mercoledì 2 dicembre 2020

QUESTI FANTASMI

Tutti i monumenti si possono spostare. Prova ne è, tra molte altre, lo spostamento del Tempio di Abu Simbel in Nubia nel 1960, per opera del Presidente socialista egiziano Nasser. Mosso dalla urgenza di non provocarne il totale annegamento, come conseguenza della costruzione, in quella regione, della grande diga sul Nilo.

Quello che è importante infatti, e che deve essere chiaro, motivato e condiviso, sono le ragioni per le quali si spostano. Specie, quando questi non sono patrimonio privato, ma di tutti; e non si trovano in giardini o dimore private, ma in spazi pubblici. Per questo, nelle democrazie, i decisori politici, riguardo al maneggiare le "cose pubbliche", sono chiamati ad attivare percorsi di informazione e partecipazione, tanto più quando la intenzionalità delle scelte e delle decisioni, andrà a produrre effetti permanenti sulla città pubblica.   

La Fontana dei Leoni di Jesi, venne spostata ufficialmente nel 1949 da Piazza della Repubblica, dove era stata originariamente collocata, in Piazza Federico II, dal Sindaco Pacifico Carotti; ragione principale, dicono, per far posto al transito delle corriere e alle auto, simbolo di modernità, e di ripresa economica e sociale dopo la tragedia del fascismo e della Guerra.

Pacifico Carotti era stato il Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale jesino, e primo Sindaco di Jesi democratica e repubblicana. Dirigente autorevolissimo del Partito Repubblicano, e storico anticomunista. Sindaco indimenticato, al quale, a parziale saldo e memoria, è stato dedicato lo stadio comunale. 

Piazza della Repubblica era stata, fino alla Liberazione dal fascismo, il simbolo e luogo di ritrovo della politica e dei raduni del regime. La casa del fascio, sede del partito, era lì a due passi, accanto al Municipio. La Fontana, trovandosi di fatto come una barriera in mezzo alla piazza, per ragioni volumetriche e visuali, metteva in secondo piano lo spazio jesino per eccellenza della cultura e delle libere arti, quale è il Teatro Pergolesi; indirizzando l’attenzione delle persone, istintivamente, anziché verso il palazzo della cultura, in direzione del palazzo del potere politico, ovvero il Comune. Oppure, producendo innaturali torsioni del collo, lo sguardo finiva verso una terrazza laterale, spesso utilizzata dagli oratori politici del regime. Il balcone del Teatro Pergolesi era del tutto marginale, non utilizzabile per orazioni politiche, in quanto ostruito in visibilità, e per una conseguente limitante accessibilità in piazza, dalla Fontana. La piazza si poteva arringare, per ottenere l'effetto "stadio", o da una terrazza privata su un lato, oppure dal balcone del Comune.

Dopo la Liberazione, in Piazza della Repubblica, si tennero i funerali ufficiali dei Martiri jesini della strage fascista di Montecappone del 20 giugno 1944, con un solenne e popolare corteo funebre che accompagnò le bare lungo tutto Corso Matteotti, fino in piazza. Quei ragazzi di Via Roma, erano stati, dopo lo strazio della barbara ed omicida violenza e tortura delle camice nere, seppelliti di nascosto da amici e parenti sotto un fosso in aperta campagna, all’indomani dell’eccidio. Quell'episodio, un funerale pubblico e laico, fu probabilmente il primo utilizzo popolare e civico della piazza dopo che per anni, era stata prevalentemente usata per raduni politici. 

Non sarebbe scandaloso, ne fantasioso ipotizzare che, nello spostare la fontana dalla Piazza della Repubblica a Piazza Federico II, il Sindaco Pacifico Carotti volesse sicuramente, cosa propria e legittima della politica in ogni epoca, proporre una sua narrazione di Jesi. Di una nuova città, libera, democratica e Repubblicana. Che affermasse la centralità della cultura, come carburante per ogni innovazione e progresso socio-economico. E che voleva archiviare quegli anni bui, di dittatura, guerra e lutti. Poi, certamente, anche un suo diverso assetto logistico riguardo la mobilità. Ma questa, considerato che già in piazza stazionavano e circolavano da sempre autoveicoli e corriere dell'epoca, era semplicemente una giustificazione amministrativa. Carotti, come non dargli torto, da cittadino e da pubblico amministratore, desiderava una città che guardasse con speranza e fiducia al futuro. Che non avesse più bisogno di fregiarsi del leggendario titolo di “Regia città”, reintrodotto dal Podestà anni prima, e che Carotti infatti fece cassare con uno dei suoi primi atti amministrativi.

