domenica 17 febbraio 2019

E QUANDO ARRIVA LA NOTTE


Gli outing solitamente sono postumi; a dei fatti o a delle scelte. In questo il mio ha una sua originalità. Lo faccio prima. C'ho pensato a lungo, libero da condizionamenti e sollecitazioni esterni; giuro di non aver ricevuto telefonate, email, sms o whatsApp. L'unico fattore motivazionale che c'è, pressante, è quello di una consapevolezza molto inquieta dei tempi che stiamo attraversando. Quelli in cui i nodi, o meglio gli effetti di un’involuzione culturale e valoriale, dopo una ventina e passa di anni, sono venuti tutti al pettine. In questo sì, come si dice adesso, mi riconosco di essere da tempi non sospetti, “gufo”. Anche da prima del conio di questa espressione, che chiama ingenerosamente, e colpevolmente in causa, un animale notturno bellissimo e straordinario. Dopotutto stiamo prendendo atto, sperimentandoli avventurosamente, degli effetti a rilascio prolungato di una stagione culturale e sociale del Paese, quella del “Drive-in”. Che se finora ci fosse sfuggito, una classe dirigente per l’oggi l’ha forgiata. Non è un caso infatti che le due più forti leadership politiche di questi ultimi anni, pur nelle differenze ideali, siano incarnate da due poco più che quarantenni, Renzi e Salvini. La cui sola esperienza meritocratica e selettiva giovanile che possono annoverare entrambi nel proprio curriculum, è quella di aver concorso ad un quiz televisivo del gruppo Mediaset.
Tra due domeniche andrò a votare alle primarie del PD. Ecco qua. Convinto già dalla sua nascita, che fosse un progetto politico sbagliato. E che se negli anni è finita così, non poteva andare diversamente. Perché non si fonda un nuovo partito a seguito di un'intercettazione telefonica (la famigerata telefonata tra Fassino e Consorte sulla banca), liquidando in un'estate una storia politica comunitaria di centinaia di migliaia di persone. Sono anche convinto dalla prima ora che le primarie, come strumento decisionale, siano una cazzata, almeno in Italia. Perché i gruppi dirigenti di un partito non si determinano sotto un gazebo. Ma sono il frutto faticoso di progettualità, visione, discussione. Non sto neanche attraversando il tempo di un ritorno di fiamma per l'impegno e la militanza politica. Anzi, il solo intimo pensiero di entrare in una sede di partito, o di passare del tempo in una riunione politica, mi genera immediatamente un profondo senso di angoscia e depressione. Andrò a votare alle primarie anche consapevole della distanza che, su molti temi e valori, si è cristallizzata tra me e questo partito, che non voto più da anni. Non dimentico del fatto che, come direbbe il Noodles di Sergio Leone, nel finale del film: "Vede signor senatore, anche io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua". E che, di tanti generali e pretoriani piddini del centro e di periferia, conosco non solo, citando un film ungherese, “Vizi privati, pubbliche virtù”, ma anche vizi pubblici e virtù private. Sono stato nel PD, dall’inizio; ma arrivando da un po’ più lontano. Perché anche allora pensavo che fosse la cosa più credibile e solida, con quello che lo scioglimento dei DS si lasciasse alle spalle ed intorno. Poi ad un certo punto, anni fa, non sono uscito dal PD, ma è stato il PD ad uscire da me. Senza esorcismo. Nel senso pratico che da un anno all’altro nessuno m’ha più chiesto di riprendere la tessera. Non ho cercato nuove case politiche, non ho militato più in niente. Sono rimasto un comune elettore di sinistra. Ma oggi, a differenza di tanti, non appartengo alla schiera, di chi in buona fede o di chi più interessato, ha scelto l’anno scorso il "ma si, proviamo". E che ora, con il ricordo di ventenni rivoluzionari, si ritrovano ingrigiti a spingere il carro gialloverde del vincitori. Andrò alle primarie, sicuro del fatto che la Regione in cui vivo, sia dal 2015 amministrata dal peggior Presidente e dalla peggiore Giunta che le Marche abbiano avuto dall'istituzione del regionalismo, il 1970. Al netto della gestione del terremoto del 2016. E che stanno portando a sfracellarsi, dando ogni giorno sempre più gas, come sulla Lancia Aurelia di Gassman e Trintignant, una importante tradizione politica e un territorio di poco più di un milione