Le scorgo da in fondo la
salita che già ci aspettano sul cortile. Oltre i vetri della finestra si scorge
il Vettore con i primi schizzi di neve. “La terra – dice la Madre Badessa - è
arrabbiata con noi”. “Ne avrebbe molte di ragioni – gli rispondo – considerato
come la trattiamo”; mi sorride benevola, senza aggiungere nulla. Dentro la casa
di campagna, in mezzo l’alta collina fermana, si sta bene, non fa freddo come
fuori, l’accoglienza delle monache è molto calorosa e funziona meglio del
riscaldamento. Fino a qualche giorno fa,
non c’era una strada percorribile in auto per arrivare lì; poi il Comune ha
fatto aprire una sterrata carreggiabile su quello che era poco più di un sentiero.
Loro non sono contente di stare lì, si sentono sacrificate, un po’ in
cattività, lontane da quella che era la loro perenne dimora abituale. Loro,
sono le monache benedettine di clausura di Amandola. Il Monastero di San
Lorenzo, già provato fortemente dalla scossa del 24 agosto che aveva già reso
scarsamente agibile parte dei locali, il 30 ottobre è parzialmente crollato,
proprio mentre alcune stavano in chiesa. Loro, sempre le suore, avevano
resistito nel rimanere al monastero fino a quella domenica mattina, ma poi sono
state messe in salvo dai pompieri; per qualche giorno hanno dormito al
palasport cittadino; poi sono state trasferite in quella che era una proprietà
dell’Ordine, frutto di un lascito benemerito di qualche anima pia. Anche loro
vogliono ripartire, anche loro hanno la tenacia e la fierezza dei marchigiani
che vogliono rialzarsi in piedi e, soprattutto, non vogliono abbandonare i
propri luoghi. Sono nove, quattro di origine nigeriana; quest’ultime hanno
ancora negli occhi la paura e lo smarrimento di chi non sapesse fino a un paio
di mesi fa cosa fosse, come fosse, un terremoto. Ma la Madre Badessa, vuoi per
funzione, vuoi per carattere, sa fare squadra, le tiene tutte sul pezzo e
coinvolte in questa nuova, provvisoria e poco riservata, dimensione della vita claustrale.
Insistono perché si resti a pranzo da loro, ci tengono. In una stanzetta noi,
con gli operai che stanno sistemando un po’ di cose intorno alla casa per
rendere maggiormente funzionale il tutto; in un’altra stanza loro, le monache:
sono sì sfollate, ma pur sempre di clausura e le regole vanno osservate. Poi
dopo pranzo, la Madre Badessa le chiama tutte nella stanza degli ospiti, e le
sorelle nigeriane arrivano con degli strumenti etnici a percussione, e succede
l’imponderabile per noi, quasi come il terremoto per loro: si accomodano sulla
panchetta e attaccano un canto religioso della loro terra; la lingua è
incomprensibile, ma la Madre Badessa e le consorelle marchigiane, battono il
tempo con le mani. Fuori dai vetri i Sibillini, l’Africa all’interno della casa,
catapultati su un altopiano nigeriano; una sonorità che mi riporta lontano di parecchi
anni e di qualche migliaio di chilometri, su una chiesa cristiana in cima alla falesia
di Badiangara, in Mali. Ma siamo lì, invece, nel fermano, con delle monache
sfollate, sui “monti azzurri”. Dentro quella casa, così lontana e avulsa da sistemi
di quotidianità, poco raggiungibile, abitata provvisoriamente da nove donne
così estranee al nostro concetto di vita e di tempo, così piena ancora di
paura, ma al tempo stesso anche di speranza, ho avuto la sensazione di trovarmi
per qualche ora nel cuore del mondo; Ali Farka Tourè, poeta e musicista
maliano, ad un intervistatore occidentale, una volta disse: “Per alcune
persone, quando dici Timbuctu, è come dire la fine del mondo, ma non è vero. Io
sono di Timbuctu e posso dirvi che siamo nel cuore del mondo”. E il “cuore del
mondo” non è tanto dove si è, ma come si è e con chi si è. E allora i “cuori”
del mondo possono essere infiniti. La faglia, con lacerazione e dolore come
ogni ferita, ha portato a giorno sull’Appennino tanti cuori del mondo; che non
sono solo borghi e paeselli sperduti qua e là, ma vite, storie, volti umani e
di bestie che ogni giorno rendevano vivo e pulsante, pur tra molti sacrifici,
quel territorio. Ma che i più scoprono essere veramente abitato e vissuto tutti
i giorni, solo quando ci sono grandi tragedie, anziché essere uno sfondo
ritoccato e virtuale su Instagram. Ecco, se la ricostruzione avesse come
orizzonte politico ed amministrativo il concetto di “cuore del mondo”, la
strategia dell’abbandono dei luoghi e delle comunità, non avrebbe nessuna
efficacia. Nel congedarci tutte le sorelle abbracciano mia moglie, sorella
anche lei per qualche ora. Quando usciamo per ripartire, vengono tutte sul
cortile a salutarci. Incrocio gli occhi di una sorella nigeriana, quella che è
scappata via dalla chiesa con il tetto che gli rovinava dietro. Prima del canto
aveva lo sguardo smarrito; adesso gli occhi sono luminosi, c’è di nuovo quella
luce densa che vedi solo in Africa, e ci
sorride. Un sorriso che ci fa molto bene. Loro vogliono tornare a San Lorenzo,
al Monastero, hanno da prendersi cura del roseto e dell’orto. Ma, soprattutto,
lì in mezzo alla campagna, non possono più fare i loro buonissimi biscotti.
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