Con lo spostamento della fontana, concettualmente cambiava tutto. Sbucando dal Corso Matteotti, la visuale era adesso completamente assorbita della facciata del Teatro Pergolesi. Il contenitore più importante della cultura aveva una sua nuova, piena centralità e prevalenza architettonica; la stessa Piazza diventava una immaginaria prosecuzione degli spazi interni del teatro, nella sua piena funzionalità relazionale e civile. Il palazzo del Comune, invece, tornava ad avere una percezione secondaria. Il primato della cultura, delle idee e della libera espressione artistica, su quello della politica.

La stessa “cavata” della tradizionale tombola di San Settimio, festa patronale e popolare della città, ogni 22 settembre avviene dal balcone del Teatro Pergolesi, e non da altri spazi, con sottostante una piazza completamente gremita, gioiosa e caciarona.

Non ho mai conosciuto, né incontrato Cassio Morosetti. Eppure ho fatto parte della vita pubblica, politica ed istituzionale della città dal 1994 al 2012. Durante i cinque anni in cui sono stato Assessore alla Cultura, ho avuto il privilegio di incontrare, in ufficio o circostanze pubbliche, tanti jesini e jesine che in vita e per professione, si sono distinti nel campo della cultura, delle arti, dei saperi. Come accade ad ogni amministratore pubblico, diversi hanno sentito la naturalità di chiedere un appuntamento ed un incontro, anche solo per semplici ragioni di cordialità. Ho avuto la fortuna di collaborare con tanti di loro, che si sono messi a servizio della città. Alcuni erano ritornati dopo tanti anni a Jesi, da dove erano partiti da giovani. Cassio Morosetti no. Mai visto. E se fosse venuto da me, come accaduto con tanti altri, lo avrei accolto, ascoltato. Ma mai assecondato su richieste che non avessero niente a che vedere con gli interessi generali, e la pubblica utilità. 

Da diversi anni non abito più a Jesi, pur essendone rimasto residente, elettore, e contribuente della fiscalità locale. Sono anch’io, oramai, assoggettabile alla categoria  dello "jesino lontano", ma pur sempre attento alla vita della propria città. Senza nostalgie, alcun desiderio di futuri ritorni, ma semplicemente come uno che ama il luogo dove il caso l’ha fatto nascere e vivere per oltre quarant’anni.

Di Cassio Morosetti ho letto qualche tempo fa, quando l’attuale Giunta Comunale lo ha presentato alla città, per la sua importante attività filantropica e mecenatistica. Confesso, con ignoranza, che è stata solo in questa occasione che ho scoperto l'esistenza di questo illustre jesino, trapiantatosi da molti anni al Nord. Colpa mia.

Poi, incuriosito, ho cercato di informarmi sulla biografia di questa persona, che torna sulla scena pubblica jesina oramai ultranovantenne.

Cassio Morosetti, in gioventù ha avuto forti aderenze con il fascismo, e nel corso degli anni è diventato un eccellente professionista dell’illustrazione grafica, facendo fortuna lontano da Jesi. Il suo legame a quel regime e a quell’ideologia non è niente di straordinario ed anomalo. Ne condannabile, oggi, tanto più post mortem, in via morale o penale; a questo secondo aspetto ha già pensato Togliatti. Anche perché, in quegli anni oramai lontani, simpatie, consenso ed adesione al fascismo furono comun denominatore culturale e politico della gran parte della popolazione italiana, delle sue èlite e classi dirigenti.

Cassio Morosetti, oramai molto anziano, ha un desiderio personale, legittimo: che la Fontana dei Leoni possa tornare in Piazza della Repubblica, come prima della Liberazione, come quando era ragazzo.

