venerdì 27 luglio 2018

ERA UN CONTAINER MOLTO CARINO...


Quando il paese non ce l’hai più, perché il terremoto te l’ha portato via, assieme a quarantasette compaesani, anche un container, donato da un’impresa privata alla Protezione Civile Regionale, riesce a diventare il tuo nuovo paese. Il solo nuovo che avrai. Perché sai pure, siccome non sei scemo, che il tuo paese non sarà mai ricostruito. Per primo perché a nessuno, fatta eccezione per i paesani rimasti, interessa realmente ricostruire un paese per un pugno di abitanti che, tolti i morti, e quelli che dopo quasi due anni hanno già ricominciato la vita altrove, sono quelli che restano. Non in senso negativo. Ma intesi come “i restanti”, categoria antropologica di Vito Teti; quelli che hanno scelto di restare. Poi, non si può ricostruire un paese di nuovo sopra ad una paleofrana, di fianco un monte sventrato da decenni di attività estrattive, che fiancheggia i piloni di un viadotto e che sta sopra una sorgente di acqua buonissima, che ancora sgorga libera e pubblica, nonostante i tentativi fatti nel tempo per imbottigliarla e venderla. Tutti elementi, opera sia della natura che dell’uomo, che negli anni hanno reso quel territorio più fragile di altri, in cui la furia della Terra nella notte del 24 agosto 2016, ha trovato la porta spalancata. Il 24 agosto dell’anno scorso, un anno dopo, sono entrato in quel container, affidato dalla Protezione Civile Regionale alle persone del paese. E ho avuto la sensazione di entrare nel loro paese, che più in alto, sotto il monte, non c’era più, ma riviveva dentro le pareti di quei cento metri di struttura modulare di emergenza. Perché i paesani rimasti, che per farsi forza vicendevolmente, e per farsi voce verso i molti “chi di dovere”, nel frattempo avevano costituito un’associazione, si erano presi cura di quegli spazi, c’avevano appeso dei quadri, salvati da qualche casa crollata, in cui un artista locale, aveva impresso lo skyline di tempera del paese che non c’è più. Avevano fatto da mesi di quei volumi, un po’ asettici e incostanti nelle temperature, un punto di riferimento, di socialità, dove si poteva condividere un piatto di pasta e le ultime informative su come, fuori, stavano andando le cose. Anche l’aria, dentro quel container, sapeva di paese. E, una volta dentro, ho pensato che avrei dovuto, prima di entrarvi, togliermi le scarpe, impolverate peraltro dalla breccia, in segno di rispetto, come ho sempre fatto entrando, seppur da cattolico, in una moschea. Qualche giorno fa, ho letto che il Comune ha intimato all’associazione dei paesani, facendolo precedere dal distacco delle utenze, di lasciare la struttura. Perché, d’intesa con la Protezione Civile Regionale, quel container l’Amministrazione Comunale, ha deciso di assegnarlo ai Vigili del Fuoco. Se vuole, l’associazione dei paesani, potrà usufruire di uno spazio condiviso, all’interno di una struttura realizzata sempre da un Ente filantropico privato. Che però, nel frattempo, il Comune ha assegnato in via esclusiva, ad un’altra associazione. Ora, si potrebbe entrare nel merito amministrativo e procedurale della vicenda; alcuni paesani m’hanno mandato i carteggi intercorsi tra i vari soggetti coinvolti. Ma non mi interessa farlo, perché così, davvero si rincorre quella che io chiamo la “strategia dell’abbandono”, che è fatta anche dal rimanere schiacciati da carte e burocrazia. Mi piacerebbe che questa storia piccola di paese, potesse essere risolta con uno degli antidoti più efficaci contro la “strategia dell’abbandono. Quello, che da ancor prima del terremoto, è stato sgretolato in Italia da una certa idea, e pratica, di politica e di amministrazione. Il buon senso. Quello che per i pompieri, che sono certo di questa situazione se ne dispiacciono per primi loro, ti fa trovare e mettere a disposizione in qualche ora un altro container con le caratteristiche adatte. Quello che, se un paesano un po’ ribelle e arcigno, non vuole lasciare la Zona Rossa, a testimonianza del suo seppur originale senso si attaccamento a quei luoghi, sali su e con pazienza e capacità di mediazione lo convinci a scendere; non mandi i Carabinieri ad arrestarlo perché inottemperante all’Ordinanza Sindacale. Ecco, io non saprei prevedere come finirà la vicenda del container. Se prevarranno la rigidità e l’intransigenza delle carte firmate, in quel paese si allargherà ancora di più la faglia immateriale tra cittadini e politica, questo è certo. Così come io non so, se e quali, saranno i tempi della ricostruzione materiale, ma il vero ritardo, e la vera emergenza che si prolunga, è quello della ricostruzione etica e civile di una comunità e di un territorio. Che il terremoto ha riempito di lutto, precarietà e disorientamento. E che, tutti sanno, paesani e “chi di dovere”, che niente potrà più essere come prima. Ma i paesani a voler essere un nuovo paese ci avevano pensato e iniziato a lavorare, e l’avevano intanto messo dentro un container. Quelli del “chi di dovere” no. Presi da altre incombenze e vicende. Il Sindaco da migliaia di problemi, crollatigli addosso in una notte d’estate insieme al paese; problemi tutti più grandi di lui. Il Responsabile della Protezione Civile Regionale, da qualche tempo impegnato a dover fornire delle spiegazioni alla Guardia di Finanza e al Magistrato di competenza. Ah, giusto. Il paese si chiama Pescara del Tronto. Quello dalle macerie ancora polverose e fumanti, e di poveri corpi raccolti da sacchi e lenzuoli, che prima di lì è solo una scena che hai visto nei film di guerra, e che la casualità della vita mi ha messo davanti agli occhi una mattina d’agosto. Il paese che poi, e non può essere diversamente, ti porti dentro tutta la vita che ti resta. Di giorno, e di notte.


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