sabato 11 novembre 2017

SPARA JURIJ SPARA SPERA JURIJ SPERA

Premessa necessaria: non sono un animalista (nonostante il cognome che porto…), tantomeno vegetariano. Penso che l’attività venatoria, la caccia, non abbia alcuna caratteristica per essere ricondotta ad una pratica sportiva (non per niente, alle Olimpiadi, nella disciplina del tiro a volo si spara a dischi di ceramica, e non a uccelli o lepri). Considero la caccia una pratica antistorica, a partire dal momento in cui l’uomo nel Neolitico ha inventato la pastorizia e l’allevamento. Il fatto poi che una persona si svegli la mattina, per andare in mezzo ad un campo o ad un bosco a sparare ad esseri viventi, è un comportamento che afferisce ai misteri della psiche umana. Ricordo di aver conosciuto anni fa, uno che di giorno era un impeccabile impiegato di banca ma, appena smarcato il badge e dismesse giacca e cravatta, si trasformava in bracconiere. Così come, aumenta il mio senso di insicurezza, la consapevolezza che in migliaia di abitazioni civili siano conservate armi da fuoco funzionanti. Ho avuto a che fare con la gestione amministrativa dell’esercizio dell’attività venatoria, durante l’esperienza elettiva fatta in Consiglio Provinciale. E si, perché prima della riforma Del Rio del sistema delle Province italiane, che ha lasciato tutte le Province, ma soppresso la democrazia elettiva e rappresentativa diretta delle stesse, e ridotto diverse funzioni per passarle alle Regioni o ai Comuni, la caccia era una delle attività amministrative più importanti e strategiche di una Provincia. Ed anche, di conseguenza, la delega Assessorile alla Caccia e Pesca, era una delle più ambite dalla politica e dai partiti. Chiara anche la ragione: tramite quell’Assessorato si veniva a contatto con una grande realtà organizzata come quella dei cacciatori e delle associazioni venatorie; e quindi, potenzialmente, un notevole bacino di voti. E, spendendo molte ore di quell’impegno consiliare, ad occuparmi obtorto collo di caccia, ho avuto, qualora ce ne fosse stato bisogno, conferma del perché ancora venga consentita nel XXI secolo l’attività venatoria: è un enorme business, ed è funzionale alla costruzione del consenso politico, almeno in Italia. Niente quindi a che vedere con tutte le giustificazioni che nel corso degli anni ci sono state costruite intorno, comprese quelle di carattere ambientale e paesaggistico. Ed in particolare, credo sia immaginabile, come la caccia al cinghiale, che dal bosco finisce sulla filiera commerciale della ristorazione, rappresenti un segmento significativo del più generale business legato all’attività venatoria. Attività economica della ristorazione che, qualora il cinghiale non venisse più sparato, non ne avrebbe alcuna penalizzazione, perché è possibile allevarlo rispettando precise norme, tanto che ci sono allevamenti di cinghiale gestiti da imprese private, debitamente autorizzati. E’ indubbio comunque, che negli ultimi anni nel nostro territorio, ma non solo, il numero della presenza del cinghiale è aumentato e di molto. Ma non è giustificabile, considerata l’intensità dell’attività venatoria, con la forte prolificità della specie, e con la sua attitudine a spostarsi per parecchi chilometri. Tanto da arrivare, come accade a Fabriano, anche a ridosso o dentro i centri urbani. E se arrivano in città, non è perché i cinghiali hanno Google Map, ma perché negli anni, un’esagerata e scellerata antropizzazione ed urbanizzazione della montagna, ha spezzato quelle filiere biologiche, che avevano sempre consentito una regolarità di selezione tra specie e di approvvigionamento alimentare. Facciamo un esempio paradossale: i cantieri della Quadrilatero, per il raddoppio della ss 76, di forte impatto naturalistico ed elevato consumo di suolo, quanta selvaggina hanno costretto a migrare e spostarsi verso altre zone “più sicure e protette”? C’è l’aspetto, serio, dei danni degli