E all’Amministrazione Comunale, a questa in carica dal 2012, e a non altre del passato, fa un regalo inimmaginabile. Alla prima Giunta di destra a Jesi, dopo la nascita della Repubblica Italiana. Per testamento lascia al Comune la somma di due milioni di euro. Oltre all'aver già finanziato in città, con grande merito, diversi progetti sociali ed assistenziali. In quel testamento però, c’è un "però". Una condizione di vincolo assoluto: quei soldi andranno al Comune, che potrà utilizzarli come meglio riterrà, se parte di essi saranno utilizzati per i lavori di trasferimento e riallestimento della Fontana dei Leoni, da piazza Federico II, a Piazza della Repubblica. Ma se il Comune non adempirà a questo obbligo preciso, ed entro una data e corta scadenza temporale, tutta la somma, due milioni di euro, andrà ad opere di beneficienza, ma tutte con sede legale ed attività al di fuori del Comune di Jesi. Se il Comune invece darà seguito alla sua volontà testamentaria, potrà tenersi il resto della cifra non utilizzata per lo spostamento della Fontana (ipotizzabile questo in circa 700.000 €), e spenderli a propria politica discrezionalità.

La Giunta di destra tra due anni scadrà, e si andrà alle elezioni. Il Sindaco non potrà, essendo al secondo mandato, essere rieletto. In questi anni è palese che, come ogni fase politica di tante esperienze in tutto il Paese, l’Amministrazione Comunale abbia voluto dare una sua impronta alla città da sempre amministrata dalla sinistra. Non solo dimostrando si saper gestire meglio la città, i servizi pubblici, l'arredo e il decoro urbano. Ma con un di più ideale. Creando una nuova narrazione di Jesi: culturale, civile, identitaria. Niente di nostalgico di certi tempi, nessun rigurgito ideologico esecrabile. Ma lavorando semplicemente sulla erosione graduale di un sentimento identitario civile, molto legato alla città del Novecento e a quella storia; fatta di battaglie per l'emancipazione, fermento politico e culturale di ogni genere, sviluppo e progresso economico, lavoro e operaismo. Rimettendo le lancette di una auspicata nuova memoria collettiva ai tempi, ed alle tradizioni, dell'arroccamento civico dentro le mura medievali e delle dispute con i paesi del Contado. Approfittando dell’allentamento di relazioni ed esperienze politiche ed associative, e di un tessuto cittadino preso da problemi economici e sociali, ed in ultimo da una pandemia. Lo ha fatto con scelte ben precise negli anni: da un’idea di sicurezza sociale basata sulle telecamere, alla marginalizzazione di alcune esperienze civili e culturali della città, con l’annacquamento delle cerimonie civili legate alla memoria democratica della città, con la rescissione dal rapporto sociale con l’Istituto Cervi, con il tentativo, questo non andato a buon fine, di cassare dallo Statuto Comunale la parola “antifascismo”, e con la reintroduzione del titolo di “Città Regia” nell’araldica e toponomastica ufficiale, annullando dopo oltre vent'anni il lancio dei palloncini per la pace dei bimbi jesini il 6 gennaio, per poi ripristinare l'evento l'anno successivo, dopo che il fatto provocò una mezza sollevazione popolare. Tutto con mitezza, senza proclami e fanfare, ma lentamente ed efficacemente. Mischiando prestazioni da governo tecnico e manageriale, ad una costante e precisa strategia ideale e politica. 

E questa sedazione civile e valoriale, è in buona parte anche riuscita in città. Colpa per primo, della incapacità dei partiti democratici, il PD su tutti, di capire realmente dall'inizio cosa stesse mutando nella città, e di reagire. Ed oggi, forse, il tempo è scaduto. Non tanto perché la città sia cambiata inesorabilmente, ma quanto perché la credibilità di alcune storie ed esperienze politiche non hanno saputo e voluto rigenerarsi, confinandosi in una sorta di trincea minoritaria e autoreferenziale. 

