Tutti i monumenti si possono spostare. Prova ne è, tra molte altre, lo spostamento del Tempio di Abu Simbel in Nubia nel 1960, per opera del Presidente socialista egiziano Nasser. Mosso dalla urgenza di non provocarne il totale annegamento, come conseguenza della costruzione, in quella regione, della grande diga sul Nilo.
Quello che è
importante infatti, e che deve essere chiaro, motivato e condiviso, sono le ragioni per
le quali si spostano. Specie, quando questi non sono patrimonio privato, ma di tutti; e non si trovano in giardini o dimore private, ma in spazi pubblici. Per questo, nelle democrazie, i decisori politici, riguardo al maneggiare le "cose pubbliche", sono chiamati ad attivare percorsi di informazione e partecipazione, tanto più quando la intenzionalità delle scelte e delle decisioni, andrà a produrre effetti permanenti sulla città pubblica.
La Fontana dei Leoni
di Jesi, venne spostata ufficialmente nel 1949 da Piazza della Repubblica, dove era stata originariamente collocata, in Piazza Federico II, dal Sindaco Pacifico
Carotti; ragione principale, dicono, per far posto al transito delle corriere e
alle auto, simbolo di modernità, e di ripresa economica e sociale dopo la
tragedia del fascismo e della Guerra.
Pacifico Carotti era
stato il Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale jesino, e primo Sindaco di
Jesi democratica e repubblicana. Dirigente autorevolissimo del Partito
Repubblicano, e storico anticomunista. Sindaco indimenticato, al quale, a parziale saldo e memoria, è stato dedicato lo stadio comunale.
Piazza della
Repubblica era stata, fino alla Liberazione dal fascismo, il simbolo e luogo di
ritrovo della politica e dei raduni del regime. La casa del fascio, sede del partito, era lì a due passi, accanto al Municipio. La Fontana, trovandosi di fatto
come una barriera in mezzo alla piazza, per ragioni volumetriche e visuali,
metteva in secondo piano lo spazio jesino per eccellenza della cultura e delle
libere arti, quale è il Teatro Pergolesi; indirizzando l’attenzione delle
persone, istintivamente, anziché verso il palazzo della cultura, in direzione del palazzo del potere politico, ovvero il Comune. Oppure, producendo innaturali torsioni del
collo, lo sguardo finiva verso una terrazza laterale, spesso utilizzata dagli oratori politici
del regime. Il balcone del Teatro Pergolesi era del tutto marginale, non
utilizzabile per orazioni politiche, in quanto ostruito in visibilità, e per
una conseguente limitante accessibilità in piazza, dalla Fontana. La piazza si poteva arringare, per ottenere l'effetto "stadio", o da una terrazza privata su un lato, oppure dal balcone del Comune.
Dopo la Liberazione, in Piazza della Repubblica, si tennero i funerali ufficiali dei Martiri jesini della strage fascista di Montecappone del 20 giugno 1944, con un solenne e popolare corteo funebre che accompagnò le bare lungo tutto Corso Matteotti, fino in piazza. Quei ragazzi di Via Roma, erano stati, dopo lo strazio della barbara ed omicida violenza e tortura delle camice nere, seppelliti di nascosto da amici e parenti sotto un fosso in aperta campagna, all’indomani dell’eccidio. Quell'episodio, un funerale pubblico e laico, fu probabilmente il primo utilizzo popolare e civico della piazza dopo che per anni, era stata prevalentemente usata per raduni politici.
Non sarebbe scandaloso, ne fantasioso ipotizzare che, nello spostare la
fontana dalla Piazza della Repubblica a Piazza Federico II, il Sindaco Pacifico Carotti volesse sicuramente, cosa propria e
legittima della politica in ogni epoca, proporre una sua narrazione
di Jesi. Di una nuova città, libera, democratica e Repubblicana. Che affermasse la centralità della cultura, come carburante per ogni innovazione e progresso socio-economico. E che voleva archiviare quegli anni bui, di dittatura, guerra e lutti. Poi,
certamente, anche un suo diverso assetto logistico riguardo la mobilità. Ma questa, considerato che già in piazza stazionavano e circolavano da sempre autoveicoli e corriere dell'epoca, era semplicemente una giustificazione amministrativa. Carotti, come non dargli torto, da cittadino e da pubblico amministratore, desiderava una
città che guardasse con speranza e fiducia al futuro. Che non avesse più bisogno
di fregiarsi del leggendario titolo di “Regia città”, reintrodotto dal Podestà
anni prima, e che Carotti infatti fece cassare con uno dei suoi primi atti
amministrativi.
Con lo spostamento
della fontana, concettualmente cambiava tutto. Sbucando dal Corso Matteotti, la
visuale era adesso completamente assorbita della facciata del Teatro Pergolesi.
Il contenitore più importante della cultura aveva una sua nuova, piena
centralità e prevalenza architettonica; la stessa Piazza diventava una immaginaria prosecuzione degli spazi interni del teatro, nella sua piena funzionalità relazionale e civile. Il
palazzo del Comune, invece, tornava ad avere una percezione secondaria. Il primato
della cultura, delle idee e della libera espressione artistica, su quello della
politica.
