle, poco fuori la città di San Benedetto. Mi indica sul terreno dove correrà con precisione il gasdotto, a fianco di un ristorante con un bel parco. “Mah – gli dico – viste le condizioni del ristorante che è completamente inagibile, non avranno neanche tante noie con gli espropri; anzi, al proprietario gli fanno un piacere…”. Mi indica il crinale del colle dall’altra parte della provinciale per Spoleto. “Guarda in mezzo a quei due pioppi, come se fossero un traguardo – mi indica – il gasdotto da Ospedaletto che sta su dietro, scende lungo il versante e passa qui sotto i nostri piedi. La faglia del 6.5 Richter sta a un chilometro a mezzo da qui.” Poi mi fa girare di spalle e mi indica un monte opposto alla valle, Monte Mattone a Campofermo. E mi racconta un’altra storia: quella dello sbancamento del monte con un nuova cava, con i cui materiali verrà prodotto il calcestruzzo, e della costruzione a ridosso della zona di estrazione di un cementificio. “Dicono – mi spiega – che servirà per gli inerti a servizio della ricostruzione post-sismica. Ma l’operazione è assai precedente al terremoto, e non è da escludere che abbia a che vedere pure con il gasdotto”.
Ripartiamo, ci inerpichiamo per le curve della comunale che portano ad Ospedaletto. Arrivati al piccolo centro, mi fa segno con il braccio, come se fosse una stadia, di dove passa il tubo. A fianco la chiesa di campagna, ora inagibile, e ad un agriturismo, lesionato inesorabilmente pure quello. “Prima del terremoto – ricorda – ci vivevano quassù circa cinquanta persone; ora sono rimaste quattro, cinque famiglie, solo perché si sono fatte le casette faidate a spese loro. Con tutti i problemi di presunto abuso edilizio, derivante dalla normativa urbanistica che vieta di farlo”.
Ritorniamo a Norcia, è ora di pranzo, ed è d’obbligo il panino con i salumi e il formaggio locale. Seduti sulla panca di fronte l’area commerciale provvisoria, che ha già del definitivo, sotto le mura di Porta Orientale, Arcangelo mi racconta che a Norcia ci sono 696 SAE, e che dopo il terremoto, già tra quattrocento e seicento abitanti se ne sono andati a vivere definitivamente in altre zone della Regione, specialmente verso Spoleto e Corciano. Da lì, sotto i nuovi negozi di tipicità norcine, mi indica dove si vorrebbe far passare il ventilato trenino a cremagliera per portare i turisti direttamente da Norcia a Castelluccio. Non riusciamo a non parlare del Deltaplano, il costruendo centro commerciale e ricettivo sulla Piana di Castelluccio. Mi racconta un po’ di storie e faccende locali, di come sono regolati alcuni rapporti e alcune dinamiche locali. Ma questa, come direbbe Carlo Lucarelli in una puntata di “Blu notte”, è veramente un’altra storia. E’ arrivato il momento di congedarci con Arcangelo, ma sappiamo entrambi che si tratta di un arrivederci.
Riparto da Norcia e mi rimetto in viaggio lungo il tubo, attraverso la piana, e comincio a salire in direzione Cascia, lasciandomi sulla sinistra San Pellegrino di Norcia, completamente raso al suolo la notte del 24 agosto 2016. Arrivo a Civita, Comune di Cascia, immersa nella campagna d’altura. Dopo il cartello dell’inizio del centro abitato, mi colpisce che sostanzialmente questa frazione sia costituita da file di case a schiera, parallele fra loro. Non vedo nessuno in giro, penso all’ora calda che sconsiglia di stare fuori. Ma poi, entrato dentro la zona abitata, capisco il perché non ci siano folle in giro: buona parte delle case, seppur di recente costruzione, penso ad un edilizia fine anni settanta, sono tutte lesionate dal terremoto e in stato di abbandono; quelle abitate sono una minoranza. Anche qui, penso, i lavori del gasdotto non troveranno grandi resistenze. Ma lo shock vero lo provo quando entro a Castel Santa Maria, piccola frazione di Cascia edificata su un colle, che sovrasta i ruderi dell’antica chiesa cinquecentesca della Madonna della Neve. Entrando in paese, la sensazione che provo è quella di entrare in un villaggio del far west, quelli riprodotti dai maestri scenografi di Cinecittà, che il protagonista del film trova arrivando, abbandonato dopo qualche razzia o epidemia tra gli abitanti. Due file di villette a schiera si affacciano sulla strada. Buona parte del pavè fatto di grandi lastre di porfido è saltato o è sconnesso. Le case hanno tutte lesioni enormi, qualche crollo, lo stato di abbandono di molti mesi è evidente. La spettralità, è resa più significativa dal fatto che anche qui sono tutte costruzioni recenti.
