domenica 4 dicembre 2016

I BISCOTTI DEL MONASTERO

Le scorgo da in fondo la salita che già ci aspettano sul cortile. Oltre i vetri della finestra si scorge il Vettore con i primi schizzi di neve. “La terra – dice la Madre Badessa - è arrabbiata con noi”. “Ne avrebbe molte di ragioni – gli rispondo – considerato come la trattiamo”; mi sorride benevola, senza aggiungere nulla. Dentro la casa di campagna, in mezzo l’alta collina fermana, si sta bene, non fa freddo come fuori, l’accoglienza delle monache è molto calorosa e funziona meglio del riscaldamento.  Fino a qualche giorno fa, non c’era una strada percorribile in auto per arrivare lì; poi il Comune ha fatto aprire una sterrata carreggiabile su quello che era poco più di un sentiero. Loro non sono contente di stare lì, si sentono sacrificate, un po’ in cattività, lontane da quella che era la loro perenne dimora abituale. Loro, sono le monache benedettine di clausura di Amandola. Il Monastero di San Lorenzo, già provato fortemente dalla scossa del 24 agosto che aveva già reso scarsamente agibile parte dei locali, il 30 ottobre è parzialmente crollato, proprio mentre alcune stavano in chiesa. Loro, sempre le suore, avevano resistito nel rimanere al monastero fino a quella domenica mattina, ma poi sono state messe in salvo dai pompieri; per qualche giorno hanno dormito al palasport cittadino; poi sono state trasferite in quella che era una proprietà dell’Ordine, frutto di un lascito benemerito di qualche anima pia. Anche loro vogliono ripartire, anche loro hanno la tenacia e la fierezza dei marchigiani che vogliono rialzarsi in piedi e, soprattutto, non vogliono abbandonare i propri luoghi. Sono nove, quattro di origine nigeriana; quest’ultime hanno ancora negli occhi la paura e lo smarrimento di chi non sapesse fino a un paio di mesi fa cosa fosse, come fosse, un terremoto. Ma la Madre Badessa, vuoi per funzione, vuoi per carattere, sa fare squadra, le tiene tutte sul pezzo e coinvolte in questa nuova, provvisoria e poco riservata, dimensione della vita claustrale. Insistono perché si resti a pranzo da loro, ci tengono. In una stanzetta noi, con gli operai che stanno sistemando un po’ di cose intorno alla casa per rendere maggiormente funzionale il tutto; in un’altra stanza loro, le monache: sono sì sfollate, ma pur sempre di clausura e le regole vanno osservate. Poi dopo pranzo, la Madre Badessa le chiama tutte nella stanza degli ospiti, e le sorelle nigeriane arrivano con degli strumenti etnici a percussione, e succede l’imponderabile per noi, quasi come il terremoto per loro: si accomodano sulla panchetta e attaccano un canto religioso della loro terra; la lingua è incomprensibile, ma la Madre Badessa e le consorelle marchigiane, battono il tempo con le mani. Fuori dai vetri i Sibillini, l’Africa all’interno della casa, catapultati su un altopiano nigeriano; una sonorità che mi riporta lontano di parecchi anni e di qualche migliaio di chilometri, su una chiesa cristiana in cima alla falesia di Badiangara, in Mali. Ma siamo lì, invece, nel fermano, con delle monache sfollate, sui “monti azzurri”. Dentro quella casa, così lontana e avulsa da sistemi di quotidianità, poco raggiungibile, abitata provvisoriamente da nove donne così estranee al nostro concetto di vita e di tempo, così piena ancora di paura, ma al tempo stesso anche di speranza, ho avuto la sensazione di trovarmi per qualche ora nel cuore del mondo; Ali Farka Tourè, poeta e musicista maliano, ad un intervistatore occidentale, una volta disse: “Per alcune persone, quando dici Timbuctu, è come dire la fine del mondo, ma non è vero. Io sono di Timbuctu e posso dirvi che siamo nel cuore del mondo”. E il “cuore del mondo” non è tanto dove si è, ma come si è e con chi si è. E allora i “cuori” del mondo possono essere infiniti. La faglia, con lacerazione e dolore come ogni ferita, ha portato a giorno sull’Appennino tanti cuori del mondo; che non sono solo borghi e paeselli sperduti qua e là, ma vite, storie, volti umani e di bestie che ogni giorno rendevano vivo e pulsante, pur tra molti sacrifici, quel territorio. Ma che i più scoprono essere veramente abitato e vissuto tutti i giorni, solo quando ci sono grandi tragedie, anziché essere uno sfondo ritoccato e virtuale su Instagram. Ecco, se la ricostruzione avesse come orizzonte politico ed amministrativo il concetto di “cuore del mondo”, la strategia dell’abbandono dei luoghi e delle comunità, non avrebbe nessuna efficacia. Nel congedarci tutte le sorelle abbracciano mia moglie, sorella anche lei per qualche ora. Quando usciamo per ripartire, vengono tutte sul cortile a salutarci. Incrocio gli occhi di una sorella nigeriana, quella che è scappata via dalla chiesa con il tetto che gli rovinava dietro. Prima del canto aveva lo sguardo smarrito; adesso gli occhi sono luminosi, c’è di nuovo quella luce densa che vedi solo in Africa,  e ci sorride. Un sorriso che ci fa molto bene. Loro vogliono tornare a San Lorenzo, al Monastero, hanno da prendersi cura del roseto e dell’orto. Ma, soprattutto, lì in mezzo alla campagna, non possono più fare i loro buonissimi biscotti. 

Nessun commento:

Posta un commento