La stessa “cavata”
della tradizionale tombola di San Settimio, festa patronale e popolare della
città, ogni 22 settembre avviene dal balcone del Teatro Pergolesi, e non da
altri spazi, con sottostante una piazza completamente gremita, gioiosa e caciarona.
Non ho mai
conosciuto, né incontrato Cassio Morosetti. Eppure ho fatto parte della vita
pubblica, politica ed istituzionale della città dal 1994 al 2012. Durante i
cinque anni in cui sono stato Assessore alla Cultura, ho avuto il privilegio di incontrare,
in ufficio o circostanze pubbliche, tanti jesini e jesine che in vita e per professione, si sono distinti nel campo della cultura, delle arti, dei saperi. Come accade ad ogni amministratore pubblico, diversi hanno sentito la naturalità di chiedere un appuntamento ed un incontro, anche solo per semplici ragioni di cordialità. Ho avuto la fortuna di collaborare con tanti di loro, che si sono messi a
servizio della città. Alcuni erano ritornati dopo tanti anni a Jesi, da dove erano
partiti da giovani. Cassio Morosetti no. Mai visto. E se fosse venuto da me, come accaduto con tanti altri, lo avrei accolto, ascoltato. Ma mai assecondato su richieste che non avessero niente a che vedere con gli interessi generali, e la pubblica utilità.
Da diversi anni non
abito più a Jesi, pur essendone rimasto residente, elettore, e contribuente della
fiscalità locale. Sono anch’io, oramai, assoggettabile alla categoria dello "jesino lontano", ma pur
sempre attento alla vita della propria città. Senza nostalgie, alcun desiderio di
futuri ritorni, ma semplicemente come uno che ama il luogo dove il caso l’ha
fatto nascere e vivere per oltre quarant’anni.
Di Cassio
Morosetti ho letto qualche tempo fa, quando l’attuale Giunta Comunale lo ha
presentato alla città, per la sua importante attività filantropica e
mecenatistica. Confesso, con ignoranza, che è stata solo in questa occasione
che ho scoperto l'esistenza di questo illustre jesino, trapiantatosi da molti anni al Nord. Colpa mia.
Poi, incuriosito, ho
cercato di informarmi sulla biografia di questa persona, che torna sulla scena
pubblica jesina oramai ultranovantenne.
Cassio Morosetti, in
gioventù ha avuto forti aderenze con il fascismo, e nel corso degli anni è
diventato un eccellente professionista dell’illustrazione grafica, facendo
fortuna lontano da Jesi. Il suo legame a quel regime e a quell’ideologia non è niente di
straordinario ed anomalo. Ne condannabile, oggi, tanto più post mortem, in via morale o penale; a questo
secondo aspetto ha già pensato Togliatti. Anche perché, in quegli anni oramai
lontani, simpatie, consenso ed adesione al fascismo furono comun denominatore
culturale e politico della gran parte della popolazione italiana, delle sue èlite e classi dirigenti.
Cassio Morosetti,
oramai molto anziano, ha un desiderio personale, legittimo: che la Fontana dei
Leoni possa tornare in Piazza della Repubblica, come prima della Liberazione,
come quando era ragazzo.
E all’Amministrazione
Comunale, a questa in carica dal 2012, e a non altre del passato, fa un regalo
inimmaginabile. Alla prima Giunta di destra a Jesi, dopo la nascita della
Repubblica Italiana. Per testamento lascia al Comune la somma di due milioni di
euro. Oltre all'aver già finanziato in città, con grande merito, diversi
progetti sociali ed assistenziali. In quel testamento però, c’è un "però". Una
condizione di vincolo assoluto: quei soldi andranno al Comune, che potrà
utilizzarli come meglio riterrà, se parte di essi saranno utilizzati per i
lavori di trasferimento e riallestimento della Fontana dei Leoni, da piazza
Federico II, a Piazza della Repubblica. Ma se il Comune non adempirà a questo
obbligo preciso, ed entro una data e corta scadenza temporale, tutta la somma,
due milioni di euro, andrà ad opere di beneficienza, ma tutte con sede legale
ed attività al di fuori del Comune di Jesi. Se il Comune invece darà seguito alla sua
volontà testamentaria, potrà tenersi il resto della cifra non utilizzata per lo
spostamento della Fontana (ipotizzabile questo in circa 700.000 €), e spenderli
a propria politica discrezionalità.
