lunedì 1 gennaio 2024

LA GUERRA "FUORIPORTA" *

«(…) penso alle mamme, che ricevono la lettera “signora ho l’onore di dirle che lei è mamma di un Eroe, questa è la medaglia”… la lettera e la medaglia… ma il figlio non c’è più… questo a me fa soffrire tanto»
(papa Francesco, 13 marzo 2023)

Quando il 546 Atac che attraversa questa periferia romana mi “sbarca” alla fermata Boccea/Torrevecchia, a pochi passi dal Grande Raccordo Anulare, intravedo subito, pur ancora distanti, due strutture che si distinguono dalla classica edilizia residenziale di questa zona: la cupola bianca della Basilica di Santa Sofia, e un tendone da circo, in un prato limitrofo alla chiesa.

La Basilica di Santa Sofia, così decentrata dalle “chiese importanti” della Capitale, e unica per disegno architettonico, è stata costruita tra il 1967 e il 1969, con i fondi raccolti dall’Arcieparca Josyp Slipyj, e inaugurata e consacrata alla presenza di Paolo VI. Josyp Slipyj, ucraino, subì come molti cattolici ucraini e russi, le persecuzioni del regime sovietico. Fu deportato nel 1945 in un gulag, e venne liberato nel 1963 da Chruščëv, in seguito alle pressioni politiche esercitate da papa Giovanni XXIII e da JF Kennedy. È noto che lo stesso Chruščëv, al momento della richiesta pontificia, rimase sorpreso del fatto che l’Epiaparca fosse ancora vivo.

Santa Sofia in Via Boccea a Roma, legata spiritualmente e per rito Cattolico-Bizantino alla Basilica di Agía Sofía a Istanbul e alla Cattedrale di Svjatoï Sofiï a Kiev, è la Chiesa nazionale a Roma degli ucraini.

La Basilica all’interno è molto bella, l’iconogragfia tutta a mosaico rievoca scene bibliche, Santi e Patriarchi della Chiesa d’Oriente. È difficile non lasciarsi trasportare dalla liturgia della messa che sta celebrando secondo il rito orientale don Giovanni, sacerdote ucraino originario di una cittadina vicino il confine polacco, ma da qualche anno in Italia, e in servizio spirituale, oltre che a Roma, anche a Follonica, in Toscana.

“Mi è impossibile staccare il pensiero da quello che accade da oltre un anno – mi racconta al termine della celebrazione – anche perché ho una App sul telefono che mi avvisa ogni volta che nella mia città scatta l’allarme aereo. Per cui è come se mi trovassi sempre lì.” Con lui a Roma, ci sono la moglie e due figli che da poco vanno alla Scuola Primaria, ma il resto della sua famiglia è in Ucraina.

Sono 147 le comunità religiose ucraine in Italia, con 87 sacerdoti. Che fanno di Santa Sofia un punto di riferimento fortissimo anche organizzativo, e non solo spirituale.

Il Rettore della Basilica è don Marco Jaroslav Semehen, in Italia dal 2005 per studiare teologia e per consacrarsi sacerdote. “La guerra è iniziata dal 2014, con il Donbass e la Crimea – spiega misurando le parole, e non solo per ragioni di pronuncia linguistica – ed è una storia molto complessa e dolorosa, difficile da giudicare da qui. Al di là delle notizie che arrivano a noi dall’informazione, non si sa realmente quanti morti già ci sono stati, e quanto la guerra durerà”. Don Marco non è ottimista, e su questo ha un parametro di valutazione inconfutabile: quello dei disegni dei bambini ucraini. “Se nel primo periodo seguito all’inizio della guerra – spiega – i disegni fatti dai bambini erano a colori, ora la loro dinamica espressiva è sempre meno colorata e la grafica sempre più cupa; segno che la speranza che il conflitto finisca presto è sempre minore”.

Si ferma poi per delle parole di affetto verso una signora che era prima in chiesa per la messa. “Lei è in Italia da qualche anno – mi dice – ma ha un nipote di vent’anni che dall’inizio della guerra, sta combattendo nella zona di Bucha, e lei viene tutti i giorni qui a pregare”. Intanto mi porta a vedere i locali interni della parrocchia. “Vedi questo corridoio e queste stanze? – indica – Nelle prime settimane a seguito del 24 febbraio del 2022, erano talmente piene di aiuti, donazioni, materiali per il popolo ucraino che arrivavano da tutta Italia, che gli scatoloni toccavano il soffitto e si riusciva a malapena a passare”.

Grande è stata la solidarietà degli italiani, da subito, e la Basilica di Santa Sofia è diventato lo snodo logistico cruciale per la raccolta e la spedizione degli aiuti. “Nelle prime settimane partivano da qui per l’Ucraina quattro Tir di aiuti umanitari al giorno – racconta Don Marco – e anche adesso, un camion o due a settimana parte sempre”. In quel periodo vennero qui, a dare la loro solidarietà, sia il sindaco di Roma Gualtieri, che il presidente della Repubblica Mattarella.

A questo punto, accompagnato dal Rettore, scopro la funzione di quel tendone circense che avevo avvistato sceso dall’autobus. Qui non c’è mai stato un circo, ma il tendone era, ed è tutt’ora funzionale al deposito e alla selezione del materiale donato da tanti soggetti, singoli e organizzati. “C’è stato un concorso di solidarietà inimmaginabile in questi mesi – dice il sacerdote – sono venuti ad aiutarci migliaia di volontari anche di altre religioni, perfino musulmani e buddisti; un gruppo di Scientology di Roma è stato qui ad aiutare per diverse settimane”.

Anche stamattina all’interno del tendone c’è una signora ucraina che sistema, selezione e separa per merceologia, le donazioni arrivate. Perché poi possano essere pronte negli scatoloni per la prossima spedizione; ma anche per dare qualcosa, indumenti, piccoli elettrodomestici, mobilio e altra oggettistica, a quelli che dalla guerra sono riusciti a scappare ed arrivare in Italia.

Perché poi, quando sei qui, la guerra si sposta da internet e dalla televisione, e la vedi “in presenza” appena fuori dal tendone. È la guerra di quelli che sono fuggiti, donne giovani e anziane, bambini, qualche uomo renitente all’arruolamento obbligatorio dai diciotto fino a sessant’anni, che con qualche espediente è riuscito a passare il confine. La guerra ora la vedi nella loro fisiognomica; le facce stanche, preoccupate, gli sguardi persi e distratti, gli occhi che si arrossano quando don Marco spende una carezza e una parola per ciascuno. Loro sono qui che aspettano; stamattina un pacco di generi alimentari che la Caritas distribuisce quotidianamente; e h24 quel whasapp, telegram o sms delle persone a loro care che sono rimaste in Ucraina. Sperando sempre che non ritardi dalla consuetudine di invio quotidiano. Perché anche il minimo sfasamento orario, produce un picco di angoscia.

Quando ti guardano, e ti ricambiano un sorriso e un saluto, perché più di questo non riesci a fare e dire, come disorientato da questa situazione, allora vedi e senti tutto: le bombe, gli spari, il fumo, il freddo, il terrore.

Ogni news, diretta internet, analista geostrategico che ti spiega, diventano inutili, banali, superflui. La guerra qui te la spiegano, senza parlare, queste persone in fila davanti la tenda della Caritas, a qualche centinaio di metri dalla rampa del Grande Raccordo Anulare. Nel cortile di una Basilica orientale, inserita nel contesto edilizio e urbanistico della città di Roma, come una navicella spaziale in una foresta incontaminata.