e mezzo di persone; e a consegnare le chiavi del Governo Regionale alla destra, che ha già fatto cappotto un anno fa alle politiche. Non mi sfugge neanche, anzi, che il PD sia il partito di Minniti; altrettanto, seppur diversamente, spietato sui migranti rispetto a chi gli è succeduto. Però. C'è poi il però. La sensazione, non epidermica, istintiva, né emozionale, ma politica, che se c'è un qualcosa che respinge indietro la notte nera che avanza, è un qualcosa che passa per forza da che succede “al e nel” PD. Non si può aggirare questa vicenda, nel pensare a come ribaltare un trend culturale e politico che sembra incontrovertibile. Non è con partitini e listini, di mera testimonianza, che si batte la destra. Serve un baricentro sostanzioso al campo democratico. Dal PD, dall’unico soggetto politico democratico di rilievo, anche se malconcio, non si può prescindere. Dal basso e da sinistra, purtroppo, non si riesce ad autogenerare e costruire più niente. Inutile prenderci in giro. Esperienze belle, significative, eticamente di spessore. Ma elettoralmente irrilevanti. Anche alcuni tentativi che mi sono messo ad osservare con interesse e curiosità, e che rimettono in circolo buone persone, assieme a qualche stanco elefante; ma tutte gracili, temporanee. Per essere rilevanti bisogna vincere le elezioni. Non esiste altro metodo democratico. C'è poco da dire, o da fare. Tutto il resto è minoritarismo politico. Fatto da persone bellissime, a molte delle quali sono affezionato. In un arcipelago sparpagliato, in cui ancora pascolano anche tanti tristi e incanutiti professionisti delle sconfitte. Maestri delle sciagure elettorali annunciate. Un mondo nobile, ma che non inverte nulla. Si dice solo alla notte che è nera, brutta e maligna. Ma non la si ricaccia indietro. Non c'è più, e forse non c'è mai stato, tempo per fare il partito che ancora ha da venire. Godot non arriverà. Qui, come nella drammaturgia di Beckett. Bisogna puntare l'ultima fiche sul solo numero della roulette, su 36, che può uscire. Sperando che vada bene. Che lì, nel PD, dopo le primarie, succeda finalmente davvero qualcosa. Perché lì almeno si può giocare, è l'unico partito rimasto dove chiunque può partecipare; le primarie sono un metodo discutibile, ma almeno sono aperte e tutti. Non lo è la piattaforma digitale, manipolata dall'algoritmo dello studio associato; nei partiti di destra si obbedisce al ducetto; non lo sono le tante microscopiche appartenenze che pretendono fideismo e dichiarazioni di dogmatismo ideologico, o fedeltà al guappo di turno. Per cui io, alla soglia dei 50 anni, abbastanza impaurito sui tempi che corrono, il 3 marzo andrò alle primarie del PD; mentendo, per primo a me stesso, mi dichiarerò elettore di quel partito, consapevole già da ora che non lo voterò alle europee, e infilerò la schedina nello scatolone sotto il gazebo. Perché, il giorno dopo, a far vacillare anche per poco la notte, servono anche i numeri. La partecipazione è quello che conta veramente. Molto più dell'esito del voto. Di chi avrà vinto, o di chi avrà perso le primarie. La politica è così, e non da oggi. E in questo la solita solfa del “meno peggio” o del montanelliano “turarsi il naso”, non centra nulla. La politica, è una scienza esatta. Per primo. Poi, è valori, passione, sentimento, tutto quello che si vuole. Poi, me ne ritornerò a casa, alle mie passioni e ad occuparmi di cause che mi stanno non solo a cuore, ma sotto casa. E a guardare, essendo escluso a priori dal dare una mano, non potendo vantare uno ius soli de noantri, all’imminente sciagura elettorale degli sparuti piddini locali del paesello. Che consentiranno l’ennesima elezione consociativa di un sindaco sottopadrone; nel pieno solco del mai domo democristianesimo della lavatrice. E che darà il colpo di grazia a questo territorio e ad un paese in progressiva estinzione. Tornerò insomma al mio “irredentismo montanaro”, come un po’ provocatoriamente mi definito l’amico Mario Di Vito nel suo libro. E ad interessarmi di temi che riguardano l’ambiente, il paesaggio, il futuro dei paesi e di chi ci vive. Tutte cose che finora, non sono nell’agenda politica del PD. Che quasi sempre persegue il contrario. Sperando, però, che intanto il dispetto più grosso, il 4 marzo, io l'abbia fatto alla notte. Perché è lei il pericolo, se ancora non fosse chiaro. Tutto il resto è noia. O chiacchiere, belle, come si dice adesso, di radical chic e buonisti. Perché in fondo, a dire quanto sono stronzi, incapaci, o fascisti, su Facebook, si è buoni in tanti. Poi, però, bisogna trovare anche il modo, concreto, di metterci il corpo. Per me, spendere due euro il 3 marzo, mi pare questo sia il costo, diventa un piccolissimo modo, quasi indolore, di metterci il corpo. Sopportabile.