“La frazione antica stava più in alto – mi spiega la cortese titolare del Gabry Bar a Savelli, piccola località che trovo tornando indietro – poi dopo il grande terremoto del 1979 fu rifatta nuova più sotto con criteri antisismici, ma nel 2016 è stata di nuovo distrutta; adesso ci abitano solo due famiglie”. Il 19 settembre di 39 anni fa, una magnitudo di 5.8 Richter devastò la Valnerina, facendo 5 vittime a Norcia e, il che spiega i ruderi che avevo visto, rase al suolo il Santuario della Madonna della Neve. Anche Civita di Cascia, fu ricostruita con criteri antisismici, prediligendo la sicurezza all’estetica, e facendo diventare un borgo vivo, un grande dormitorio senza un bar e un negozio. Ritrovo, nel documentarmi a casa al ritorno, una testimonianza su Civita del 26 agosto 2016, che ci aiuta a capire: “A Civita il borgo storico è un paese di fantasmi. «È un luogo romantico», ci racconta Silvana. Una cartolina, un nido dove salire da fidanzati. Ma non ci vive nessuno. Dagli anni novanta, e quindi oltre undici anni dopo il fatidico '79, tutti gli abitanti si sono trasferiti nelle tre file di palazzine anonime a due e tre piani. «La scossa dell'altra notte trema ancora- racconta Ivana - è stata una catapulta, di una violenza, di una ferocia! E poi il rumore». Ma in casa e fuori non è caduto nemmeno un pezzetto di intonaco. Si sono aperte tutte le ante delle credenze, sono caduti i libri. Per questo tra le villette di Civita ringraziano sempre e comunque «il geometra Ercoli, che pensò a questa soluzione bruttina ma comoda e sicura». Case perfette dal punto di vista tecnico, «e completamente sbagliate dal punto di vista sociale». Non una piazza, non un bar, «la chiesa costruita verso il tramonto». Questo è un paese «dove non ci si incontra mai» (www.ilgiornale.it). Poi, però il 30 ottobre del 2016, non ha risparmiato, purtroppo, neanche questo esperimento di urbanistica post- sismica di quasi quarant’anni fa. “Se ne parla sotto voce – ora sono riuscito a spostare l’interesse della barista dal sisma al gasdotto – e qui rovineranno tutto, tagliano le montagne per fare il cementificio. E’ il progresso, però… C’è un signore di S. Andrea che sul gasdotto è molto arrabbiato, vedrai che più tardi arriva al bar”. “Ma io purtroppo devo ripartire – le rispondo congedandomi e ringraziandola – e poi se arriva e lo faccio parlare del gasdotto, si arrabbia di nuovo e gli rovino la serata…”.
E dalla piana di Norcia, attraversando una campagna estiva meravigliosa, salgo ad Ocricchio, dove il tubo passerà indisturbato, in un paese che ancora è tutto zona rossa, e dove l’abbandono ha contagiato anche il cantiere allestito dopo il terremoto; giustificando anche qui la veridicità di una vera e propria “Strategia dell’Abbandono” (2). “Ad Ocricchio ci vivevano prima del terremoto stabilmente alcune famiglie, ma d’estate superava con i villeggianti le cento persone, mia mamma era di lì – mi racconta la signora della Cioccolateria Vetustia Nursia di Norcia, dove cedo alla tentazione del gelato e del cioccolato da riportare a casa– e dopo il terremoto del ’79 era stato rifatto e ora è venuto di nuovo giù tutto”.
Ritornando verso la Valnerina, giunto quasi al termine del mio viaggio, salgo su a Preci al castello, e a Roccanolfi, altre frazioni nursine interessate al passaggio del gasdotto. “Ora su a Preci è tutto chiuso – mi racconta la giovane titolare del bar provvisorio nella casetta di legno lungo la provinciale sotto il Castello – prima ci abitavano venti, trenta persone; a Roccanolfi ora ci saranno due, tre persone”. Chiedo del gasdotto. “Se ne parla – mi dice la ragazza – lo sappiamo che lo faranno. Qui al bar sono venuti tempo fa dei ragazzi a portare dei volantini di quelli contrari”. A questo punto si gira un paesano dal volto simpatico e dal barbone brizzolato, finora sprofondato dentro la Gazzetta dello Sport su un tavolino del bar. Abbandona il giornale e si alza verso di noi, ci tiene a far parte della conversazione, e a dire la sua: “Qui – riferendosi al tubo – ci vuole proprio per queste zone. Tanto è gas e sta sottoterra, e poi porteranno lavoro, qui sono tutti monti, tanto. Ma dove passa di preciso? “Qui dietro – gli spiego – proprio tra queste frazioni” Adesso il suo piglio si rammollisce, mi guarda interdetto, come quelli che “qualunque cosa mi va bene, ma non nel cortile di casa mia”. “Ah beh – adesso è un po’ più timoroso – però tanto non scoppia, tuttalpiù prende fuoco…”



Note
(1)          Definizione delle SAE data dalla Rete dei Movimenti TERREINMOTO MARCHE, dicembre 2017

pubblicato da  https://www.terredifrontiera.info/ il 24.07.2018