L’aria che tira te la sintetizza don Marco: “Vorrei tornare in Ucraina, anche per vedere qualche ora i miei familiari. Ma se rientro adesso non tornerei più in Italia; perché c’è l’obbligo di arruolamento anche per i sacerdoti, e se mi rifiuto verrei considerato disertore e c’è la legge marziale.

In questi profughi d’occidente stremati, così come nei loro sacerdoti, si percepisce solo la speranza che la guerra finisca e torni la pace. Parola che in questi tredici mesi, è stata bandita dal lessico della politica, quasi fosse un’espressione oscena. Che, paradossalmente, è rimasta solo sulla bocca di papa Bergoglio. Il quale, nel giorno del decimo anniversario del suo “trasgressivo” pontificato, in un podcast per Vatican News, dice “per i miei dieci anni da papa, regalatemi la pace”. “L’obiettivo non è di raccogliere informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare”, scrive sempre papa Francesco nella Laudato Si’.

Venire a conoscere questa realtà ai “bordi di periferia” romani, riesce davvero a trasformare in sofferenza personale quello che, dal 24 febbraio dell’anno scorso, sta vivendo la popolazione civile ucraina.

*pubblicato su comune-info.net il 23 marzo 2023



RITRATTO DI REGIONE DA UN AFFACCIO *

 Qual'è il ritratto delle Marche che si sono affacciate a questo nuovo anno?

Di una Regione di neanche un milione e mezzo di abitanti, da anni in crisi, come si dice, "di sistema"; e che dal 2008, anno del crack platenatrio della Lehman Brothers, ha iniziato inesorabilmente una caduta a livello economico, industriale, sociale e civile; e della quale non si percepisce ancora la frenata d'arresto.

Le Marche "provate" da terremoti, alluvioni, e dal ribaltone di un sistema politico-istituzionale; che l'hanno portate ad essere governate da Fratelli D'Italia, dopo decenni di democristianesimo: prima "merloniano", poi prodiano-ulivista, infine piddino a trazione pesarese.

Una Regione costretta, nel corso degli anni passati, a fare i conti con il fasciorazzismo assassino di Mancini a Fermo nel 2016, e poi con il fascioleghismo stragista di Traini a Macerata nel 2018.

Una Regione in cui, dati Istat alla mano, solo nel biennio 2020-21, circa 15.000 abitanti under 40 hanno scelto di andarsene via: 9000 fuori Regione e 6000 all'Estero. Più dell'1% della popolazione si è trasferito altrove; una cittadina grande come Urbino, "betlemme" di uno dei "Signori del Rinascimento", Federico da Montefeltro, che si "delocalizza" di progressivamente da un'altra parte.

Che Marche sono quelle che, "sedendo e mirando" dal balcone leopardiano del Colle dell'Infinito, è possibile scorgere in queste prime settimane del 2023? Qual'è il segno prevalente? Non quello orografico di una tavola di Tullio Pericoli, ma quello civile?

Forse quelle del reportage di Report sulla Fileni, l'azienda padronale di un vecchio ragazzo di bottega di un'officina meccanica, che negli anni è diventato uno degli imperatori d'Italia dei polli?

O quelle dei tanti cittadini senza etichette e bandiere, che ad Ancona vanno al Porto ad accogliere i migranti che arrivano con le navi ong, volendo testimoniare che questa è una terra accogliente e solidale? Che niente hanno a spartire con l'aria politica che da due anni tira nel palazzo della Regione, sovrastante il porto dorico, e ne tantomeno con quella ancor più gelida e nera che ha iniziato a soffiare in Italia dal 26 Settembre 2022.

Oppure, quelle ancora dei ragazzi marchigiani dei movimenti per la giustizia climatica: da quelli di Friday for Future, ad Ultima Generazione, fino ai cattolici del Movimento Laudato Sì? Che, da parents, come si definiscono tra loro le diverse organizzazioni, si ritrovano sotto il Tribunale del Capoluogo di Regione per esprimere solidarietà al giovane attivista di Ultima Generazione, Simone Ficicchia, per il quale si chiesto a Milano un provvedimento esemplare per le sue azioni di disobbedienza civile nonviolenta.

Quali sono le Marche vere, reali, di questo inizio Gennaio 2023? Le prime, quelle del servizio di Report, o le altre? Tutte, o nessuna allo stesso tempo?

Quelle di Fileni sono le Marche di sempre, del modello marchigiano e dei distretti, del metalmezzadro che diventa "im-prenditore". Quelle che conta "la saccoccia", della genialità intraprendente e al tempo stesso spregiudicata.

Quelle che il "bene comune" è per primo quello "del padrò", legato alla politica che comanda; anzi, che spesso lui stesso comanda e dirige, come se fosse la sua azienda. In cui deputati e senatori del territorio, consiglieri regionali e sindaci, rendono conto, ancor prima che alla sede del proprio partito, alla bottega del "padrò". Le Marche dei dipendenti zitti e muti, intimiditi e ricattati, tacitati con il "bonus-spesa pandemia" o con la cena aziendale a Natale. La Regione in cui, pur di fare business, si ha sfregio continuo dell'ambiente, del paesaggio, dei piani regolatori (chè tanto poi si telefona al Sindaco e arriva la variante).

Quelle dei cittadini che appendono dalla corniche dorica lo striscione "Welcome Refugees", aspettando l'attracco dell'Ocean Viking e della Geo Barents, sono le Marche che rappresentano le radici ed il presente di una terra prevalentemente di donne e uomini accoglienti, solidali. Ma i marchigiani, dopo decenni di rassicurante sottomissione democristiana, di delusioni ed imbarazzi progressisti e piddini, e soprattutto di perdita di un diffuso benessere economico e sociale, hanno avuto, ed hanno, ancora paura. Qui, il fallimento di Banca Marche, e del suo "sistema" politico e dirigenziale, condannato a 42 anni totali di reclusione, ha fatto tremare più dei terremoti.

E di conseguenza, la virata a destra diffusa in tutta la Regione, è soprattutto la la risultanza dell'aver voluto dare una "punizione" ad una classe dirigente democratica e progressista compromessa e sottomessa, incapace di dirigere queste terre con rigore, visione e radicalità. Chiusa alla società, reticente nel mettere in campo un cambiamento.

Ed infine le Marche dei ragazzə, ma anche di qualche adulto di generazioni più mature. Di quellə che hanno capito che il futuro, il loro per primo, è appeso al filo del cambiamento climatico, e alle conseguenze delle catastrofi naturali che arriveranno. Un processo scientificamente e cronologicamente segnato, che riguarda non solo il ghiacciaio Thwaites dell'Antartide e l'Amazzonia, i popoli del Sahel o quelli del sud-est asiatico; ma anche le valli marchigiane travolte dall'alluvione dello scorso Settembre (con i suoi 12 morti ed ancora una dispersa), le città costiere in overbooking demografico e in superfetazione urbanistica e cementizia, e le greggi e le colture di un appennino senza più neve d'inverno, e senza più acqua d'estate.

