lunedì 18 aprile 2016

I REFERENDUM PICCINI PICCIO'

Domenica scorsa si sono svolti, contestualmente al referendum nazionale sulle trivelle, due mini referendum locali per far pronunciare le comunità locali sulla proposta di fusione del proprio Comune con un Comune più grande limitrofo (tecnicamente definita fusione per incorporazione). Due piccole comunità dell’entroterra marchigiano, una con neanche mille abitanti, l’altra con poco più di duemila. Il primo dato significativo è che la partecipazione al quesito referendario locale nei due piccoli centri è stato sensibilmente più ampio della partecipazione la voto sul referendum nazionale. Il secondo dato è che in entrambi i centri il NO alla fusione per incorporazione ha visto una stragrande maggioranza dei consensi. Quindi la maggioranza degli abitanti di quei piccoli Comuni non vuole essere fusa. Si dirà: hanno prevalso resistenze ingiustificate, localismi e particolarismi; non è bastata neanche la lusinga della seduzione economica per quei cittadini, due milioni di euro per dieci anni di trasferimenti statali in più per il bilancio del  neo Comune risultante dalla fusione. Forse è il caso però, oltre che colpevolizzare gli istinti localistici e conservatori di quelle persone, di fare anche una riflessione sul senso della oramai diffusa strategia politica del principio amministrativo della fusione municipale. Premesso che è vero che i Comuni, specialmente quelli più piccoli, stanno in grande difficoltà economica ed organizzativa da anni. Non ci sono più risorse sufficienti per garantire una normalità dei servizi erogati, non ci sono più risorse umane disponibili per gestire il funzionamento della macchina amministrativa. Ma è un problema magicamente spuntato da qualche tempo, o invece magari è il frutto di un lento logoramento del valore delle Autonomie Locali da parte di politiche statali, che hanno perseguito scientemente da anni un’aggressione per primo al sistema democratico delle Istituzioni locali, ed insieme alla loro capacità di operatività, fino a produrre il crack di una rete di sussidiarietà orizzontale nei territori? Spesso in nome di parole d’ordine qualunquiste e populiste, la casta, gli spechi, le inefficienze. Che negli anni  problemi di questo genere non se ne siano verificati, sarebbe negare delle evidenze; ma da qui la generale colpevolizzazione di tutto e tutti, ha prodotto solo l’indebolimento e lo screditamento del livello istituzionale più prossimo ai cittadini, e di conseguenza più riconosciuto. Che ha contribuito a screditare generalmente la politica. Una politica incapace, nel suo insieme, di elaborare una vera riforma dell’ordinamento statale a settan’anni dalla Costituzione repubblicana; che sapesse rivedere e rimodulare i diversi livelli di governo in maniera equilibrata rispetto alle condizioni della società, dell’economia, delle corporazioni, che non sono più quelle di quando decenni fa venne disegnato il quadro istituzionale del Paese. Ma che invece, al contrario, ha corso dietro in maniera disorganica al vento delle stagioni: prima il problema avvertito dall’opinione pubblica erano le Province, e quindi via le Province. Poi il