domenica 10 febbraio 2019

SOLE KUORE AMORE


Non guardo Sanremo da quando non più convivente con i miei genitori. Ma in questo non credo esserci un atteggiamento snobistico o “radical chic”, come si dice adesso. Semplicemente mi annoia. Mi annoia quel genere di musica (in macchina da anni ascolto solo un network radiofonico che trasmette rock). E, soprattutto, non riuscirei a seguire un programma televisivo, che da anni dura continuativamente quasi una settimana. Mi annoia da sempre il fatto che si voglia mettere un perimetro alla canzone italiana, che ci sia un festival della canzone italiana, etichettante. E che, quello che sta dentro quell'evento esclusivamente commerciale che è Sanremo, siano canzone e musica italiana, e quello che sta fuori non lo sia. Stringere, anzi costringere l'espressione musicale e artistica dentro una concezione identitaria, per certi aspetti cromosomica. Come se gli artisti italiani, la maggioranza peraltro, e penso alle generazioni dei cantautori, che non sono mai andati a Sanremo, non facciano parte della canzone italiana, e non abbiano stravenduto per anni. Sarà tragicamente singolare o no, che l'unico cantautore vero che è andato al Festival, si sia suicidato in una camera d'albergo? Mi annoia poi il dibattito postumo di certe edizioni del festival sui vincitori. Tipo quest'anno. La canzone che ha vinto, leggo, non ha niente a che vedere con la melodia italiana. Ma cos'è la melodia italiana? Esiste? Ha senso parlarne in questi termini, a mio avviso, se il riferimento è alla secolare tradizione del melodramma, o a certa canzone di alcune culture regionali, come quella partenopea. Se Sanremo, come evento dello spettacolo, è figlio dei tempi, ci sta che vinca un brano rap o hip-pop, perché quelli sono generi di musica chiari, definiti, scientifici per certi aspetti. E i giovani italiani, e tutti i ragazzini del mondo, interagiscono con la musica rap e attraverso i rapper. Ma come, adesso ci sorprende, quasi ci indigna, che questo genere di musica abbia vinto il cosiddetto festival della canzone italiana? Ma se proprio giusto due mesi fa, purtroppo, un paio di generazioni di adulti e genitori, discutevano con presunta competenza del bene e del male della musica rap, dei rapper, a seguito della tragedia di Corinaldo? Come se ad ammazzare quegli adolescenti fosse stato il genere di musica, e non la filiera commerciale dei locali da ballo, di cui anche non pochi artisti sono complici, che pur di far soldi, stipa persone in contenitori non a norma. E dopo aver improvvisamente scoperto, a seguito di quell'enorme lutto, quale musica tutti i giorni ascoltassero, e che miti avessero i propri figli, che inconsapevoli scarrozzavano tutte le settimane davanti a locali, il più delle volte non rispettosi di elementari norme di pubblica sicurezza e delle leggi, all’interno e all’esterno. Poi, come in tutti i mondi, e anche in quello della musica e dello spettacolo, ci sono personaggi negativi e positivi; che con la loro arte comunicano valori e disvalori. Ci sono stati artisti che sono stati a Sanremo, che hanno portato sul palco la tanto piaciute e desiderate canzone e melodia italiana, beccati poi nella vita con montagne di droga nel garage... Quest'anno ha vinto un rapper, con un testo che dice che i soldi non sono un valore e il tutto dell'esistenza. Mi pare un bel messaggio per i nostri ragazzi, che distratti e ignari portiamo a sentire artisti che gli dicono che invece nella vita contano solo i soldi, le macchine e la fica. Non mi soffermo per nulla su quanto sia più o meno straniero o italiano l’artista che ha vinto. Come ho avuto modo di leggere, apprezzandolo, questa sarebbe già una discussione e disquisizione razzista.