Sono i ragazzə che spalano il fango nella Senigallia inondata dell'acqua del Misa, mentre i padri ed i nonni, nelle stesse ore, come in un remake di sliding doors, continuano a fare l'aperitivo lungomare come se niente fosse successo. Gli stessi giovanə, che in sabato mattina di Settembre, a scuola da poco iniziata, quel fango l'hanno portato fin sotto il portone della Regione, tirandolo sulla vetrata e sui muri, come una secchiata di rabbia per quelle morti drammatiche ed inconcepibili, e per quei danni evitabili, se negli anni si avesse avuto cura del territorio, anziche spremerlo come un limone.

Sono i giovanə anconetani, che ricordano alla propria Sindaca, quella premiata anni fa come "la migliore del Mondo", che al porto storico della città, anziché farci attraccare le enormi cruise da crociera, bisogna al contrario consentire ai cittadini di poter pedalarci in bicicletta; e che anzichè spendere 400.000 per le luminarie di Natale, sarebbe meglio deliberare per istituire l'Area Marina Protetta del Conero.

Sono gli adolescentə pesaresi del Movimento internazionale Laudato Si, ispirato all'Enciclica di Papa Francesco, che recuperano una vecchia area abbandonata vicino la loro parrocchia, per trasformarla in un parco ed in uno spazio di nuova socialità della periferia pesarese.

Tutti movimenti ed esperienze, che oltre alla specifica missione per la giustizia climatica e per la cura della Casa Comune, pongono alle generazioni adulte, alla politica ed alle istituzioni, un forte campanello d'allarme democratico.

Perchè in fondo, dietro ad ogni lesione del paesaggio naturale, c'è per prima, enorme, una questione di violazione del valore e della funzione della democrazia; un perseguito restringimento della partecipazione democratica nella formazione delle scelte, e della condivisione trasparente delle informazioni.

Si, in fondo, raccontare i territori, per primo quello in cui si abita, significa in questo nuovo anno, scegliere di dare spazio e voce a questa generazione senza capi, con più autonomia dai padri, e soprattutto senza "padrini".

Il resto, in questo territorio abitato da neanche un terzo della della città di Roma, è meglio iniziare a non raccontarlo più. Rinunciando anche al diritto, ed allo sfogo, alla "denuncia"; spesso neanche raccolta "da chi di dovere".

Sperando che, piano piano, la fiamma si spenga da sola.

* testo per "Raccontare i territori", progetto di Comune-info - 15 gennaio2023





CINGHIALI, AFFARI E DISOBBEDIENZA*

L'approvazione dell’emendamento di Tommaso Foti (Fratelli d’Italia) alla Legge di Stabilità, sull’estensione della caccia al cinghiale nelle aree protette e nelle città, ha avuto un’eco molto forte, tanto che alla fine, è stato paradossalmente, l’argomento più riportato dai media della prima Finanziaria del Governo Meloni.

Per non cadere nel blitz di Foti, i deputati della Commissione Bilancio della Camera, avrebbero avuto tutti gli strumenti conoscitivi. Basterebbe infatti che, relativamente alla proliferazione dei cinghiali in Italia, i parlamentari avessero letto la relazione scientifica proposta in audizione alla Camera qualche mese fa dal Andrea Mazzatenta, uno dei massimi esperti a livello europeo di fauna selvatica.

La motivazione, blandita a giustificazione di questo provvedimento, e di tutta una campagna mediatica e politica che è in corso da anni, sarebbe quella della sicurezza. Ma è noto che un conto è la “percezione di insicurezza” che possono avvertire le persone, altra è la fattualità reale di situazioni in cui la sicurezza non è garantita.

Allora verrebbe da chiedersi per primo, se a livello di percezione, sia più pericoloso avvistare uno o più cinghiali, o trovarsi a convivere nello stesso condominio con dei vicini che, per il fatto di andare a caccia, hanno un armadio di fucili e munizioni nello sgabuzzino.

A Fabriano, nelle Marche, capita spesso che qualche cinghiale si aggiri in città, considerato che è a ridosso di un territorio montano e boschivo. Però poi, in questa città, le Forze dell’Ordine, qualche settimana fa, intervenute a “rasserenare” la più classica delle liti condominiali, per ragioni di precauzione e sicurezza, hanno sequestrato tutto l’armamentario di caccia che uno dei condomini un po’ irascibile, deteneva in casa.

Ma il tema di fondo politico è questo: come mai una minoranza estrema di cittadini italiani, circa settecentomila (in progressiva e costante diminuzione, oltre che di età media molto alta), che praticano la caccia, ha da sempre un’influenza così forte e incisiva sulla politica? Sia quella nazionale, che quella territoriale. E che copre tutto l’arco costituzionale, dall’estrema destra all’estrema sinistra, fatta eccezione per i Verdi (non a caso, all’emendamento Foti, non sono seguite proteste, tranne quelle di Angelo Bonelli; l’ex-missino di Piacenza, in fondo, con la sua iniziativa notturna, ha fatto un piacere quasi a tutti).

Un condizionamento così forte, che ogni tentativo di iniziativa referendaria per l’abrogazione della legge che regola la caccia, è sempre fallito. Sia per il mancato raggiungimento del quorum nei Referendum del 1990 e 1997, sia per la mancata raccolta delle firma necessarie per un nuovo referendum nel 2021.

Tra l’altro, questa attività che molti, forzosamente, qualificano anche come sportiva e ricreativa, nel corso degli anni ha perso rovinosamente iscritti; tanto che, per fare un esempio, la Giunta di destra della Regione Marche (dove vivo), tra le prime iniziative assunte all’indomani del suo insediamento nel 2020, è stata quella di esonerare i nuovi giovani cacciatori dal versare per i primi due anni la tassa di concessione regionale (l’età media dei cacciatori nelle Marche è oltre i sessantacinque anni).

Come mai allora la politica è così supina alla categoria dei cacciatori e alle loro potenti associazioni? Quelle riconosciute sono sette (come le “sorelle” multinazionali del petrolio): Federcaccia, ANUU, Libera Caccia, Enalcaccia, Arci Caccia (“i compagni della natura” recita il logo, buffo no?!), Italcaccia e Ente Produttori Selvaggina.

Di certo la caccia non è una attività per poveri, di chi per condizioni di indigenza è costretto a trovare espedienti per mangiare, ma il suo esercizio annuale è molto costoso per ogni cacciatore.

Da uno studio dell’Università “Carlo Bo” di Urbino, commissionato dall’Anpam (associazione nazionale produttori armi e munizioni), affiliata di Confindustria, ultimo dato del 2019, la spesa totale sostenuta ogni anno dai cacciatori ammonta a 2.816.971.170 euro comprese armi e munizioni. Nello specifico sono state considerate le seguenti voci di spesa: armi (quota ammortamento), munizioni, abbigliamento, cani (acquisto, mantenimento, veterinari, ecc..), accessori (es.: richiami, buffetteria, coltelli, GPS), kit pulizia arma, tasse e concessioni, trasferimenti in Italia, pernottamenti e viaggi all’estero, piccoli consumi (pranzi, bar, ecc.). Considerato poi l’indotto generato, stimato in 2.388.595.266 euro, si arriva a 5.205.566.436 euro; all’incirca lo 0,4 del PIL italiano.

Sempre secondo l’Università, il numero totale di addetti attivati dalla caccia, sia per prodotti che per servizi, è pari a 36.826.

Considerato che nel 2019 i cacciatori erano di più, circa 760.000, si può stimare che ogni cacciatore spenda mediamente quasi 4.000 euro all’anno per la sua “passione”.