bicameralismo e l’eccessivo numero dei parlamentari (il numero, si badi bene, non il costo, che è rimasto pressoché invariato), e quindi largo alla riforma della Costituzione di questi mesi. Ora, da qualche tempo, il problema sono i Comuni che non ce la fanno più, e quindi via alle fusioni. In tutto questo inalterato il livello regionale, che negli anni ha assunto ruolo e proporzioni elefantiache. In tutto questo solo interventi a spot ed una tantum, in cui non si intravede nessun disegno organico di un nuovo modello statale. L’unico obiettivo finora raggiunto è che si è solamente ridotto il livello di democrazia: le province ci sono ma non si eleggono più direttamente i rappresentanti; il Senato ci sarà ancora, ma di fatto sarà non elettivo e vi finiranno eletti già in altri livelli, regioni e comuni, scelti dai partiti con il criterio della fedeltà; i Comuni già da anni hanno visto tagliarsi il numero dei Consiglieri Comunali e delle Giunte, che di fatto erano e sono dei volontari della politica. Ed ora l’assalto finale da parte di classi dirigenti miopi ed ignoranti (per essere educati): la fusione dei piccoli Comuni. Meno Sindaci, che nei piccoli Comuni sono un presidio della democrazia, e chi lo fa il più delle volte anziché guadagnarci, come si malpensa, ci rimette di proprio. E la creazione di neologismi nel chiamare le nuove municipalità, che niente hanno a che vedere con storia, radici ed identità locali. E lì davanti, sempre le sopracitate classi dirigenti, a brandire la ricompensa: vi diamo più soldi. Come se la storia, le radici, l’identità di una comunità si potessero comprare. Ben altra cosa sarebbe stimolare alla pratica di messa in comune di servizi e risorse umane tra comunità, senza andare ad indebolire ed annullare la rappresentanza democratica ed indentitaria. Tra l’altro alle scelte di fusione si arriva sempre con percorsi informativi, partecipativi e di formazione del consenso, senza alcuna pratica comunitaria, ma pensati ed imposti dall’alto da qualche raìs di partito territoriale. E allora quando i cittadini possono esprimersi liberamente e senza condizionamenti e ricatti, questi piccoli pretoriani di partito di provincia li mandano a cagare. Come è successo nell’entroterra marchigiano domenica, e come è auspicabile che succeda ancora. Perché gli abitanti di una piccola comunità ci tengono ai propri valori, alle proprie radici e, forse, anche alla democrazia molto di più di quello che si pensa. E le piccole comunità, specie nelle aree interne, hanno bisogno dalla politica di ben altre attenzioni che non sia qualche pugno di euro; hanno bisogno di scelte e politiche nazionali che riguardano la qualità della vita, dei servizi, del paesaggio, delle quali, al di là dei soliti slogan e gettonati convegni, non se ne intravede alcuna concretezza. Hanno bisogno di scelte d’amore da parte della politica. Di una visione e di una passione che non c’è più. Ci sono solo ambizioni personali e tanti piccoli capetti, emuli al ribasso del capo di turno più grande. E allora viva le piccole comunità e i piccoli Comuni, presìdi di democrazia e di una moderna resistenza  (con la r minuscola, sia ben chiaro) civile.