ungulati arrecati alle colture; sarebbe sicuramente più efficace e riparatorio, che l’indennizzo economico venga corrisposto dalle amministrazioni competenti in tempi brevi, anziché anche anni dopo; unitamente al pensare ad incentivi per la messa in sicurezza delle colture stesse. Comunque, gli unici danni non risarciti, sono quelli che fanno nei fondi privati i cacciatori, unica categoria che il codice civile dispensa dall’intromissione nella proprietà privata altrui. Sarebbe naturale pensare che, considerato l’incremento ed estensione temporale dell’attività venatoria, e di abbattimenti selettivi durante l’anno, di cinghiali ce ne dovrebbero essere sempre meno. Ma invece ce ne sono di più. Però è anche vero che se, per assurdo, il numero dei cinghiali dovesse essere ridotto ai minimi termini, ne avrebbe penalizzazione da una parte il giro dell’attività venatoria, e dall’altra, anche quello della filiera commerciale ed economica. E quindi, non è malizioso pensare, che più cinghiali ci sono e meglio è… E che cinghiali! Se pensate che la specie autoctona dell’Appennino centrale ha capi adulti in media con pesi non superiori al quintale, si può pensare che se vengono osservati e abbattuti capi anche tendenti ad un peso doppio, qualche mescolamento genetico è avvenuto o potrebbe essere stato provocato…  Curiosa, in tal senso, è la situazione della zona del Monte Conero, dove anche lì i cinghiali proliferano e scorrazzano, che è un territorio dove storicamente il cinghiale non è mai stata una specie autoctona presente… Chi si occupa della caccia al cinghiale? I cacciatori, che la fanno tradizionalmente, nei periodi previsti dal calendario venatorio, in squadre composte fino a venti unità (moltiplicate per i voti potenziali…). Fatevi una passeggiata, ad esempio, nei giorni di caccia previsti dal calendario venatorio, per il territorio fabrianese tra Poggio S. Romualdo e Serra S. Quirico, ed assisterete a scene tipo commando alla Rambo, che si aggirano per boschi e intorno ai piccoli centri abitati; nonostante le battute di caccia siano segnalate con appositi cartelli, valutate se ve la sentite in tutta tranquillità di farvi una passeggiata a piedi o in bicicletta, o inoltrarvi nella macchia a cercare qualche fungo… (una carabina da cinghiale, se il proiettile non incontra ostacoli, può avere una gittata fino anche a 4000 m.) Oppure, sono titolari della caccia di selezione al cinghiale, gli Agenti Venatori ed i selecontrollori, singoli cacciatori abilitati e gestiti all’interno di piani di abbattimento controllato, che vengono predisposti dalle Autorità competenti. Tutto questo “circo” sopra descritto, è mio convincimento che per ragioni politiche ed economiche, avendo necessità di perpetuarsi e riprodursi (contestualmente ai cinghiali), nonostante i proclami, gli intendimenti, non porterà mai a rimettere a normalità biologica il sistema. Come fare allora? Bisogna sperimentare, e sottrarre gli interessi politici (adesso trasferitisi dalle Province alle Regioni) ed economici alla questione. Da una parte restringere il più possibile la caccia al cinghiale all’interno del calendario venatorio e non fare occupare i cacciatori dell’attività di selezione, riservandola esclusivamente ai singoli selecontrollori e agli Agenti venatori, con un rigoroso controllo. E dall’altra, come avviene in diversi Paesi europei e in qualche Regione italiana, praticare più che l’esercizio della carabina, quello dei farmaci anticoncezionali somministrati negli alimentatori posti nei boschi o nei fondi. Tra l’altro di ciò, ne beneficerebbe indirettamente anche la specie umana: dall’inizio di settembre di quest’anno ad oggi, in Italia ci sono state già 12 vittime e 20 feriti per incidenti di caccia. Facile, si direbbe. No, perché così, il legame innaturale caccia-consenso politico, verrebbe anch’esso sterilizzato… 

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