La risposta quindi è molto semplice: la caccia è un enorme business del nostro Paese. Per primo elettorale: i voti dei cacciatori sono contesi da tutti gli aspiranti Deputati, Consiglieri Regionali e Sindaci (e fino al 2013, prima dell’abolizione dell’elezione diretta dei vertici dell’Ente, soprattutto dai Consiglieri Provinciali, in quanto l’attività venatoria era una delle funzioni più importanti esercitate dalle Province). Ed in molti casi, non è scandaloso e provocatorio parlare di vero e proprio voto di scambio. Con passaggi di mano di contributi elettorali non dichiarati, oltre che dei tradizionali “santini”.

Nell’indotto economico intorno alla caccia, vanno poi considerati tutti i traffici più o meno leciti dell’allevamento dei cani da caccia, e l’attività commerciale della ristorazione italiana (che in particolare riguarda i cinghiali).

Relativamente poi ai cani da caccia, molte di queste povere bestie, spesso finiscono nei canili (quando va bene), o peggio sotto una macchina. Perché tanti di questi “grandi custodi della natura”, che si dicono da soli essere i cacciatori, quando vedono che nella fase di addestramento un cucciolo non è “capace” di fare il cane da cerca e riporto, lo abbandonano senza tanti complimenti in mezzo alla strada, o ai bordi di una zona rurale non abitata (a me è capitato di diverse volte di raccogliere poveri cagnolini da caccia che vagavano senza meta affamati da giorni).

Ma la cosa più esilarante, rimane proprio il fatto che i cacciatori si credono davvero una sorta di ambientalisti antelitteram, che con il loro girovagare sparando in mezzo ai campi o ai boschi, fino all’impallinare persone a ridosso delle abitazioni, monitorano il territorio e si occupano della sua salvaguardia. Mentre invece, è lecito chiedersi se una persona, non più vivente nel Paleolitico (in cui non erano state ancora inventate l’agricoltura e l’allevamento), ma nell’Antropocene, che si sveglia di notte per andare a sparare a delle creature viventi per puro divertimento (o come dicono “per passione”), sottraendo molto tempo alle relazioni familiari e amicali, possa essere un individuo con seri disturbi della personalità, di cui dovrebbe prendersi cura i servizi sociali territoriali. Mettendo a serio repentaglio per primo la propria vita, e quella degli altri. Ogni stagione venatoria, infatti, sono molti gli incidenti di caccia, in cui il più delle volte i cacciatori si “fucilano” tra di loro, o che sparano ferendo anche mortalmente persone che non c’entrano niente, che si trovano per caso, o per residenza, nei paraggi delle loro battute di caccia. I dati dell’Associazione Nazionale Vittime della Caccia (e già, in Italia, dopo le associazioni di vittime di stragi, terrorismo e mafia, abbiamo anche questa…) ci certificano che solo nella stagione venatoria 2021/2022, ci sono stati 24 morti (di cui 12 non cacciatori) e 66 feriti (di cui 23 non cacciatori).

Immaginate cosa potrebbe diventare questo tragico bollettino, quando la caccia al cinghiale, come approvato nel testo della Legge Finanziaria il 24 dicembre, verrà aperta tutto l’anno, anche nelle zone urbane abitate e nelle Aree Protette (dove per attività diverse del tempo libero, circolano tantissime persone, con tanti bambini).

Proprio nelle Marche, nel fermano, qualche giorno prima di Natale, un anziano cacciatore è stato ucciso da un proiettile vagante, partito durante la battuta dalla sua squadra di “cinghialari”, in cui era presente anche il figlio. Ma già l’anno scorso, a Camerino, il 2 dicembre è stata sfiorata la tragedia, quando un proiettile vagante partito da una carabina per cinghiali, ha colpito uno scuolabus che stava portando a casa i bambini dalla scuola.

Un proiettile da carabina per cinghiali, qualora non dovesse centrare il bersaglio diventando vagante, ha una gittata di qualche chilometro; e le battute di caccia, vengono effettuate da squadre di cacciatori formate da più di venti elementi, che si muovono tutti assieme contemporaneamente come un reparto militare. Figuratevi lo scenario.

Nelle squadre di “cinghialari”, ci sono tante persone equilibrate, ma anche altrettante socialmente disturbate, spesso anche minacciose e intimidatorie (durante la mia esperienza di Consigliere della Provincia di Ancona dal 2007 al 2012, ho avuto modo di conoscere questo mondo molto bene). Persone che magari la sera prima si frequentano a una cena di un club filantropico o a teatro, e che poi, il mattino dopo, finita la battuta di caccia, si ritrovano a compiere, con le carcasse dei cinghiali abbattuti, sanguinolenti riti scaramantici, tipici delle primitive comunità precolombiane del Centramerica (basta entrare in qualche pagina o gruppo Facebook di cacciatori, per vedere foto e video agghiaccianti, postati per autoesaltazione; ma anche i profili personali abbondano di immagini agghiaccianti).

Ricordo di aver conosciuto un tranquillo, diligente, ed educato funzionario di banca, che poi, appena dismesse giacca e cravatta, diventava un esaltato cacciatore di giorno, e anche bracconiere di notte.

Le squadre sono molto “pittoresche” anche nelle loro denominazioni: storiche, mitologiche, politiche. Ad esempio, una si chiama “Aquila Nera”; considerato che in natura l’aquila non è nera, ma nella simbologia politica è nera quella sulla bandiera della Repubblica Sociale Italiana, si possono fare delle riflessioni.

Rispetto a quella ai volatili, la caccia al cinghiale è un business più forte, per movimentazione elettorale ed economica. Il cinghiale “rende”. A tutti. Ai politici, ai cacciatori, ai ristoratori (ai quali le carni arrivano il più delle volte a seguito di scrupolosi controlli sanitari, ma anche “sottobanco”). Più cinghiali ci sono, meglio è. Tanto che questo, fa saldare innaturali e pessime alleanze tra associazioni venatorie e organizzazioni agricole. Riguardo proprio all’emendamento approvato nella Manovra, immediatamente sono usciti i comunicati stampa di plauso al Governo sia da parte di Coldiretti, che della CIA. Dino Scanavino, che è stato il Presidente Nazionale della CIA fino alla primavera 2022, in un’intervista rilasciata a un quotidiano nazionale nel 2021, avanzò persino la proposta di concedere una sorta di gettone/indennità statale ai cacciatori, per il loro encomiabile impegno di difensori dell’agricoltura italiana.

È provato che spesso sono stati, e sono, gli stessi cacciatori a immettere di nascosto nottetempo esemplari di cinghiali nei territori, ai fini della loro biologica moltiplicazione per l’attività di caccia. E i capi immessi, sono spesso frutto di incroci con i suinidi, provengono dall’Est Europa, e non hanno zoologicamente niente a che fare con il cinghiale autoctono dell’Appennino italiano; che pesa da adulto meno di un quintale, mentre nei nostri territori, spesso oramai vengono avvistati e abbattuti capi che pesano oltre i due quintali.

Clamorosa è la storia della zona del Parco del Monte Conero, nelle Marche. Lì il cinghiale non è mai stato una specie autoctona, ma ora è diventato predominante perché immesso dai cacciatori anni fa ai fini dell’esercizio venatorio, prima ancora che fosse istituita l’area protetta regionale.

Paradossalmente l’unica misura seria ed efficace per diminuire la proliferazione dei cinghiali, sarebbe l’abolizione della caccia. Ma ci sono per primo, specie in Europa, esperienze che non ricorrono alle carabine, ma alla scienza.