sabato 9 aprile 2016

LA BORGHESIA MASSONA

“A Jesi c’è la borghesia massona”, così se ne esce un amico fabrianese durante una scambio di opinioni in merito ad un progetto documentaristico sulle vicende della realtà della Città della Carta degli ultimi anni, dal titolo “La fine dell’illusione” (lo trovate in rete, www.lafinedellillusione.it). Un progetto multimediale interessante, che fa lo sforzo di analizzare, soprattutto attraverso testimonianze, ciò che è successo non solo nel tessuto economico della città, ma anche in quello sociale e civile. Con alcuni limiti, a mio parere, dovuti probabilmente, almeno immagino, all’esigenza di confezionare un prodotto che avesse l’obiettivo di analizzare solamente alcuni aspetti predominanti. Due i limiti principali: la narrazione testimoniale è circoscritta solo a rappresentanti, passati ed attuali, delle Istituzioni e della politica, e ai lavoratori del settore e dell’indotto manifatturiero meccanico. Proprio per questo, lo spaccato che emerge della città è di conseguenza parziale; manca il punto di vista degli imprenditori che sono stati protagonisti per decenni della storia economica della città, i cosiddetti padroni. Avranno qualcosa almeno da dire, se non a dover rendere conto, sullo stato in cui si trova, oramai da quasi un decennio, la città? E manca una fascia sociale, professionale e culturale, fondamentale di una comunità, la cosiddetta borghesia. Forse perché una borghesia, come storicamente intesa, a Fabriano non c’è mai stata. E mancano le donne; o meglio, c’è un’operaia intervistata, ma il ritratto che emerge della figura femminile, è che a Fabriano la donna è quasi esclusivamente intesa come sposa e madre. E invece, per quello che conosco di quella realtà, ci sono storie ed esperienze femminili significative, nel mondo delle professioni, della cultura e del sociale; ma la storia di quella città preferisce raccontarsi la donna come la moglie e casalinga, che mentre il marito produce, fa impresa e business, si ritrova al  caffè del centro con le amiche per il the. E nella mia chiacchierata con l’amico fabrianese, ponevo a confronto una storia che penso di conoscere un poco, quelle jesina, dove, pur anche lì con limiti e problemi, c’è un tessuto cittadino che ha attraversato, tenendo, anche anni difficili, grazie ad un equilibrio e ad un reciproco rispetto ed autonomia di ruolo tra poteri e strati sociali. La politica ha fatto la politica, l’impresa ha fatto l’impresa, la Chiesa ha fatto la Chiesa. Mai che a qualcuno fosse venuto pensato di accentrare o mischiare ruoli e funzioni, o esercitare indebite ingerenze; e quando a qualcuno è venuto in mente, il pensiero è sempre durato molto poco. E questo anche perché negli anni, la città è riuscita a far vivere, crescere ed interagire tra loro, una fiera e forte classe operaia, una borghesia laica e cattolica, conservatrice e progressista, e storie ed esperienze imprenditoriali eterogenee e plurali. Ed in cui anche le donne, hanno sempre avuto autonomia, ruolo ed identità proprie, e mai riflesse. Questo ha significato per la città negli anni, dialettica, confronto, scontro, contaminazione, competizione, rispetto reciproco, e per questo vitalità e forza nell’attraversare le stagioni. A Fabriano no. In quella realtà, quasi per un secolo, potere politico, imprenditoriale, economico, sono diventati via via sempre più un unicum, con il beneplacito della sfera ecclesiale. Questo, in tempi di vento in poppa, ha distribuito benessere per tutti, per alcuni ricchezza consistente, per la stragrande maggioranza tranquillità economica e sociale; ma quando la tempesta della crisi ha spazzato via un modello economico basato sul capitale e sul profitto ad ogni costo, il tappo è saltato, e le spese le ha fatte, e le sta facendo la maggioranza dei cittadini. Ma soprattutto quella concentrazione di poteri diversi in un unico ed esclusivo direttorio, negli anni ha prodotto distanze sociali, mancanza di stratificazione sociale e dipendenza dal capo. E non ha consentito l’affermarsi di un livello sociale e culturale fondamentale, che è quello intermedio, la borghesia. Capace di svolgere, forte di una propria autonomia identitaria, anche in alcune fasi il ruolo di una sorta di cuscinetto ammortizzatore tra fasce sociali differenti. Che poi a Jesi, siano presenti storicamente diversi circoli massonici, è un fatto. Ma non tutta la borghesia cittadina è massona, e non tutti i massoni sono borghesi. E’ un semplicismo. C’è poi un altro protagonista economico e sociale, anche in un contesto geomorfologico differente,  che ha avuto tra le due realtà considerazione diversa: il contadino. A Fabriano il metalmezzadro: l’agricoltura voce dell’impresa e dell’economia di fatto hobbystica e dopolavoristica, ed il contadino considerato culturalmente subalterno all’occupato nel manifatturiero. A Jesi, l’agricoltore, figura di lavoratore e imprenditore con uno suo status definito e riconosciuto.  Allora ridurre, seppur in sincera amicizia, un confronto ed un’analisi complessi, con l’espressione “lì c’è la borghesia massona”, come fosse il lessico di un esorcismo su episodi demoniaci  è, del tutto in buona fede, indice della incapacità di ammettere che, in fondo, per usare un’espressione calcistica “in zona Cesarini, si spera che quella che è stata una grande illusione, possa, rabberciata e riverniciata, riprodursi ancora. E che, quando il padrone, a cui si è delegata nel tempo molta della propria potenziale autonomia, non c’è più, ci si sente solo disorientati e orfani; e depressi. Ed incapaci di costruire, ancorché una nuova illusione, una realtà di concrete opportunità in uno spirito comunitario e solidaristico.

