giovedì 5 luglio 2018

GIORNO D'ESTATE (a Fermo, UE)

«Giorno d'estate, giorno fatto di sole, vuote di gente son le strade in città». Era probabilmente così il centro di Fermo, quel primo pomeriggio di due anni fa; come ce lo lasciano immaginare i versi di Guccini. Due giovani sposi stavano su una panchina a parlare per i fatti loro. Lungo il marciapiede che la costeggia, passa un tizio che nel vederli, dà della "scimmia africana" alla sposa; il marito reagisce, nasce una colluttazione. Lo sposo morirà poi all'ospedale, con la testa fracassata da un paletto della segnaletica stradale. Gli sposi sono due richiedenti asilo nigeriani. L'altro è fermano, "un figlio nostro", come diranno molti suoi concittadini. La giustificazione comunitaria, assolutoria, per il carnefice è stata subito trovata; uno un po' sbandato, un ragazzo a disagio e con traumi familiari, un ultrà esagitato con qualche piccolo precedente (il suo avvocato in passato fu il libero professionista che da qualche settimana era diventato Sindaco della città). Con il pudore, per tanti, a chiamarlo per quello che, anche per frequentazioni sociali consolidate, era, e cioè un fascista. Anche per lo sposo, la vittima, c'è stata presto una giustificazione alla reazione d'impeto avuta su quella panchina. Era anche lui un poco di buono, del giro della mafia nigeriana; una fantasia che nemmeno è entrata nell'aula di tribunale, ma rimasta tutta dentro il chiacchiericcio dei bar di piazza, i luoghi più fertili per la diffusione di certi virus culturali. Ma siano a Fermo, e l'unico comportamento assimilabile al mafioso (seppur penalmente irrilevante), dopo due anni, è l'omertà silenziosa, ma non imbarazzata, tantomeno malcelata, che su questo fatto prevale ancora oggi nella capitale del distretto della calzatura. Tanto che il Consiglio Comunale giorni fa, avrebbe deciso faticosamente di intitolargli lo spiazzo dove è stato assassinato, ma di non scrivere "vittima del razzismo" nella targa. Perché quella parola, razzismo, darebbe cattiva luce all'immagine della città, che scommette, come tutta la Regione, sulla fascinazione dell'industria del turismo. Perfino l'attuale Ministro dell'Interno, che della tutela dei "figli nostri" fa la sua missione istituzionale, l'8 luglio 2016 dichiarerà a Il Giornale: "prego per lui"; che era semplicemente figlio dell'Africa. Adesso l'assassino ha patteggiato la pena, ed è libero. Lo sposo, dopo quasi due anni, ha trovato finalmente sepoltura in Nigeria. La sposa, protetta da persone misericordiose, vive il suo dolore senza fine lontano da Fermo; l'unica per cui varrà il giurisprudenziale "fine pena mai". C'è un altro personaggio in questa storia. Un vecchio prete fermano, che aveva accolto nella sua comunità, e li aveva sposati, in nome di Dio, i due fidanzati nigeriani, arrivati in Italia su un barcone; scappavano dalle persecuzioni sanguinarie di Boko Haram. Viaggio in cui lei, a causa degli stenti, aveva perso il bimbo che aspettava. Un prete che da decenni, accoglie puttane, drogati, migranti e handicappati. Un rompicoglioni, la spina nel fianco del perbenismo marchigiano. E che, mesi dopo, quando nell'Aula Nervi troverà l'abbraccio e la carezza di Papa Francesco, nel cinquantesimo della sua comunità di derelitti e scartati dalla società gli dirà commosso: "Capodarco ha cinquant'anni, e abbiamo aspettato cinquant'anni per incontrare lei". Gli studiosi della società e dei suoi mutamenti, hanno spesso ragione di sostenere, che è nelle piccole realtà, in provincia come si dice, che si capiscono le anticipazioni di quello che sta delineandosi all'orizzonte. È in questi posti in culo al mondo, dove non succede mai niente, che si capisce l'aria che tira, e che tirerà poi; nel mondo. Quello che è successo a Fermo nelle Marche, panciute e tranquille, mantenute e sedate per decenni a pil padronale fatto di lavatrici e scarpe, solo scosse un po' dalla crisi e dalla secolarizzazione, il 5 luglio del 2016, è stato però archiviato subito come l'eccezione. Qualche settimana dopo, nelle Marche un terremoto devastante per gran parte del territorio montano, destabilizzerà del tutto un tessuto sociale ed economico; ma questa è un'altra storia. Poi, tra il 30 gennaio e il 4 febbraio 2018, è arrivata Macerata. Sempre in provincia, dove non succede mai niente. Una provincia, dove però, a forza di metterla sotto, la polvere ha corroso il tappeto. Adesso che l'aria è cambiata è evidente, sia per chi rimane controvento, sia per chi ha soffiato per anni nella stessa direzione di questo vento, sperando che diventasse tempesta. Ma anche per chi si è immediatamente riposizionato in direzione di vento, perché "amico caro, fatti i cazzi tuoi", come direbbero Crozza/Razzi, è stata sempre la sua bussola vincente. Se fino a qualche tempo fa pensavamo (io meno, ma lo dico con umiltà), che Fermo fosse l'eccezione, oggi abbiamo già prove manifeste, che già allora era la manifestazione embrionale di quella che sta diventando la regola. Non per le Marche, nè per l'Italia. Ma per l'Europa. Ah, a proposito. La sposa si chiama Chyniere, e nel chiuso di una sagrestia, senza parlare, mi ha spiegato in un attimo cosa siano il dolore e il terrore. Lo sposo si chiamava Emmanuel, e di lui ho letto, e visto solo la sua bara e la foto della tomba provvisoria. Il prete si chiama Vinicio, e lui tanti anni fa, a me ad altri riuniti per pranzo ci disse che se intorno ad una scodella di maccheroni fumanti, si ritrovano dei credenti animati da sete di carità, verità e giustizia, anche quei maccheroni sono l'Eucarestia. Poi, scopersi, qualche anno dopo, che anche i Cervi celebrarono nel luglio del 1943, il 25, la caduta del fascismo con una grande festa dove servirono a tutti i paesani dei maccheroni con burro e parmigiano. E dopo quelle pastasciutte, non ho capito ancor oggi da che parte andare, ma sicuramente quella verso quale non dirigermi mai. E che "figlio nostro" è un concetto pericoloso, perché poi, come in un altro racconto, porta a scegliere Barabba. 

Se volete un po' approfondire sulle Marche:

http://hopassatolafrontiera.blogspot.com/2018/02/cerano-una-volta-le-marche.html?m=1


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