Il cinghiale non è poi così stupido. In zone dove l’attività di caccia viene intensificata di molto, oppure se in quel territorio mutano per antropizzazione, le caratteristiche naturali del paesaggio, gli ungulati si spostano e migrano in altre zone.

Nel fabrianese, nelle Marche, la realizzazione del raddoppio della superstrada 76 (il cosiddetto progetto Quadrilatero), in quasi vent’anni di lavori ha occupato ampie zone boschive e rurali con enormi cantieri rumorosi, illuminati a giorno anche di notte, e le nuove arterie stradali hanno ridotto di molto il paesaggio naturale. Qui si è potuto constatare che questi processi hanno indotto la fauna selvatica a spostarsi da alcune zone in altre più tranquille, dove in precedenza c’era molta meno presenza di popolazione animale. E la riduzione di paesaggio naturale, ha significato anche una minor quantità di acqua e di cibo, tanto che i cinghiali da anni si sono spinti per fame all’interno della zona urbana della città di Fabriano (se poi, come è avvenuto per anni, in quella città, il ciclo della raccolta differenziata, viene organizzato con i sacchetti messi fuori i portoni per tutta la notte, è come se gli ungulati avessero a disposizione un servizio ristorazione take away…)

Altra balla che è stata raccontata in questi giorni, in cui i cinghiali sono stati i veri protagonisti della Manovra di Bilancio, è che nelle Aree Protette (parchi e riserve) non c’è alcun controllo delle popolazioni della fauna selvatica, a partire dal cinghiale. Mentre, al contrario, nella stragrande maggioranza dei parchi, sono anni che vengono attuati piani di selezione, con abbattimenti programmati e fatti da agenti della Polizia Provinciale, o da singoli selecontrollori altamente formati. Ma questi soggetti, differentemente dalle squadre dei cinghialari, che ora si vorrebbero impiegare anche in città tutto l’anno, non creano né molto business economico, né tantomeno elettorale.

Da anni, ad esempio, nel Parco Naturale Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, centinaia di abbattimenti selettivi annui, vengono addirittura effettuati con cartucce “ecologiche” senza piombo, in quanto poi le carni debitamente controllate a livello sanitario, vengono messe sul mercato; ed è dimostrato che il piombo delle cartucce, altamente nocivo, rilascia nella carne del cinghiale un certo livello di tossicità per la salute umana.

Che fare, allora, di fronte a questo scenario, e nei prossimi 120 giorni, tempo dalla “bollinatura” della Legge Finanziaria in cui il Ministero della Sicurezza Energetica (già dell’Ambiente e della Transizione Ecologica) dovrà trasformare in atti e procedure l’indirizzo votato? Considerato che secondo un sondaggio commissionato a EMG Different nel febbraio 2022, il 76 per cento degli italiani vorrebbe l’abolizione della caccia, credo che debba essere lanciata una grande campagna di mobilitazione civile, individuale e collettiva, che metta in pratica alcuni principi e metodi della disobbedienza civile non violenta.

Non ci sono più le condizioni per far conto sulla politica, né tantomeno sul successo di nuove iniziative referendarie.

Le associazioni ambientaliste e animaliste per prime, dovrebbero promuovere tra le persone, chiedendo un piccolo impegno concreto, una campagna civile il cui slogan potrebbe essere, parafrasando un vecchio slogan: “Conosci un cacciatore? Digli di smettere”.

Si, perché ognuno di noi conosce almeno un cacciatore. Molto spesso è una persona che quotidianamente ci troviamo accanto: un parente, un amico, un collega di lavoro, quello con cui si scambia una battuta la mattina al bar o il pomeriggio in palestra; l’artigiano che viene a fare una riparazione a casa, il meccanico, il farmacista o il medico curante. Insomma, ci siamo capiti.

Verso queste persone che conosciamo, con educazione e rispetto, facciamo un’azione di moral dissuasion, cercando di metterle in contraddizione e a disagio per l’essere cacciatori; di farle esporre imbarazzate in un ambiente sociale (tipo al bar: “ciao Mario, ma ancora vai a caccia a sparare a delle creature viventi? Ma non provi un po’ di imbarazzo e vergogna?”).

Intervenendo sui social su notizie che riguardano la caccia, senza essere violenti verbalmente o offensivi, ma assertivi ed educati al tempo stesso (di solito si aspettano gli insulti, anzi se li cercano, sorprendiamoli con un altro stile).

Tanto più poi se sappiamo che questa persona è religiosa, e frequenta la Chiesa: “ma davvero vai in giro a sparare agli abitanti del Creato? Come fai a pregare San Francesco e nostro Signore?”

Un’azione lenta, dolce, che porti a far sentire queste persone dei disadattati, di cui non si ha piacere nell’incontrarli o nel doverli frequentare, e disagio nel conviverci sul posto di lavoro o in altre dinamiche relazionali.

Dopotutto, non è una missione impossibile, sono solo settecentomila.

Altra azione molto concreta, riguarda il boicottaggio economico e gastronomico: ciascuno, anche non necessariamente vegetariano e vegano, scelga di non essere cliente di ristoranti che servono nei loro menù piatti a base di selvaggina; chiediamo, quando prenotiamo un tavolo, se servono o meno selvaggina. Facciamo, a partire dal luogo di residenza, per ogni Comune d’Italia, una black list dei ristoranti che servono selvaggina, e facciamola circolare sui social e sulle chat.

Molte campagne civili, per conquiste di diritti, e per l’eliminazione di discriminazioni, che hanno avuto successo nella Storia, sono iniziate proprio con piccoli gesti individuali di boicottaggio. Perché non dovrebbe funzionare anche con i cacciatori?

*pubblicato su comune-info.net il 30 dicembre 2022



mercoledì 27 dicembre 2023

TUTTA LA RABBIA DI VAN GOGH*

La più recente, il 18 novembre, a Milano: la BMW M1 dipinta da Andy Warhol, cosparsa di farina 00. Sono arrivate anche in Italia le azioni dei giovani ambientalisti all’interno dei musei. A Roma avevano già imbrattato con una zuppa di piselli, “Il seminatore al tramonto”, un’opera di Van Gogh.

Ad ottobre il primo caso: sempre un quadro di Van Gogh, “I girasoli”, oggetto del lancio di salsa di pomodoro, da parte del movimento “Just stop oil”, alla National Gallery di Londra. Passando per il Museo del Prado di Madrid, dove le ragazze del collettivo “Futuro Vegetal”, si sono incollate le mani su due cornici di dipinti Goya, “Las majas”. Un purè di patate, invece, su una tela di Monet, “I pagliai” a Potsdam, in Germania. Ed altri.

Una forte novità, per la nostra opinione pubblica.

L'analisi della generazione adulta circa l’effetto dei cambiamenti climatici sul pianeta, è spesso uno sbrigativo “il danno l’abbiamo fatto noi, adesso le conseguenze risolvetele voi”, rivolto alla generazione più giovane. Chiamando anche in causa il sistema scolastico, sulla necessità di promuovere una cultura ecologica tra i ragazzi. Quando, nella scuola, sono anni che vengono promossi progetti di formazione ed educazione ambientale. Infatti, se magari con i ragazzi ci si sforza di relazionarcisi e parlare, si scoprirà che sono molto responsabili nei comportamenti ambientali, sensibili, e profondamente informati su tutto. Cosa, che contrariamente, è totalmente deficitaria, e spesso assente, nella generazione degli adulti.