domenica 27 marzo 2016

IL PRANZO E' SERVITO

Che la democrazia passasse per il cibo, l’avevano capito già i Cervi 73 anni fa. Non a caso, il 25 luglio 1943 alla caduta del fascismo, tra i tanti modi che potessero improvvisare “quei matti ed anarchici dei Cervi” per festeggiare quel fatto, loro, contadini e antifascisti, organizzarono una grande cena popolare per tutti i contadini e gli abitanti della zona. Una cena non sul cortile di casa loro, ma non a caso nella piazza del paese, un luogo pubblico; una pastasciutta di lusso per quei tempi, per tutti, a km zero diremmo oggi: pasta corta in bianco condita con burro e parmigiano di produzione locale. Oggi il rapporto tra cibo e democrazia è servito davanti a noi, ineludibile: in maniera drammatica ed esponenziale per quello che riguarda il Sud del pianeta; in maniera complessa e spesso tragicomica per quello che riguarda il cosiddetto Occidente. Le mafie in giacca e cravatta, che rilevano a quattro soldi imprese agricole ridotte allo stremo da politiche nazionali ed internazionali, che passano, nella fase elaborativa, per i lobbisti di grandi gruppi economici e finanziari; la produzione e la distribuzione di massa in mano oramai esclusivamente ad un pugno di multinazionali; la rete commerciale programmata non in base al bisogno demografico, ma in base alle logiche di cubatura urbanistica speculativa di consumati palazzinari e di amministratori compiacenti; i rapporti occupazionali legati al mercato del cibo, sia per la distribuzione che alla ristorazione; la truffe, le contraffazioni e le condizioni igienico sanitarie legate al cibo (lo slowfood che non è slow, il bio che non è bio, la listeria che ti ammazza e che trovi non nella salsiccia fresca ce fa il norcino in montagna, ma nel prosciutto cotto che trovi al supermercato).  Questo ed altro. E tra questo e altro, c’è anche il prezzo del cibo: il prezzo del bio, o presunto tale, che continua ad essere, come si sarebbe detto un tempo, solo per la borghesia; il prezzo della ristorazione (gourmet a due zeri a coperto, e menù tipici completi a 10 €; c’è qualcosa che non porta?). E poi, per entrare nel tragicomico (ma non per questo meno importante), il proliferare di format televisivi in cui si illude, o vende, che tutti, senza formazione e sacrificio, possono diventare grandi chef stellati, compresi i bambini, e che sono spot continui per le multinazionali del cibo; talk in cui si sbranano verbalmente onnivori, vegetariani e vegani, senza alcun punto di vista scientifico, ma solamente in virtù di estremizzazioni ideologiche e gettoni pagati dalle redazioni televisive; dibattiti in cui si disquisisce di alimentazione e agricoltura, in tra i cosiddetti esperti non c’è mai un contadino, ma solo politici, chef stellati a volte pure un po’ sputtanati, grossisti delle catene di ristorazione ingrassati da protettorati politici. Per non parlare poi di tutta la diffusa e seriale catena delle fiere, mostre, eventi delle tipicità locali, in chiave promozionale e turistica dei territori, che almeno un vantaggio, alla fine ce l’hanno: passare uno stipendio, pagato dalle amministrazioni pubbliche, a tutti quelli che, spesso altrimenti senza arte né parte, si inventano e vendono le manifestazioni e gestiscono consorzi, presìdi, enti, in cui tanti produttori seri ed agricoltori onesti, non solo abboccano, ma gli tocca pure pagarci per esserci, perché così “l’assessore mi vede e, forse, mi considera se c’ho bisogno d’una pratica veloce". E poi, ma solo per un accenno, perché  aprirebbe un mondo quando, sarebbe il caso, dovrebbe aprire solo qualche cella circondariale, l’attività venatoria; la caccia, che crea problemi seri all’agricoltura e al territorio, e alimenta opachi traffici di selvaggina, che dal paniere del cacciatore, finisce direttamente sul frigorifero del ristoratore, senza “passare dal via”, o meglio per le autorità sanitarie e di controllo competenti. In tutto questo che c’entra la democrazia? C’entra eccome, perché in queste giostre ci sono due soggetti, i soli legittimati, che non contano un cazzo: il contadino e il cittadino-consumatore; il primo che si spacca la schiena da prima dell’alba al tramonto e che, quando va bene, con la propria attività non ci rimette, se lo fa con etica e passione; il secondo, che l’importante è la lunghezza dello scontrino alla cassa del supermercato, a prescindere dalla monnezza che si porta sul piatto. Come si rimargina almeno, se non guarire, questa lesione di democrazia? Non ci sono soluzioni, o forse ce ne sono tante. Una sicuramente è ridurre la distanza tra contadino e cittadino, saltando tutto quello e quelli che ci sono in mezzo. E poi smetterla forse un po’ tutti con ‘sta storia dei piatti gourmet, e pensare che mangiare è una cosa seria per la salute e per l’ambiente e il paesaggio, e allora guardare alla salubrità del cibo anche nella sua semplicità di preparazione; imparare a prepararsi da soli alimenti spesso industriali (tipo il pane, è facilissimo e non sottrae tempo a chissà che cosa). E poi che in posto ci vai se ti stimola una passione ideale e culturale, senza porti prioritariamente il problema di qual è il piatto o il ristorante cosiddetto tipico, e chissenefrega se non c’è un museo aperto e nel centro storico scorrazzano le pantegane. E a proposito di democrazia, forse non è un caso che le sole e nuove lezioni di pratiche comunitarie e democratiche, ce le da proprio il Sud del Mondo, dove Capi di Stato, dopo anni di miseria delle persone e restrizione dei diritti individuali, sono diventati dei contadini? E’ lì che bisogna guardare, per costruire non più il cosiddetto nuovo modello di sviluppo, obiettivo ideale verso il quale fare giustificati gesti apotropaici, ma semplicemente un’idea di felicità condivisa.