giovedì 7 febbraio 2019

LA STRADA BUONA


Il motore dell’Ape ha un suono che lo riconosci tra tutti. Anche da lontano. Ecco perché quando, nel silenzio spettrale o seducente della Gola (giudizio che dipende dai giorni, a seconda dell’umore con cui mi sono svegliato), passeggiando con il cane, ho sentito quel rumore, l’ho abitudinariamente ricondotto a Natale che, come tutte le mattine, stava andando o rientrando dal fare la spesa con il suo Ape verde. Poi però, girandomi, vedo che l’Ape non curva a gomito piegando un po’ di lato, verso la frazione abitata, ma punta verso dove mi trovo io. E, soprattutto, non è l’Ape verde di Natale, ma un altro Piaggio un po’ più grande, con scritte e disegni colorati sulla carrozzeria. “Sarà uno che va in giro a fare il riparatore tuttofare – mi dico - e s’è sbagliato strada”. E già, perché qui da mesi, con i cantieri della Quadrilatero per il raddoppio della statale, che fanno saltare l’ordinarietà dei navigatori, quelli che si sbagliano sono in tanti: dai turisti, ai camionisti, a quelli che in genere non conoscono la zona, e vengono disorientati dalla segnaletica che, per non farti più capire dove ti trovi, ci mette del proprio. Poi l’Ape di ferma accanto a me; dal finestrino si sporge uno che, un po’ in italiano e un po’ in francese, mi chiede se sta andando bene per Ancona. Gli dico che la strada più avanti è chiusa, che deve tornare indietro, e cercare le tabelle gialle con scritto “Ancona”, e che le trova dopo un paio di chilometri. Questa è la mia informazione oramai di rito quotidiano, verso tutti quelli che finiscono qui in mezzo. Mi guarda smarrito. Scende dall’Ape. Mi dice che le tabelle che dico io le ha viste, ma lui con l’Ape sulla superstrada e dentro la galleria molto lunga, non può andarci. Si, lo so, che non può andarci, perché lo prescrive il codice della strada. Sia che la nuova superstrada sia stata completata in alcuni tratti, sia che risulti una mezza incompiuta interrotta da cantieri fermi da mesi, come è oggi. Mi richiede il perché la strada dove siamo ora sia chiusa, sembra non farsene una ragione. Gli dovrei stare a spiegare che nonostante questa strada l’abbia fatta un Papa nel 1700 per collegare il porto di Ancona alla Flaminia e, di conseguenza, a Roma, ed è stata da quel tempo una strada pubblica, poi nell’Italia Repubblicana, i gestori pubblici, Provincia e Comuni, l’hanno data in uso esclusivo da decenni alle imprese delle cave, che si sono portati via buona parte dei monti di calcare massiccio della Gola della Rossa. E che continueranno a farlo fino al 2048, anno in cui scadono le concessioni estrattive. E che, oggi, per chi vive da queste parti sarebbe una strada fondamentale, per ragioni per primo di sicurezza, ma di riaprirla non interessa proprio a nessuno, perché gli affari veri si fanno con le cosiddette grandi opere; e le cave portano da decenni voti e contributi elettorali. Ma sarebbe troppo lungo raccontargli questo, e molto altro di quello che la politica da decenni combina da queste parti. E lui ha fretta di andare ad Ancona, si vede. Gli ribadisco che la strada è chiusa, e