Cassio Morosetti, con il suo fascista, questo si, perché fascista nel metodo, voler imporre la sua volontà (io sono ricco, io voglio riportare la Fontana in Piazza della Repubblica, io pago, io ricatto l’autonomia dell’Amministrazione Comunale, io “me ne frego” di quello che pensano di questa scelta gli altri quarantamila abitanti della città), ha fornito alla Giunta che vuole riscrivere la narrazione identitaria di una città, un assist alla Platini.

E Sindaco e maggioranza politica hanno preso al volo il lancio; inventandosi la campagna di comunicazione adatta, avvalendosi di studiosi pronti a fornire, a pagamento, dottrinali motivazioni urbanistiche, architettoniche e storiche allo spostamento. A respingere ed affossare, a colpo di maggioranza votante in Consiglio Comunale, la richiesta di referendum civico, proposta da due gruppi consiliari di minoranza. Che avrebbe, qualora fosse stata accolta, consentito di far esprimere la cittadinanza, riguardo ad una scelta che la segnerà concretamente per molti decenni a venire (le Fontane non si spostano facilmente ad ogni cambio di Sindaco). Un atto di arroganza politica, di sovranismo, come si usa dire oggi

Con la incredibile situazione, rimanendo nella metafora calcistica, di stoppare la palla avvelenata di Cassio Morosetti, e trovarsi a calciare quasi a porta vuota. In uno stadio vuoto, in una partita a porte chiuse, senza pubblico sugli spalti. 

Per cui da qui a qualche mese, la sensazione degli jesini, e di chiunque arriverà in Piazza della Repubblica, sarà quella di percepire una città in cui i segni  dell’architettura e dell’urbanistica non daranno più prevalenza alla cultura e alla libertà delle arti e delle idee, ma di nuovo al palazzo della politica e del potere; a prescindere da quali potranno essere le connotazioni politiche di chi amministrerà la città. E la piazza della Repubblica, già del Plebiscito, difficilmente potrà essere ancora, come è stata negli ultimi settant’anni, sede di relazione sociale, di eventi culturali e dello spettacolo, sportivi (chi si ricorda il beach volley con tutte le televisioni del mondo? e le feste di popolo ai campioni della scherma?), che la gremiscono di facce e corpi appiccicati, suoni, colori; compresa la tombola di San Settimio.

Una piazza, al contrario museificata, ingessata, ordinata, più sicura e più videosorvegliata.  Il contrario di quello che deve rappresentare la piazza più importante di un paese o di una città: cioè l’agorà della vita e del sentimento di una comunità. Cuore pulsante della polis, dove si mantengono o si creano le relazioni interpersonali.

Una città che non trasmette più una tensione aperta e vitale al futuro, ma che si ripiega prudente e timorosa all’indietro.


 

 

 

giovedì 6 agosto 2020

È TUTTA STESA AL SOLE QUESTA VECCHIA STORIA

“… uscì chiudendo dietro a se la porta verde”. In effetti il portone di casa a Jesi, adesso che ci penso, era verde.

Ma non avevo in mente "Amerigo", la canzone di Guccini, quella mattina nel partire da Jesi per Ancona; quanto, piuttosto, questo me lo ricordo ancora bene, l’incipit de “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino: “a Kim e a tutti gli altri”. Che in testa avevo mutuato in “a Palmina e a tutti gli altri”.

Si, in fondo, il sentimento che mi aveva mosso in quei mesi ad operare in un determinato modo, era quello: una cava su Monte S. Angelo sarebbe stata, ancor prima che una lesione irreversibile al paesaggio e la solita opera speculatrice, un oltraggio alla memoria di Palmina Mazzarini di anni sei, e di tutte le altre vittime della barbarie fascista e nazista, consumatasi su quel monte tra il 3 e il 4 maggio 1944; uno stupro non solo del paesaggio pubblico naturale ai fini del guadagno di privati, ma una nuova violenza anche alle vite di quelle persone. E se parte della politica a cui ero appartenuto per tanti anni, non sentiva come me che quel monte ha una sua sacralità, allora era il sintomo che in quella casa comune, c'era molto che non andava. 

Durante il viaggio verso la sede del Consiglio Provinciale avevo rifatto di conti: i numeri c’erano, e tutto sarebbe dovuto andare secondo quanto concordato con gli altri.