martedì 1 marzo 2016

IL TURISMO PETALOSO

Premessa: non sono un esperto di turismo, né mi atteggio a tale, né è settore il mi interessa maggiormente Mi capita però spesso di trovarmi in contesti di varia natura in cui si disquisisce di turismo, di politiche del turismo, di riconversioni turistiche di territori che fino a qualche tempo prima hanno basato la propria economia e socialità su altri settori, e che la crisi ha in pochi anni smantellato. Questo accade in particolare quando la convegnistica del caso, o i tavoli pre-para-intra istituzionali, si interessano della cosiddetta Italia interna. La cosa che più mi colpisce è la poca conoscenza dei luoghi da parte di coloro che pensano e propongono nuove strategie culturali, sociali ed economiche; mi conforta, ma solo parzialmente, il fatto che diversi lo facciano gratis o a rimborso spese. In particolare il deficit più evidente è la mancanza del punto di vista di chi in quel territorio ci vive e lo conosce; non perché sia per forza quello migliore o giusto, anzi, spesso il contrario. Però è quello un osservatorio indispensabile, perché altrimenti il rischio è quello di costruire delle belle fiabe, dei format teorici dal fallimento scontato, e proporre delle pratiche che non tengono per nulla conto, ad esempio, delle contraddizioni spesso storicizzate che hanno segnato un territorio, e su cui chi aveva interessi particolari né ha tratto lauti vantaggi. Capita, come ho avuto modo di verificare, di definire semiabbandonato un borgo, quando al contrario è abitato da bambini, adulti e anziani. Capita di magnificare un sentiero che conduce in un eremo millenario, senza sapere che per arrivarci si deve attraversare una proprietà privata in cui è palesemente vietato l’accesso, e che si rischia di essere denunciati dal proprietario per violazione della proprietà privata. Capita di costruire eventi su temi naturalistici, senza sapere che si esporrà i fruitori alla possibilità di essere abbattuti dalle squadre di cacciatori di cinghiali, che sparano a tutto quel che si muove con carabine a gittata di 3 km. Capita di pensare di indirizzare famigliole in percorsi di trekking senza la consapevolezza che anziché udire i suoni della natura, si rischia di fargli spaccare i timpani e tremare le ginocchia dal boato di una mina di cava. Capita di promuovere la visita ad un sito museale e di stimolare a consumare le tipicità enogastronomiche a km zero, senza sapere che quei visitatori, appena scesi dalla macchina verranno molestati dai volantinatori dei ristoranti del luogo, che si contendono selvaggiamente qualche coperto in più con menù a meno di 10 € tutto compreso, in cui gli unici zero sono quelli della ricevuta fiscale.  E si potrebbe continuare a lungo. Per riconvertire un territorio ad una nuova economia, ed in particolare a quella turistica, forse il primo passo è sapere se gli umani che abitano quel territorio sono d’accordo, e se lo sono, magari coinvolgerli e conoscere per primo la visione di futuro di quelle persone. E pretendere, consapevoli che li si porrà il più delle volte di fronte ad un bivio, alla società organizzata e rappresentata (Istituzioni, categorie economiche e professionali, associazioni), di spendersi, ciascuno per propria funzione e competenza, per rimuovere alcuni conflitti che di fatto, anziché avvicinarli, allontanano i turisti. Ma forse, la vera strategia per riconvertire territori, specialmente nelle aree interne, non è quella di trasformarle in grandi “parchi giochi”, ma quella di creare nuova residenzialità, di offrire opportunità perché queste siano abitate tutto l’anno, che ci siano servizi alle varie età ed attività. Forse anziché di turisti, molti territori hanno semplicemente bisogno di abitanti. Un’impresa titanica rispetto alle capacità della politica e delle Istituzioni, che perseguono, nei territori interni, esclusivamente la strategia della fusione tra Comuni, riducendo solo pratiche democratiche e senza alcun miglioramento dei servizi; ma che in compenso coniano nomi per le nuove municipalità, rispetto alle quali il “petaloso” di un bambino, è già classificabile come un termine arcaico. 

