lunedì 6 maggio 2019

IL TERREMOTO DOPO IL TERREMOTO


«Prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese.» ebbe a dire l’arcivescovo di Udine, Mons. Alfredo Battisti, pochi giorni dopo quel 6 maggio 1976, di cui ieri sono ricorsi 43 anni. Ed in effetti, quella saggezza di guida popolare e religiosa, portò in Friuli ad una ricostruzione che ancor oggi rappresenta un esempio di serietà ed efficienza, e che allora in dieci anni portò a rifare da capo interi paesi.
Altrettanto non può dirsi per quanto riguarda il terremoto cosiddetto Centro Italia, rispetto al quale di anni ne sono passati quasi tre. E non tanto perché in questi territori non ci siano Pastori della Chiesa saggi e lungimiranti.
In realtà, nello specifico marchigiano, il fenomeno più grave e sciagurato, mi si passi con comprensione e benevolenza la provocazione da quanti vivono questo dramma post sismico sulla pelle, è il permanente fenomeno del “terremoto dopo il terremoto”.
Ovvero, dopo la catastrofe naturale che dal punto di vista geofisico ad un certo punto si esaurisce, quella di una visione del futuro di questi territori del tutto sbagliata. Frutto per primo di un’eccitazione della politica, che lega oramai la sua esistenza esclusivamente al consenso immediato e all'autoperpetuazione.
La crisi economica e finanziaria del primo decennio del nuovo secolo, aveva già messo in discussione il cosiddetto “modello marchigiano”, specie nelle aree interne. Già prima dei sismi del 2016 e del 2017, le diverse classi dirigenti annaspavano alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo economico, ed annusando alcune dinamiche toscane e umbre, avevano già intrapreso azioni tese ad investire fortemente su una nuova, almeno per queste terre, industria, quella del turismo. Considerandola una sorta di nuova lotteria vincente, sulla quale puntare tutto.
Pensandola, ed è qui l’errore, non come economia complementare ad altri settori, ma del tutto sostitutiva dei comparti economici che per decenni avevano fatto la ricchezza delle Marche, ma implosi con la crisi.
Tutto questo ha assunto, dopo il 2016, strategia assoluta e dominante. Che ha sedotto tutti, politici, imprenditori, pezzi di società civile. Con investimenti stratosferici di denaro pubblico dal punto di vista economico, e il più delle volte grotteschi sotto il profilo realizzativo, oltreché divisivi nell’opinione pubblica.
Alimentando ancora la frustrazione, la disperazione, la rassegnazione e l’indignazione delle popolazioni dei territori colpiti.
Sbagli su sbagli, che potrebbero avere conseguenze serie e di lungo periodo, generati proprio nel pensare che l’economia delle aree interne marchigiane possa davvero sostenersi ed alimentarsi esclusivamente con il turismo. Di qualunque tipologia: di massa, lento, esperienziale, responsabile, etc etc.
La convinzione, che possa essere l’economia turistica, a tenere le persone nei territori, a rimanere o tornarci. Anziché il lavoro generato dalla “fabbrica”, intendendo questa espressione in senso estensivo e non tradizionale.
Ma l’industria del turismo ha una caratteristica del tutto specifica: che non gli serve una comunità, degli abitanti, un paese. Gli bastano semplicemente dipendenti e clienti, ed infrastrutture per far muovere velocemente le persone, insieme a contenitori dove farle consumare e spendere in poche ore, per poi rispedirle a casa.
Faccio un banale esempio, per conoscenza diretta. Vivo a Genga, il paese delle Grotte di Frasassi, una delle eccellenze del turismo nazionale. Duecentocinquantamila visitatori in media l’anno. Millesettecento abitanti il paese. Di questi, a occhio e croce, con l’attività turistica, diretta o indiretta, ci portano a casa uno stipendio mensile circa 400 persone, a tenersi larghi. E gli altri milletrecento abitanti? Se non ci fossero altri lavori a tenerli qui, o una qualità di servizi alla persona che giustifichi la residenza, perché dovrebbero vivere in questo posto? Tanto è vero, che storicamente anche qui dal Novecento, il lavoro prevalente è stato, ed è tutt'oggi, ben altro dal turismo. Se l’idea è quella che rimane sul posto solo chi vive di turismo, Genga avrebbe 400 abitanti. E neanche tanto, perché si può fare la guida turistica, il cameriere, il bancarellaro, come pendolari da un altro territorio o città.
Quell’arcivescovo friulano, tanti anni fa, nell’anteporre la priorità alle fabbriche, e cioè al lavoro radicato e residente, aveva chiaro in mente, che quello era il modo concreto per non far disperdere e frantumare le comunità, ma al contrario farle rimanere, seppur subito a ridosso del terremoto anche molto precariamente, coese e sul posto.
E allora credo che la visione che manchi, sia dovuta anche solo semplicemente all’ignoranza. Ci sono già nelle aree interne Regione, imprese innovative, legate alla manifattura ecologica ed ambientale, ai saperi e alla conoscenza, che hanno successo, internazionalizzazione e fatturato, proprio per il fatto che stanno in un paesaggio ed in un ambiente con determinate caratteristiche di qualità. Una fortuna che non avrebbero parimenti, se fossero localizzate in una fascia metropolitana, o in una desolata area industriale ed artigianale tradizionale. Questo ad ammissione per primo degli stessi imprenditori. Imprese fatte crescere da marchigiani, e che danno lavoro a marchigiani.  In questo, seppur espressione di un modello novecentesco di fabbrica e di lavoro, ha ragione Diego Della Valle, che animato anche da un sentimento di solidarietà, ad Arquata del Tronto in qualche mese c'ha impiantato un nuovo stabilimento della Tod's. Altro che  neo-colonizzatori di note multinazionali, introdotti da faccendieri locali, che con rapacità si stanno radicando sui territori colpiti dal terremoto.
Invertire la rotta, significa rimettere in ordine alcuni concetti e valori. Ritornare per primo a considerare il turismo come una preziosa opportunità economica, ma complementare, e favorire l’insediamento e la crescita di nuove “fabbriche” di alta qualità, integrate nel paesaggio e rispettose dell’ambiente. Così, avrà allora certezza, oltreché senso, ricostruire i paesi.
Altrimenti, davvero, mi si passi di nuovo la provocazione finale, meglio far spopolare definitivamente tutto, e consegnare la chiavi di questa parte dell’Appennino, all’amministratore delegato di questo potenziale parco divertimenti e outlet all’aria aperta.



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