La Giunta di destra tra
due anni scadrà, e si andrà alle elezioni. Il Sindaco non potrà, essendo al
secondo mandato, essere rieletto. In questi anni è palese che, come ogni fase
politica di tante esperienze in tutto il Paese, l’Amministrazione Comunale abbia voluto dare una
sua impronta alla città da sempre amministrata dalla sinistra. Non solo dimostrando si saper gestire meglio la città, i servizi pubblici, l'arredo e il decoro urbano. Ma con un di più ideale. Creando una
nuova narrazione di Jesi: culturale, civile, identitaria. Niente di nostalgico di certi tempi, nessun rigurgito ideologico esecrabile. Ma lavorando semplicemente sulla erosione graduale di un sentimento identitario civile, molto legato alla città del Novecento e a quella storia; fatta di battaglie per l'emancipazione, fermento politico e culturale di ogni genere, sviluppo e progresso economico, lavoro e operaismo. Rimettendo le lancette di una auspicata nuova memoria collettiva ai tempi, ed alle tradizioni, dell'arroccamento civico dentro le mura medievali e delle dispute con i paesi del Contado. Approfittando
dell’allentamento di relazioni ed esperienze politiche ed associative, e di un
tessuto cittadino preso da problemi economici e sociali, ed in ultimo da una
pandemia. Lo ha fatto con scelte ben precise negli anni: da un’idea di
sicurezza sociale basata sulle telecamere, alla marginalizzazione di alcune
esperienze civili e culturali della città, con l’annacquamento delle cerimonie
civili legate alla memoria democratica della città, con la rescissione dal
rapporto sociale con l’Istituto Cervi, con il tentativo, questo non andato a
buon fine, di cassare dallo Statuto Comunale la parola “antifascismo”, e con la
reintroduzione del titolo di “Città Regia” nell’araldica e toponomastica
ufficiale, annullando dopo oltre vent'anni il lancio dei palloncini per la pace dei bimbi jesini il 6 gennaio, per poi ripristinare l'evento l'anno successivo, dopo che il fatto provocò una mezza sollevazione popolare. Tutto con mitezza, senza proclami e fanfare, ma lentamente ed efficacemente. Mischiando prestazioni da governo tecnico e manageriale, ad una costante e precisa strategia ideale e politica.
E questa sedazione
civile e valoriale, è in buona parte anche riuscita in città. Colpa per primo,
della incapacità dei partiti democratici, il PD su tutti, di capire realmente dall'inizio cosa stesse
mutando nella città, e di reagire. Ed oggi, forse, il tempo è scaduto. Non tanto perché la città sia cambiata inesorabilmente, ma quanto perché la credibilità di alcune storie ed esperienze politiche non hanno saputo e voluto rigenerarsi, confinandosi in una sorta di trincea minoritaria e autoreferenziale.
Cassio Morosetti, con
il suo fascista, questo si, perché fascista nel metodo, voler imporre la sua volontà
(io sono ricco, io voglio riportare la Fontana in Piazza della Repubblica, io
pago, io ricatto l’autonomia dell’Amministrazione Comunale, io “me ne frego” di
quello che pensano di questa scelta gli altri quarantamila abitanti della
città), ha fornito alla Giunta che vuole riscrivere la narrazione identitaria
di una città, un assist alla Platini.
E Sindaco e
maggioranza politica hanno preso al volo il lancio; inventandosi la campagna di
comunicazione adatta, avvalendosi di studiosi pronti a fornire, a pagamento,
dottrinali motivazioni urbanistiche, architettoniche e storiche allo
spostamento. A respingere ed affossare, a colpo di maggioranza votante in
Consiglio Comunale, la richiesta di referendum civico, proposta da due gruppi
consiliari di minoranza. Che avrebbe, qualora fosse stata accolta, consentito di far
esprimere la cittadinanza, riguardo ad una scelta che la segnerà concretamente per molti
decenni a venire (le Fontane non si spostano facilmente ad ogni cambio di
Sindaco). Un atto di arroganza politica, di sovranismo, come si usa dire oggi
Con la incredibile
situazione, rimanendo nella metafora calcistica, di stoppare la palla
avvelenata di Cassio Morosetti, e trovarsi a calciare quasi a porta vuota. In uno stadio vuoto, in una partita a porte chiuse, senza pubblico sugli spalti.
Per cui da qui a
qualche mese, la sensazione degli jesini, e di chiunque arriverà in Piazza
della Repubblica, sarà quella di percepire una città in cui i segni dell’architettura e dell’urbanistica non daranno più prevalenza alla cultura e alla libertà delle arti
e delle idee, ma di nuovo al palazzo della politica e del potere; a prescindere
da quali potranno essere le connotazioni politiche di chi amministrerà la
città. E la piazza della Repubblica, già del Plebiscito, difficilmente potrà essere ancora, come è stata negli
ultimi settant’anni, sede di relazione sociale, di eventi culturali e dello
spettacolo, sportivi (chi si ricorda il beach volley con tutte le televisioni del mondo? e le feste di popolo ai campioni della scherma?), che la gremiscono di facce e corpi appiccicati, suoni,
colori; compresa la tombola di San Settimio.
Una piazza, al contrario museificata, ingessata, ordinata, più sicura e più videosorvegliata. Il contrario di quello che deve rappresentare la piazza più importante di un paese o di una città: cioè l’agorà della vita e del sentimento di una comunità. Cuore pulsante della polis, dove si mantengono o si creano le relazioni interpersonali.
Una città che non trasmette più una tensione aperta e vitale al futuro, ma che si ripiega prudente e timorosa all’indietro.