Questa storia, che finisce il 24 maggio 2012 alle ore 18.04 presso l’Aula Magna di una scuola superiore di Ancona, dove da anni si svolgevano la sedute del Consiglio Provinciale, era iniziata diversi mesi prima, a cavallo tra novembre e il dicembre dell’anno prima, presso la sede del PD di Chiaravalle.

In un pomeriggio in cui si era riunito lì il Gruppo Consiliare del PD, partito di maggioranza politica e numerica, di cui dal 2007, inizio delle consigliatura, ero Capogruppo. Durante la riunione, il VicePresidente della Giunta Sagramola, con delega alle attività estrattive, ci aveva buttato nella discussione, un po’ “fuori sacco” come si dice, l’esigenza della Giunta di andare a rivedere nei prossimi tempi, il Programma Provinciale delle Attività Estrattive, approvato nel 2004.

Ciò, nonostante la Sentenza del Consiglio di Stato nel 2011, che aveva dato ragione al ricorso Italia Nostra ed altri, bocciando di fatto l’atto. Ricorso mosso contro i contenuti di quella programmazione, e accoglimento motivato da incompletezza di documentazione ed errori cartografici; ma che adesso, almeno secondo la Giunta, modificando un po’ il Programma e aggiustando le cartografie, si poteva procedere all’avvio del processo di realizzazione delle nuove cave nell’entroterra montano della Provincia di Ancona. Una di queste riguardava il Monte S. Angelo di Arcevia.

In quella circostanza, dopo un incrocio volante di sguardi con alcuni consiglieri, feci subito presente al VicePresidente che, considerati anche i tempi di avvio verso la conclusione di quell’esperienza amministrativa, “non c’erano le condizioni politiche” per aprire un percorso consiliare nel senso da lui prefigurato.

Da quel pomeriggio ufficialmente non si riparlò più di quella questione. Ma intanto le cose andavano avanti. Tra i Consiglieri se ne parlava, come si dice, nei corridoi, ed anche la Giunta era silenziosamente operativa.

Tanto che a fine inverno 2012 la Giunta Provinciale, con la Presidente Casagrande e il VicePresidente, entrambi PD, tornarono alla carica. Il Consiglio Provinciale avrebbe cessato, per scadenza elettorale naturale, la sua funzione a fine maggio e, cosa unica e straordinaria, non se ne sarebbe rieletto uno nuovo.

Ciò perché, qualche tempo, era stata approvata la Riforma Monti di soppressione delle funzioni elettive e rappresentative delle Province. La gestione dell’Ente sarebbe temporaneamente passata ad un Commissario Straordinario, che avrebbe traghettato la chiusura della Provincia, con la redistribuzione di competenze amministrative e personale alla Regione e ai Comuni. Ma questa, è un’altra storia, finita anch’essa diversamente, perché le Province ci sono tutt’oggi; l’unica cosa che è stata soppressa è il diritto democratico dei cittadini di eleggerne direttamente i rappresentanti.

I due vertici della Giunta riproposero la questione ad un’altra riunione del Gruppo Consiliare PD, e poi anche ad una della maggioranza politica di centrosinistra; in entrambe le situazioni, furono con civiltà ed educazione politica invitati a lasciar perdere quell’atto amministrativo, per ragioni di merito e di metodo.

Ricordo in una di queste circostanze un colloquio tra me e i due un po’ teso, in cui assunsero quasi un tono di sfida, affermando che avrebbero portato l’atto in Consiglio Provinciale, comunque. Gli risposi che nei mesi scorsi avevano ascoltato dubbi, perplessità, contrarietà di molti Consiglieri, e dissi loro perentoriamente “non fatelo, chè finisce male”.

Da quel momento si era aperta la sfida politica. Da marzo la Giunta predispose l’atto per il Consiglio, ci furono riunioni di Commissioni Consiliari, a cui partecipano come auditori esterni i soggetti privati interessati ad avere le concessioni; riunioni molto sgradevoli. Nonostante sarebbe stato opportuno, non vennero però mai auditi né Italia Nostra, né l’ANPI Nazionale, che si era anni prima costituito ad audiuvandum al ricorso fatto dall’associazione ambientalista.