Finora, conoscevamo le attività del movimento internazionale Friday For Future, radicato anche in Italia, lanciato dalla giovanissima attivista svedese Greta Thumberg; abbiamo in Italia memoria, anche recente, di scioperi per il clima degli studenti. Anche a Greta all’inizio, la feroce opinione pubblica degli adulti, aveva riservato parole dissacranti, di scherno, in certi casi anche molto offensive: “malata”, “handicappata”.

In tutti i casi nei musei, ai dipinti non è stato arrecato alcun danno, essendo tutti protetti da lastre di vetro e scelti proprio per questa caratteristica. E gli attivisti sono entrati pagando il biglietto, ad eccezione di Londra, dove l’accesso ai musei statali è gratuito.

Altra caratteristica: gli autori di queste manifestazioni sono tutti giovanissimi, spesso poco più che adolescenti. E sono prevalentemente donne.

Inoltre, le opere d’arte colpite, hanno per soggetti, elementi naturali, o attività agricole che potremmo definire “sostenibili”.

Le reazioni sono abbastanza unanimi: sono dei “vandali”, “criminali”, e vanno puniti. Ho letto in un commento sui social (tra i più educati e civili), che per punizione, dovrebbero essere obbligati a leccare le protezioni di vetro per ripulirle. Anche i Direttori dei grandi musei del mondo, da Londra, a Parigi, New York, Madrid, Bilbao, fino a Firenze e Venezia, hanno in una lettera aperta, invocato maggiore sicurezza. Gli stessi musei che da anni, in vere e proprie politiche di greenwashing, riescono a tenere aperto, nel venir sempre meno le risorse pubbliche, grazie al mecenatismo di multinazionali legate alla produzione di fonti fossili, come la Shell, la Total, la British Petroleum, fino all’italianissima ENI.

A proposito di greenwashing, la stessa Fondazione Symbola, la cui mission è la green economy e l’economia circolare, ha tra i soci corporation come Intesa San Paolo (una delle “banche armate”) e McDonald’s Italia, oltre ad aver avuto tra i soci per molti anni l’ENI (tra i responsabili del disboscamento delle foreste mondiali per la produzione di biodiesel, compresa quella amazzonica), e nel Comitato Promotore Alessandro Profumo, ex ENI e attuale AD della Leonardo s.p.a. (tecnologie da combattimento e mezzi militari). Per questo i musei e le esposizioni d’arte, sono scelte dagli attivisti per le loro azioni.

Sempre nel settore però, i giovani attivisti, sono stati difesi e sostenuti dall’ICOM (International Council Musem), un’istituzione forse meno condizionata dalle lobbyes, che “vede la scelta dei musei a sfondo per queste proteste climatiche, come una testimonianza del loro potere simbolico, e rilevanza nelle discussioni sull’emergenza climatica”.

Una delle poche voci che, ragionando, ha compreso le ragioni e il metodo di queste azioni di disobbedienza civile, è stato il quotidiano Avvenire. La condanna verbale (per ora) arriva, va sottolineato, da un mondo esclusivamente adulto, occidentale, e di bianchi. Da un’opinione pubblica, composta ceti agiati e con importanti ruoli sociali. Mesi fa, in un talk televisivo, ho assistito a una scena pessima: il giornalista Federico Rampini, che si scagliava con violenza verbale, verso delle ragazzine di “Friday for future”, che a Torino stavano partecipando a un meeting sul clima. Un canuto e agiato intellettuale, che denigrava delle giovani che, per età, sarebbero potute essere le nipoti. Ma siamo sicuri che “i vandali” siano i giovani? O piuttosto, se ci fermiamo un po’ a riflettere, i vandali siamo noi? Le generazioni degli adulti, che consegnano a questi ragazzi un Pianeta (la Casa Comune) dove gli umani, per colpa delle scelte fatte, e di quelle che non vogliamo fare (basti vedere le conclusioni farsa della Cop 27 in Egitto), hanno i decenni contati, per gli effetti dei cambiamenti climatici.

Una cosa mi ha colpito dei giovani italiani: il loro movimento si chiama, non a caso, Ultima Generazione. Non vi sgomenta, pensare che questi adolescenti, anziché certi di essere il futuro, sono già consapevoli che la loro, sulla Terra, sarà l’ultima generazione di umani a poter fare qualcosa prima dell’estinzione climatica? E che la responsabilità è esclusivamente nostra?

Sono certo che Van Gogh, assieme agli altri grandi colleghi, starebbe dalla parte di questi ragazzi, nel vedere come, in nome di parole divenute rivoltanti, quali crescita e sviluppo, e per il dominio dell’economia e della finanza, abbiamo ridotto quei campi. In cui, al posto dei suoi girasoli e del paziente seminatore, ci sono interrati rifiuti industriali cancerogeni e distese di pannelli fotovoltaici; e seminate, anziché le biodiversità, le colture intensive delle multinazionali dell’agroalimentare (ad esempio la coltivazione dei noccioleti nell’Appennino marchigiano, l’ha introdotta l’azione di lobbing della Fondazione Merloni, con il progetto “Save the Apps…). Van Gogh, morto povero e in solitudine, ci lancerebbe addosso non solo le tempere, ma anche tavolozza e pennelli. A noi, che nel fare del capitalismo il nostro idolo, abbiamo distrutto la Casa Comune.

Costringendo l’“ultima generazione”, a un disperato flash mob, per farci capire (forse) che noi adulti, non abbiamo scelto né l’arte, né la vita. Ma, nel perseguire il nostro egoistico benessere, le abbiamo disprezzate entrambe.

 

P.S. Questi giovani movimenti, visto che siete tutti pratici anche in età avanzata, seguiteli sui social (Facebook, Instagram, Tik Tok). Così, vi renderete conto, che hanno ragione e fanno bene.

 

*pubblicato su comune-info.net il 1 dicembre 2022



IL FANGO, IL DOLORE, LA RABBIA *

Dolore e rabbia, ragazzi e ragazze che spalano il fango mentre tanti adulti continuano a fare lo spritz, il territorio preso a ceffoni per decenni, che oggi ce li ridà indietro con gli interessi... Intanto, come sempre accade in Italia dopo una disgrazia e catastrofe naturale, arriva, diligentemente orientata, la paradossalità della discussione politica: la colpa è degli ambientalisti e della burocrazia.

Gli ambientalisti in Italia non hanno mai contato nulla (anche per colpa di diversi “verdi saccoccia”, che hanno e continuano a rendere non credibile un movimento). Sarebbero gli ambientalisti ad aver bloccato i lavori di messa in sicurezza dei fiumi e del territorio, e degli interventi non fatti. Ma non è per caso, invece, che la colpa è dei lavori di depredazione del territorio fatti per decenni? La tombatura dei fiumi, come a Cantiano e in tanti altri paesi e città; il costruire case, impianti sportivi, parcheggi, scuole, finanche la nuova caserma per i Carabinieri (mai completata) in zone esondabili come a Genga Stazione; il disboscare monti, come l’Acuto, sopra Cantiano, per farci piste da sci; urbanizzare a dismisura ai fini turistici e commerciali la foce del Misa a Senigallia. Così, giusto per fare qualche esempio.