giovedì 18 febbraio 2016

UNA STORIA SBAGLIATA

Prendo a prestito, nel giorno che sarebbe stato il suo 73 ° compleanno, il titolo di una canzone di Faber per raccontare una storia, per come la so io almeno (e penso di saperla bene), di diversi anni fa, 19 per l’esattezza. E’ la storia del Parco Regionale Naturale della Gola della Rossa e di Frasassi. Una delle zone più belle d’Italia, delle Grotte di Frasassi, delle vie d’arrampicata che stanno su tutti i manuali di roccia, di sentieri escursionistici che portano in antichi abitati ed edificati religiosi eremitici. Quale migliore idea, per la classe dirigente politica di allora, che farlo diventare un territorio protetto, tutelato, e vocato al turismo ambientale, nuova potenziale risorsa occupazionale ed economica, quando già c’erano avvisaglie che lavatrici, frigoriferi e cappe aspiranti non sarebbero durati per sempre? Ci fu subito un però, o meglio, ci furono alcuni però… Il primo, le cave, attività estrattive a cielo aperto che da decenni stavano asportando porzioni di montagne. Come si fa? Le cave danno lavoro, elargiscono frazioni di lire/euro sui volumi estratti alle amministrazioni locali e quindi tengono in piedi i bilanci, sponsorizzano qualche evento culturale di paese; e poi, soprattutto, quando c’è la campagna elettorale, un contributo ai candidati lo danno sempre, e a tutti, destra, centro e sinistra. Il secondo però: la caccia. Come si fa? I cacciatori sono tanti, organizzati in associazioni, e quando ci sono le elezioni votano, e con loro famiglie e parenti, e ogni candidato ne controlla un gruppetto. E allora la politica di allora escogitò il grande compromesso, in pieno stile riformista del tempo. La legge regionale che istituì il parco, escluse dal perimetro dell’area protetta ogni bacino di cava, sui monti e nell’alveo del fiume, e lasciò fuori dal parco un pezzetto di monti e di boschi, liberi per i cacciatori. Per cui, alla fine, chi si beccò i vincoli dell’area protetta? Quelli che ci abitavano e quelli che ci lavoravano, semplici cittadini e gli agricoltori; tutti questi per, come si dice, cambiare una lampadina, dovevano e devono tuttora sottostare a mille prescrizioni e fare decine di pratiche burocratiche. A nessuno invece importò, considerato che nell’area del parco passavano infrastrutture stradali e ferroviarie, a rafforzamento dello spirito ambientalista, di raddoppiare la linea ferroviaria e puntare su un’idea di mobilità sostenibile. Il contrario, come spesso accade: alla fine del primo decennio del XXI secolo, anziché farlo 40 anni prima, quando avrebbe avuto un senso, ad alcuni, mossi da una nuova idea di progresso e sviluppo economico ed industriale di lì ad arrivare dopo la crisi, venne l’idea di raddoppiare l’arteria stradale, perché così si sarebbe potuti arrivare dall’Umbria al mare Adriatico ben 15 minuti prima rispetto alla percorrenza attuale. E allora però come si fa a fare un’opera così, che sbudella il paesaggio e il territorio, in mezzo ad un Parco Naturale, con i vincoli che ci sono? Nessun problema, ecco la Legge Obiettivo, che bypassa ogni normativa preesistente e ogni vincolo: si chiama Quadrilatero. Nel frattempo la linea ferroviaria è funzionale quanto lo sarebbe stata ai tempi di Buffalo Bill. In tutta questa storia, nei diciannove anni, la politica, a tutti i livelli e di ogni colore è stata esemplare: sempre d’accordo, e chi non lo poteva proprio essere per costituzione, un timido abbaglio e poi ficcato in qualche giunta o qualche cda. Intanto negli anni si è promossa e raccontata una grande, e pure costosa a volte, fiaba istituzionale, quella del parco delle meraviglie, con gli uccellini, pesciolini, fiorellini, l’aquila reale di Frasassi, e pure qualche lupo; convegni, seminari ed eventi, passeggiate per le scolaresche, educational tour, carriole di libri e depliant istituzionali, siti e social network istituzionali con foto taroccate che escludono quello che non è conveniente far vedere. E invece, non si ha il coraggio di dire ciò che in realtà è il Parco Naturale della Gola della Rossa e di Frasassi: una delle aree ambientalmente più devastate e degradate della Regione. La politica di oggi fa finta di nulla, non sa da che parte riprenderla questa storia per raddrizzarla, perché gli interessi economici di allora, che piegarono ginocchia e ingrossarono saccocce, sono gli stessi, se non maggiori. C’è, anche qui, un però: un po’ di gente, ad esempio, che domenica scorsa, siccome si è rotta i coglioni della farsa politically corrrect, e non c’ha niente da perdere, quasi per gioco ha ammucchiato sotto la pioggia più di cento persone per una passeggiata dentro la Gola della Rossa, in una strada storica che fu fatta costruire da un Papa nel 1700, e che da anni è interdetta e chiusa, perché data da decenni in uso esclusivo alle imprese delle attività estrattive, in cui oggi lavorano meno di 20 addetti. Abitanti della zona, tra cui un 92 enne, signore refrattarie a tutto che sono uscite di casa sotto l’acqua, ragazze e ragazzi dei centri sociali, ambientalisti ,escursionisti, ciclisti, rocciatori, associazioni ambientaliste, tanti normali cittadini e diversi cani. Un’altra idea di democrazia, di partecipazione, di politica. Vogliono che la strada, che è pubblica, sia rimessa in sicurezza, aggiustata, con una pista ciclabile e transitabile dai residenti e dai mezzi di soccorso. E che quello che stanno facendo alle montagne, dove tutti i giorni esplodono mine e la polvere di calcare imbianca alberi e polmoni, possa essere visto e controllato da tutti. Ce la faranno? Chi può dirlo? Intanto vanno avanti, dopo domenica adesso fanno sul serio. La loro causa la trovate su Facebook alla pagina Riprendiamocilastrada.