In quei mesi, al contrario, io avevo sentito Italia Nostra Marche e l’ANPI, perché non riuscivo a giustificare che una Giunta di centrosinistra, nel momento in cui ritornava su determinati passi, non avesse neanche ipotizzato di prendere in considerazione l’apertura di un confronto con quelle realtà associative democratiche; e che, invece, fosse esclusivamente portatrice delle istanze, seppur legittime, di imprenditori privati.

Il mio interlocutore di Italia Nostra divenne in quei mesi Gianfranco Marcellini, arceviese e coordinatore del Comitato di cittadini ed associazioni contro la cava a Monte S. Angelo. Ci vedemmo più volte, conobbi l’impegno del Comitato, e ne compresi e condivisi le ragioni.

Ragioni di tutela ambientale e di valorizzazione democratica, memorialistica e storica. Ma anche economiche, in una territorio che non aveva più bisogno di quel tipo di attività di rapina e depredazione, perché stava provando a costruire un nuovo modello di economia, molto più sostenibile, e legato alla valorizzazione del patrimonio paesaggistico ed enogastronomico. Lasciai perdere di interloquire con il Comune di Arcevia, non aveva competenze dirette, e già a livello politico, lì era arrivata la stagione del "si, ma anche". Per l’ANPI mi rivolsi al Nazionale. Avendo percepito una certa timidezza di quello locale, ed essendo il Presidente Regionale Nazzareno Re gravemente malato, pur essendo stato lui l’ispiratore anni prima dei ricorsi giuridici.

Scrissi a fine aprile una email al Presidente Nazionale, Sen. Carlo Smuraglia, partigiano. Non lo conoscevo personalmente. Mettendolo a conoscenza di quello che stava accadendo in Provincia di Ancona, delle molte perplessità e contrarietà politiche, della volontà della Giunta Provinciale, e chiedendo indicazioni sul da farsi.

Carlo Smuraglia mi rispose con una lettera postale speditami a casa con francobollo, datata 12 maggio 2012. In quella lettera, che lui mi autorizzò, qualora avessi ritenuto, a rendere pubblica, c’era un passaggio molto chiaro: “(…) A mio parere, quel progetto deve essere avversato in tutti i modi consentiti, come del resto è accaduto nel passato (…)”. Il “deve”, è un indicativo presente. Usato da un militare, un Comandante Partigiano, diventa un’indicazione impegnativa.

Cominciai a ragionare su cosa potessi fare io, per quello che era il mio ruolo in quella vicenda, per rendere operativo quel “deve”. Mi recai in quelle settimane anche a Roma, all’ANPI, dove incontrai Marisa Ferro, che conosceva tutta la questione, avendola seguita anni prima insieme a Nazzareno Re.

Nel mentre, l’ultima seduta del Consiglio Provinciale, era stata fissata per il 24 maggio, anniversario del Piave. La Giunta, con un altro eccesso di provocazione, aveva fatto iscrivere all’Ordine del Giorno, nonostante il clima politico, la delibera di competenza del Consiglio Provinciale, tesa ad avviare le procedure per aprire, tra altre, la cava a Monte S. Angelo.

Si, perché c’è poi da dire che la Giunta non aveva competenza decisionale, e di conseguenza non c’era una Delibera di Giunta da ratificare, ma solo delibera di Consiglio; di conseguenza, ogni responsabilità politica, amministrativa, e giuridica, era rimessa al voto dei Consiglieri Provinciali.

Avevo in quei giorni pensato a quale fosse il modo migliore per affossare quell’atto. Ritenni il metodo del sabotaggio, il migliore. Il voto contrario sarebbe stato tombale, ma più difficile da proporre agli altri Consiglieri, intimoriti magari di esporsi ai potenziali, seppur alquanto improbabili, ricorsi dei cavatori. Ma altrettanto tombale e conclusivo, sarebbe stato far mancare il numero legale al momento del voto, e far sospendere e terminare la seduta del Consiglio; che, essendo l’ultima in assoluto, non avrebbe avuto riconvocazioni.