E invece, è colpa della burocrazia, se in tanti anni, decine di milioni di euro assegnati e spendibili per opere di manutenzione naturalistica e di prevenzione, non sono stati ancora spesi? Eppure per fare la Pedemontana Fabriano – Muccia (alluvionata subito nel primo tratto inaugurato pochi mesi fa), la Complanare a Senigallia, il Deltaplano a Castelluccio di Norcia, lo scempio alberghiero sui Pantani di Accumoli, la burocrazia non c’è stata ostacolare o ritardare gli scempi… Non ci sarà burocrazia nel far passare i nuovi binari ferroviari della Orte-Falconara, in mezzo al Parco Naturale e Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, sopra un’area che la settimana scorsa è stata esondata violentemente dalla piena dell’Esino. Per aprire la nuova Cava su Monte Sant’Angelo ad Arcevia, che la Provincia di Ancona vuole ottenere a tutti i costi da anni, lì non ci sarà la burocrazia ad ostacolare.

Dovremmo smetterla con questa noiosa balla della burocrazia e degli ambientalisti criminali. Oppure la colpa è dei giovani di Fridays For Future Italia, sbeffeggiati da tanti, tra gli ultimi quel guerrafondaio e “irriducibile” tifoso del capitalismo statunitense, Federico Rampini? Magari invece è proprio di molti della generazione di Rampini, e di quello che vivono e pensano come lui.

Ultima balla, la natura maligna. Proprio un marchigiano, molti anni fa, Giacomo Leopardi, si era soffermato molto su questo tema. Per arrivare alla conclusione, che maligni non fossero i Sibillini che scorgevano dal Colle dell’Infinito, ma i suoi compaesani di Recanati.

*pubblicato su comune-info.net il 20 settembre 2022










giovedì 26 maggio 2022

AVE MARIA GUARANI'

Sono stato qui l’ultima volta tanti anni fa, da ragazzino. Mi ci portarono da Jesi i miei genitori. Ricordo anche che poi per diversi anni, causa crolli post sisma del 1997, l’accesso al Santuario fu interdetto per ragioni di sicurezza.

Se non fosse stato per il workshop di narrazione del paesaggio nel Parco Naturale Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, organizzato dall’Associazione “Bagatto Percorsi Creativi” con la “Scuola di Letteratura e Fotografia Jack London”, probabilmente non sarei venuto di nuovo qui per molto altro tempo.


Arrivando in macchina, prima della radura, mi colpisce la cura con cui è stato messo in sicurezza e valorizzato questo luogo: ripristinata la strada bianca, nuove transennature ecocompatibili, cartellonistica informativa, panche e tavoli per pic-nic. Con il sostegno dell’Unione Montana Esino-Frasassi e tanto generoso volontariato locale.


Sceso dalla macchina, faccio l’ultimo tratto a piedi dove si apre la radura. C’è già gente che è arrivata per la Messa, che si tiene all’aperto, sotto l’ingresso del Santuario, sfruttando un affioramento di roccia, apparecchiato ad altare. Il sacerdote sta preparandosi per la celebrazione assieme a dei laici; poi indossa i paramenti sacri, ed inizia la Messa, in un italiano ancora un po’ incerto. Ci sono tutte persone del posto, alcune già conosciute, abitanti delle piccole comunità che insistono su questo versante della montagna fabrianese.


A Messa da poco iniziata arrivano anche lo scrittore Angelo Ferracuti, fondatore della Scuola Jack London, il giovane fotografo Leonbattista Scacchettti (autore delle foto) e Laura Trappetti dell’Associazione Bagatto di Fabriano.


Il sacerdote, che è anche parroco delle frazioni di Precicchie e Poggio S. Romualdo, è un giovane missionario centroamericano, di El Salvador.


Mentre la Messa prosegue, osservando la scena nel suo insieme, naturalistico ed antropico, mi viene in mente uno dei tanti quadri scenografici del film Mission, il capolavoro di Roland Joffé del 1986, con Robert De Niro e Jeremy Irons.


“Stiamo in Mission all’incontrario”, penso tra me e me.


La Messa nel bosco appenninico, anziché nelle foresta pluviale vicino le Cascate dell’Iguazù; il prete evangelizzatore, anziché bianco e occidentale, è indigeno e centroamericano; i fedeli, abitanti dei villaggi locali, anziché indios della tribù Guaranì, sono bianchi ed occidentali; precisamente fabrianesi.


Una suggestione cinematografica, che oltre ad emozionarmi, la dice lunga sul processo di secolarizzazione oramai molto allo stadio avanzato, e sulle difficoltà della Chiesa Italiana di poter coprire i tanti territori delle Parrocchie, diffuse e radicate in tutto il Paese.
Alla fine della Messa, grazie alla signora Franca, che all’anagrafe di chiama Francesca Perini, appassionata volontaria locale della “Fraternità Missionaria di Cristo Crocefisso” di El Salvador, faccio conoscenza con il giovane parroco salvadoregno di queste frazioni, Padre Jorge detto Don Giorgio, e con il diacono dell’Honduras, Fredie, che lo affianca nel servizio pastorale nelle Parrocchie di questa parte della Diocesi fabrianese.


È l’occasione per conoscere con precisione questo prezioso progetto pastorale, avviato anni fa dal Vescovo di Fabriano Mons. Giancarlo Vecerriga, e proseguito dai sui successori, Mons. Giovanni Russo e l’attuale Mons. Francesco Massara, che lo sostiene con convinzione.


Un’esperienza che consente a questo territorio montano, nella crisi strutturale delle vocazioni sacerdotali, di avere delle parrocchie vive, le Chiese aperte, le comunità locali impegnate e motivate, oltre che spiritualmente, anche socialmente.
Franca ed altri volontari, sono impegnati da anni nel sostegno della missione in El Salvador, fondata dalla figura carismatica di Padre Abel Fernàndez, scomparso qualche anno fa, che in quella regione del Sud del mondo, rappresenta il solo presidio per le comunità native, di assistenza, educazione e legalità.


I volontari fabrianesi, raccolgono fondi, tramite anche iniziative di socialità, per il sostegno delle attività scolastiche in loco, e promuovono progetti di adozione a distanza di minori salvadoregni.


La Missione, ciclicamente, invia giovani ordinati a fare “pratica” pastorale e parrocchiale dalla periferia del Mondo, alla periferia montana di Fabriano. Rimangono un po’ di anni qui, e poi tornano alla loro terra di provenienza, per un servizio pastorale stabile.


Ricordo infatti di aver già conosciuto anni fa, i parroci latinoamericani di queste frazioni, che ora sono ripartiti; ma non immaginavo che la presenza di questi sacerdoti stranieri, facesse parte di un progetto strutturato così bello.


Lì, al Santuario della Madonna della Grotta, nella frazione Grotte di Fabriano, incastonato nel calcare massiccio, ricavato in seguito di quella che viene raccontata fu un’apparizione della Madonna ad un bambino del posto, Padre Jorge in questa stagione, la domenica celebra Messa alle 9, alle 11 e alle 18.


Fatevi una passeggiata in mezzo al bosco, lasciando la macchina all’incrocio tra San Giovanni e la strada per Precicchie, oppure salendo su per il sentiero escursionistico da Grotte, e partecipate alla Messa.


Anche se non siete credenti, o siete perplessi o dubbiosi, vi troverete coinvolti in un’esperienza molto potente. In questa radura Guaranì del fabrianese, si ha lo stimolo, come scrive il poeta Franco Arminio, di inginocchiarsi e pregare, anche se non si crede a nessuno.