P.S. Di quella politica e dei loro rappresentanti istituzionali, che 19 anni fa si inventarono il grande compromesso sul parco, e di quella più recente, protagonista della Quadrilatero e del continuare a far estrarre calcare massiccio dai monti fino al 2043, si conoscono nomi, cognomi, e molti di questi ancora stanno “sul pezzo”, o circolano in qualche convegno. Così come si conoscono altrettanto le generalità di quelli che non sono stati al gioco, non hanno fatto carriere istituzionali e sono tornati al proprio lavoro, o se ne sono trovato uno. 

martedì 9 febbraio 2016

BASE SPAZIALE ALFA CHIAMA TERRA

C’è una scena di Palombella Rossa, film di Nanni Moretti, in cui il protagonista si accanisce sul bordo di una piscina, con una giornalista, urlandole addosso “Come parla?! Le parole sono importanti!!!”. Una scena memorabile, ma che a qualche decennio dal film, continua ad avere una sua forte suggestione anche su quello che succede oggi. Si succedono nel Paese continui e ripetuti, goffi e anacronistici, tentativi di ricomporre la cosiddetta sinistra, per alcuni perduta, per altri mai dimenticata, per altri ancora da venire. Il tutto per costruire una altrettanta cosiddetta alternativa politica, a quello che di volta in volta è il partito di governo e lo schieramento maggioritario. Il tutto per contendersi una piccola minoranza dei consensi, in quella che è oramai la minoranza dei cittadini che continuano ad andare a votare; una sorta di radice quadrata, meglio cubica, dei voti espressi. E se uno guarda ai cosiddetti ricostruttori, chi ci trova, sia a livello centrale che locale? Reduci di stagioni politiche passate, professionisti delle sconfitte e jettatori matricolati. Giovani di belle speranze già vecchi e ultracinquantenni mal invecchiati. Tutte figure e persone che non hanno nessun radicamento nella vita reale, nessuna aderenza con il dolore delle persone. E il dolore delle persone, lo dicono accademiche analisi dei flussi elettorali, non sta nella minoranza che continua a votare, ma sta nella maggioranza che non vota. Quindi quelli che votano, sempre secondo le analisi, sono quelli che stanno meglio, e che hanno l’interesse a conservare un certo stato di cose. Comunque, numericamente, una minoranza. Ma che poi, nella rappresentazione delegata, è la maggioranza che decide; per tutti. E il più recente esperimento di ricostruzione della sinistra, che rimanda alla morettina filmografia, dalla parola è già il programma anticipato di un fallimento: Cosmopolitica; una sorta di leopolda dei poveracci, per organizzazione e per tempistica. Se chiami un progetto-evento politico, con un’espressione che subito rimanda allo spazio, al cosmo, confermi la distanza siderale, è proprio il caso di dirlo, che c’è tra la politica e i cittadini, tra democrazia e dolore delle persone. Questo da una parte, più che un danno, è per certi aspetti una fortuna: rende pratiche politiche fortemente autentiche e legittimate, quelle con la P maiuscola, tutte quelle iniziative di singoli, o di movimenti e comitati che si autorganizzano intorno ad un tema concreto e quotidiano, ad una causa. E che, in partenza, scelgono di fare a meno di qualsivoglia rappresentazione politica. E per lo più sono cause legate a temi del vivere che, pur essendo valori sanciti dalla Costituzione, la politica prende continuamente a calci nei coglioni: l’ambiente, il paesaggio, la salute, l’educazione, la tolleranza, i diritti dei singoli, etc. Quindi la vera alternativa, la strada da percorrere anziché l’orbita spaziale da raggiungere, al potere che tutela interessi di pochi e impoverisce, culturalmente e materialmente, l’esistenza di molti, passa ad esempio per la lotta di un pastore sardo di 85 anni, Ovidio Marras, che da solo ha sconfitto gli interessi di multinazionali della cementificazione nella sua terra; senza alcun sostegno della politica tradizionale che, naturalmente, più che alla terra e alle pecore, pensa al cosmo; e che qualora interpellata e coinvolta, dopo un flebile abbaglio di rito, si mette a pecorone in un minuto di fronte al gruppo industriale di turno. C’è una maggioranza demografica in Italia, che è quella che non vota più. Lì ci sono tante vite e storie di cittadini anonimi, che ogni giorno si battono per un’altra idea di società, di economia, e anche di Stato; per un'idea di felicità che non passa più per l'ideologia della merce. Da soli, senza pensare se vinceranno e perderanno, ma solo perché lo ritengono giusto. Per fortuna che ci sono loro che stanno con i piedi per terra e lo sguardo, oltre che la schiena, dritto in avanti. Probabilmente, è seriamente il caso, sempre per l'importanza delle parole, di considerare oramai forma arcaica, nella lingua contemporanea, la parola sinistra. 