Così convinsi, senza neanche molta insistenza, il numero di Consiglieri Provinciali necessari (la metà più uno) ad abbandonare l’Aula al momento del voto; la maggioranza, fatta eccezione per alcuni consiglieri del PD, era tutta con me. In questo, oramai tra me e il PD era iniziato un silenzioso percorso di distanziamento politico. Avevo deciso da tempo, quando ancora si pensava che ci sarebbero state le elezioni provinciali, di non candidarmi più. Questo vicenda e il suo tema, sono stati “il lungo addio”.

All’allora segretario provinciale del PD Lodolini, giovane e in carriera, non interessava mettersi in mezzo in maniera divisiva su questa faccenda; non si schierò, non cercò neanche di ricomporre e mediare una frattura evidente e profonda tra il Gruppo Consiliare con la Presidente e il VicePresidente della Provincia.

Lasciò consumarsi lo scontro, da cui sapeva che alcuni protagonisti sarebbero usciti di scena o quantomeno indeboliti rispetto a mire future; e ciò di conseguenza significava che per lui ci sarebbe stato più spazio. E questo atteggiamento, fu il più nitido modo di schierarsi e di svolgere una funzione politica.

Oltre i Consiglieri di maggioranza poi, ottenni, nei giorni precedenti, la garanzia, a certezza dei numeri, che se anche non in prima battuta, alcuni Consiglieri di opposizione sarebbero venuti via dall’Aula. I conti portavano.

E fu così, che quel giorno, l’ultimo Consiglio Provinciale di Ancona, si svolse in un’atmosfera surreale, di una finta normalità e di una malcelata tensione; perché la Giunta Provinciale sospettava che qualcosa sarebbe successo, ma non immaginava se poi alla fine sarebbe successo davvero, e soprattutto cosa.

E arrivò metà pomeriggio, in cui il Presidente del Consiglio Provinciale annunciò la trattazione dell’ultimo argomento all’Ordine del Giorno dell’ultima seduta dell’ultimo Consiglio Provinciale di Ancona: “PROGRAMMA PROVINCIALE ATTIVITA' ESTRATTIVE (P.P.A.E.) - PRESA D'ATTO SENTENZA CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE (SEZIONE QUINTA) N. 4557/2011 - INDIRIZZI PER IL COMPLETAMENTO E L'ATTUAZIONE DELLA PROGRAMMAZIONE”.

E, a quel punto, in 13 Consiglieri (2, per essere sicuri, non erano venuti proprio alla seduta del Consiglio), compostamente e silenziosamente, ci alzammo e uscimmo dall’aula.

Ognuno partì, fuori dall’Aula per tornarsene a casa o dove credeva; non ci trovammo da nessun altra parte, non ci fu nessun crocchio di cospiratori. Io andai in macchina a S. Ciriaco, e mi sedetti su una delle panchine da dove si vede dall’alto il Porto e il mare. In aula, intanto, si verificava più volte il numero legale con appelli nominali; dopo l’avvio di un embrione di trattativa dell’argomento, si alzarono e uscirono il Consigliere di opposizione e del Gruppo Misto che avrebbero fatto mancare per sempre il numero legale.

Mi arrivò, mentre il sole stava prendendo la discesa, la telefonata che mi informava che il numero legale in Aula non c’era più, e che il Presidente del Consiglio aveva dichiarato chiusa la seduta. E con essa, l’intero mandato consiliare dal 2007 al 2012. Mi accesi un sigaro, e pensai che la missione poteva considerarsi compiuta, e rimasi lassù a guardarmi il tramonto.

Visto che quello che era successo il 24 maggio, seppur sottaciuto pubblicamente dai vertici del PD, era una politicamente una roba grossa, considerato come si fosse concluso l’ultimo consiglio provinciale, cosa che stava facendo più giri, qualche giorno dopo scrissi una lettera pubblicata da un quotidiano online regionale.