* le foto sono di Leonbattista Scacchetti






giovedì 5 maggio 2022

CHIAMAMI ANCORA AMORE

E’ piovuto fino a pochi minuti fa. Le strade all’ingresso di Perugia sono ancora abbondantemente bagnate, ma è evidente che il tempo si sta rimettendo, e questo già fa guardare alla giornata con uno spirito diverso.

Attorno alla Stazione Centrale di Fontivegge, nel deserto della giornata festiva, si vedono persone con zainetti e bandiere della pace che, scese dal treno o lasciata la macchina in zona, si dirigono verso la fermata del MiniMetro, una delle infrastrutture degli anni più recenti, sempre in discussione riguardo la sua utilità.

Infatti, per affollare le navette dell’ovovia eugubina, di domenica mattina e al costo di 1.50 € a corsa, ci volevano giusto i partecipanti alla Marcia della Pace Perugia-Assisi, diretti verso il punto storico di partenza: i Giardini del Frontone.

Condivido la corsa nella navetta senza conducente con un paio di suore, un boyscout, una famiglia con passeggino, due ragazzine, una delle quali ad un certo punto, si accorge di non aver conservato il biglietto per uscire, e a cui passo il mio, una volta uscito, per poter superare il tornello; ma l’espediente non funziona, e tocca chiamare il sorvegliante per farle uscire, spiegando la distrazione avuta.

Loro, generazione Greta Thumberg, sono arrivate il giorno prima in treno da Asti per partecipare alla Marcia; al Frontone dovrebbero incontrare i loro conterranei che invece sono giunti in pullmann, viaggiando tutta la notte.

Ci salutiamo all’inizio di Borgo XX Giugno, loro vanno a cercare i loro amici, ed io comincio ad aggirarmi per osservare quello che potremmo definire “il popolo” della Marcia della Pace; e che sono le persone che poi fanno la straordinaria forza di questa esperienza.

Quelle che camminano per davvero; chi se l’ha fa tutta, chi si aggrega da Ponte S. Giovanni, chi arriva direttamente a Santa Maria degli Angeli e sale fino ad Assisi. Mentre ai Giardini del Frontone va in scena la cerimonia iniziale, con le Istituzioni, i molti politici giunti lì per la foto opportunity (anche marchigiani), ma che poi risalgono in macchina e te li ritrovi freschi come un fiore ad Assisi, mentre chi ha camminato arriva disfatto…

Intanto il popolo della marcia freme, e dei gruppuscoli avanguardisti sono partiti ancor prima dello striscione iniziale con gli organizzatori, e il furgone con la musica. Anche io, ad una certa, considerato che la partenza ufficiale ritardava, mi sono incamminato lungo la discesa in direzione Ponte S. Giovanni.

Lì gli abitanti ti aspettano affacciati dai balconi per salutarti, e al grande svincolo con l’E45 si incontrano quelli scesi da Perugia, con agli arrivati direttamente nella frazione perugina vicino al Tevere. E dove si trovano, anche casualmente, senza whatsApp preliminari, persone che non si vedono da tempo; come accade anche inaspettatamente a me, con due fratelli jesini, con i quali non ci si vedeva da anni, con cui proseguirò insieme fino ad Assisi, recuperando in chiacchiere lontani tempi giovanili perduti.

Camminando, la cosa che mi incuriosisce di più, è guardare un po’ le facce di questo popolo della Perugia – Assisi. Una Marcia storica, istituita 61 anni fa da Aldo Capitini, che non necessariamente si tiene tutti gli anni. Quella di domenica 24 aprile è un’edizione straordinaria e, degli ultimi anni, la più urgente e necessaria, perché risponde alla tragedia della guerra in corso in Ucraina a seguito dell’invasione di Putin, nel cuore dell’Europa.

Una guerra dalla quale, dopo i primi giorni, sembrano essere sparite dal linguaggio comunicativo quotidiano occidentale, le parole “tregua”, “negoziato”, “compromesso”, “Pace”.

Quella di domenica 24 Aprile, è indubbiamente l’Edizione che ha suscitato più polemiche, strumentalizzazioni, ed etichettature di carattere politico. In un’Italia in cui la politica, quasi tutta, sembra aver dismesso il buonsenso comune, dimenticato la Costituzione, ed indossato l’elmetto, snobbando perfino la voce accorata di Papa Francesco; il solo che domenica da Piazza San Pietro, abbia salutato e sostenuto i partecipanti della Perugia-Assisi.

E allora, già dopo i primi chilometri, ed esser stato superato dallo striscione ufficiale portato da ragazzini, ho avuto la percezione della distanza siderale che c’è tra la politica italiana ed europea, assieme al sistema informativo e della comunicazione, e le persone che da tutta Italia, dall’età del marsupio e del passeggino, fino a quella del centro sociale per gli anziani, domenica sono venute nel cuore dell’Umbria, per chiedere a quanti dovrebbero responsabilmente governarli, l’unica azione che da oltre sessanta giorni, al contrario, non intendono fare: “FERMATEVI!”.

Che è la parola-slogan di questa ed altre passate edizioni della Marcia.

Ma, nel dibattito quotidiano, chiunque chieda di fermare questa guerra, dalle ragioni straordinariamente molto complesse rispetto al semplicismo della narrazione informativa, viene ancor prima che passato per le armi, sottoposto ad una serie di etichettatture politiche, e tacciato di codardia, viltà, o di essere filo “questo” o filo “quell’altro”.

Mentre a guardare le facce pulite di quelle decine di migliaia di donne e uomini, che si sono incamminate tra Perugia e la Basilica di Assisi, l’unica etichetta che si poteva attribuirgli era quella di “persona”.

Uomini e donne di ogni età, impossibili da classificare forzosamente in una delle tante oramai necrotiche categorie politiche e culturali del Ventesimo Secolo.

Ecco, nel vedere i tanti ragazzini che “volavano” sui piedi, illuminati da un sole d’Aprile divenuto scottante, scavalcando tronconi di marcia, richiamati lì non da un capopartito o da un capobastone, ma solo dal loro diritto di un futuro senza armi e senza guerre, è evidente come sia drammaticamente pericoloso leggere, e pensare di risolvere, la tragedia che sta avvenendo in Ucraina (ma anche negli altri 48 conflitti in corso sparsi nel Pianeta), con le lenti, le parole e gli strumenti del Novecento.

Questa è la Prima Guerra Mondiale del Ventunesimo Secolo.

Ma ad occuparsene, ad averla scatenata, a spergiurare di volerla risolvere presto, c’è una classe dirigente mondiale del Secolo scorso.

Distante anni luce dai desideri di quei ragazzini che sfrecciavano per le strade umbre, e che reggevano quel tanto contestato striscione con scritto “FERMATEVI”.

Una delle canzoni che accompagnava il cammino dello striscione della Marcia della Pace, era “Chiamami ancora amore” di Roberto Vecchioni. Che ad un certo punto del testo, diventa come un’invocazione di preghiera:

 “in questo disperato sogno

tra il silenzio ed il tuono

difendi questa umanità

anche se restasse un solo uomo”

La preghiera laica di quei giovani, che chiedono di fermare la guerra; e che hanno diritto ad un futuro di Pace. Ma anche a delle classi dirigenti radicalmente diverse.

Perché quelle attuali, hanno la responsabilità imperdonabile di aver fatto sì che “(…) gli esseri umani vivono sotto l’ombra di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacchè le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico.(…)”. ( da Pacem in Terris, 1963)