non c’è proprio niente da fare. Allora gli spiego che l’unico modo per andare verso Ancona con l’Ape, è quello di tornare un po’ indietro, e prendere la strada dei monti. Lo vedo sollevato, forse perché non ha idea di cosa lo aspetti. Prende da dentro l’abitacolo un quaderno a quadretti e una penna. E’ pronto per scrivere le indicazioni. Gli dico che deve tornare indietro, fino a dove c’è un grande cantiere stradale. Capisce dov’è, c’è già passato arrivando qui. Da lì deve prendere per Valtreara, le case che si vedono sopra il cantiere. Attraversare l’abitato, e poi dall’unica strada che c’è, iniziare a salire per i tornanti fino a Castelletta. Arrivato su al borgo, iniziare a scendere i tornanti dall’altro versante in direzione Serra S. Quirico. Poi, laggiù, di nuovo arrivato a valle, oltrepassato il fiume e il passaggio a livello, ritrova la vecchia statale, e può arrivare direttamente ad Ancona, senza passare più su superstrade o autostrade. Richiuso il quaderno, mi ringrazia, fiducioso. Non avendo finora dato molto peso alla grafica e alle scritte colorate sull’Ape, gli chiedo se è un turista. Mi risponde che sta facendo un viaggio, e sta andando in Giappone per vedere il mondiale di rugby che ci sarà a settembre. E che è partito da Nizza. Con l’Ape. Allora, ho la sensazione di aver fatto una conoscenza ed un incontro clamorosi. Gli auguro, un po’ disorientato, buon viaggio. Mi ringrazia, ci salutiamo. Mette in moto l’Ape, gira, e riparte. Verso il Giappone. Da Pontechiaradovo di Genga. Tornando verso casa, ripenso a questo incontro; a questo signore mite ed educato. Qui, da queste parti, sono tempi in cui si dibatte, si protesta, ci si indigna, perché la nuova superstrada voluta da decenni dalla politica, non è pronta. La ditta appaltatrice è in concordato bianco, i lavoratori in cassa integrazione o licenziati, i cantieri aperti e abbandonati da mesi, il tracciato che c’è ora è diventato pericolosissimo, con un territorio sventrato nella sua fisionomia paesaggistica e naturalistica. Una situazione che fotografa il fallimento di un’idea di sviluppo e della classe dirigente che l’ha voluto a tutti i costi. In un contesto nazionale, in cui ancora stiamo a discutere su TAV o non TAV, quando la risposta è già storicizzata. E ti arriva lui, questo francese in Ape Piaggio, che da Nizza, senza bisogno di alcuna grande opera, ti dimostra che si può lo stesso arrivare in Giappone. E che, l’unica cosa di cui ha bisogno, lui viaggiatore, come quelli che abitano in questa parte dell’Appennino, è che potesse essere aperta, aggiustata e resa di nuovo pubblica, una strada fatta da un Papa quasi trecento anni fa. E che, soprattutto, un altro mondo è possibile. Quello che chiaramente non vogliono quanti, al bene comune, antepongono la propria saccoccia. Il francese che stasera si imbarcherà dal porto di Ancona con l’Ape per la Croazia, si chiama Jean Jacques Clarasso. Nel retro dell’Ape potete trovare il sito dove seguire il suo viaggio: http://www.rugby-wcjv.fr/. E su Facebook: Rugbyworldcup-jyvais
Ho avuto il privilegio di conoscerlo a Pontechiarodovo di Genga.