In cui, il 9 giugno 2012 nel fare una riflessione politica molto generale su quel Consiglio Provinciale, tra altro scrivevo:

(…) Ora che il Consiglio Provinciale è stato sciolto, la politica ha due strade. O continuare a pensare che Monte S. Angelo ad Arcevia possa essere un sito dove aprire una cava, oppure che, per la quello che rappresenta nella memoria democratica ed antifascista della Regione e del Paese, possa divenire un luogo legato ad un’idea diversa di economia territoriale, che muove dal valore del paesaggio e delle infrastrutture della cultura, e cogliere nuove opportunità per un nuovo modello di sviluppo. (…) Istituire a Monte S. Angelo un Parco Storico della Memoria, significherebbe ampliare maggiormente le opportunità del territorio, e tutelarne per sempre i valori e la storia.(...)”

La questione poi proseguì con atti monocratici, politicamente discutibili, della Presidente della Provincia che era divenuta Commissario Straordinario dell’Ente, sempre impugnati al TAR e Consiglio di Stato da ANPI e Italia Nostra, con sentenze alternate.

Il 5 maggio 2013 l’allora Presidente della Camera on. Laura Boldrini, fu invitata ad Arcevia per l’Anniversario dell’Eccidio di Monte S. Angelo. Nel suo discorso ufficiale invitò con nettezza ad archiviare definitivamente la prospettiva di una cava a Monte S. Angelo e a farne invece un Parco della Memoria. Quel discorso provocò molti mal di pancia nelle Autorità locali presenti in piazza, nei dirigenti del PD, ma anche una lettera della Provincia di Ancona (prot. n. 69466 – 07.05.2013) alla Presidente della Camera, in cui si evidenziava una certa sorpresa, per essersi interessata così specificamente di una questione così localistica.

Il 18 giugno 2013 il Consiglio Regionale delle Marche approvò la Legge 121, in cui veniva prefigurata l’istituzione di luoghi della Memoria. Un primo passo avanti.

Il 28 luglio scorso, otto anni dopo quel 2012, il Consiglio Regionale delle Marche ha approvato la legge 172: “DISPOSIZIONI PER LA VALORIZZAZIONE DEI LUOGHI DELLA LOTTA PARTIGIANA E DELL'ANTIFASCISMO DENOMINATI PARCHI DELLA MEMORIA STORICA DELLA RESISTENZA”, in cui c’è “l’area di Monte Sant’Angelo del Comune di Arcevia teatro delle battaglie per la liberazione dal nazifascismo e della strage nazifascista compiuta il 4 maggio 1944”.

Questo ultimo atto normativo, considerato anche l’articolato generale dello stesso, ritengo possa preservare per molto tempo ancora Monte S. Angelo dalla ferocia del capitalismo. A me ha consentito di raccontare, essendo passato il giusto tempo, una storia che anni fa è stata davvero, in quel 24 maggio, la mia personale linea del Piave. Chiaramente, come si dice la guardia non va mai abbassata; con il nuovo Consiglio Regionale, sia che vinca il piddì più altri, che la destra, può sempre succedere di tutto. 

 

Nota dell’autore: alcuni personaggi di questa storia, purtroppo, non ci sono più: Marco Grandi, Consigliere Provinciale di Forza Italia; Nazzareno Re, Presidente ANPI MARCHE e Patrizia Casagrande, Presidente della Provincia di Ancona. Con Patrizia ho avuto sempre un rapporto di amicizia e di affetto, confermato anche dopo quell’esperienza di Consiglio Provinciale, nelle poche occasioni in cui ci siamo rivisti. Sul piano politico le differenze sono stata molte, così come ci sono state molte convergenze; gli scontri anche, sempre a viso aperto ma con lealtà e rispetto personale. Ma quello, era un altro modo di vivere la politica. Che non esiste più da anni. E per questo che è stato giusto smettere e a starne lontani.

 

Note – documenti citati

1) atto di Consiglio Provinciale di Ancona n. 65 del 24.05.2012

2) atto di Consiglio Provinciale di Ancona n. 88 del 26.07.2004

3) Legge Regionale Marche n. 121 del 18.06.2013

4) Legge Regionale Marche n. 172 del 28.07.2020

5) https://www.viveresenigallia.it/2012/06/11/arcevia-animali-monte-s-angelo-unidea-di-cambiamento/356446/