martedì 2 febbraio 2016

LA SABOTATRICE DELLA PORTA ACCANTO

Giuliana, nome di fantasia, mi racconta il suo costante e sconosciuto impegno quotidiano di lotta solitaria, per far sì che il territorio dove vive sia rispettoso dell’ambiente e del paesaggio, e non più giornaliera preda di interessi economici privati, tutti politicamente e legalmente riconosciuti. Giuliana abita in uno dei “paesi semiabbandonati”, così un masterplan istituzionale sulla riqualificazione turistica, scritto da qualche “docente del nulla” prezzolato e appecoronato, descrive la piccola comunità dove vive questa gentile signora; uno che probabilmente lì non c’è mai stato, perché se ci fosse capitato anche solo per aver sbagliato strada, avrebbe visto che ci sono più di dieci case, e tutte abitate, da vecchi, adulti, giovani e pure un neonato. Giuliana mi racconta quindici anni di piccole azioni di sabotaggio, diurne e notturne, che ha compiuto contro un gruppo industriale molto potente, quelli che quando c’è la campagna elettorale la busta con i soldi per un contributo in nero, l’allungano, per non sbagliarsi, a tutti, destra, centro e sinistra, e che da decenni sta scempiando il paesaggio di quella valle. Mi racconta delle denunce, degli esposti fatti alla magistratura, delle telefonate alle forze dell'ordine, delle minacce personali ricevute da persone che l’hanno aspettata la sera sotto casa. Mi racconta del sindaco di quel paese, di sinistra, che anni fa la convocò nel suo ufficio in Comune e, facendogli educatamente presente che il suo spirito civico stava rompendo i coglioni, gli offrì un posto di lavoro sicuro in cambio del suo ritorno a tempo pieno alle faccende domestiche e familiari. Mi racconta un sacco di cose che non conoscevo su “quella storia lì”, snocciola atti, cifre. E’ un fiume in piena Giuliana, non volendo ho liberato i suoi argini. Racconta con passione, con ritrovata volontà ed entusiasmo di poter rinvigorire la sua decennale battaglia. Eppure Giuliana era per me finora una riservata signora borghese, che ha il suo lavoro, una bella famiglia, e la passione filantropica per gli animali. Non saprei collocarla politicamente, non glielo chiedo e neanche mi interessa. Mi piace il civismo che la anima, il senso di democrazia e di giustizia che percepisco dai suoi racconti, il fatto che misuri la vita e il mondo che la circonda non con i soldi, cosa che potrebbe certamente permettersi, ma con alcuni valori irrinunciabili, con l’idea che ci sono cose non barattibili, non compromissibili, perché sono di tutti, perché sono beni comuni; che ci sono cose e persone che, sorprendentemente, il potere non riesce a comprare. Quante signore Giuliana ci sono intorno a noi? Che in virtù di quello che ritengono ingiusto non solo per sé, ma per tutti, disobbediscono, sabotano? Sabotare, parola antica, ribelle, anarchica, partigiana. E Costituzionale, come ha sentenziato qualche mese fa la giurisprudenza. Persone consapevoli che la loro solitaria battaglia non sortirà grandi risultati, anzi; però la fanno e basta, perché è per primo un’affermazione dei propri diritti, un onorare la propria coscienza. Che non si scoraggiano, che non si impauriscono. C’è bisogno di farle emergere queste persone, di scoprirle e farle conoscere, incontrare tra loro. Di creare un’occasione, una scintilla, perché la loro solitudine diventi comunità e di conseguenza Politica. Quella Politica di cui la politica ha il terrore, perché non riconosce capi, liturgie, non obbedisce, perché pensa, perché sovvertisce, anche con un semplice volantino. Non servono partiti, contenitori, convescìon. Serve semplicemente attenzione. Per l’altro, l’uno per l’altro. Un nuovo umanesimo. Reti di civismo che si prendono cura di ciò che hanno accanto e di chi hanno accanto. Autosufficienti da ogni forma di rappresentanza delegata. Solo lungo questa strada ci sarà più democrazia e meno dolore.