Piove a Pescara del
Tronto. E’ freddo, il primo vero freddo. “Cominciamo da quelle leggere – dice
Enzo mentre rovista nello zainetto che ha salvato dal crollo di casa la notte
del 24 agosto – poi passiamo alle altre. “ Leggere e pesanti sono le cose che vuole raccontarmi. Alla fine
passano più di due ore, accartocciati dentro il camper del GUS. Enzo partendo
da sé, dalla sua vita a Pescara, è un
fiume in piena. Racconti, idee, proteste e proposte, che come l’acqua del fiume
che passa, si mescolano, accavallano, confondono. Mi colpisce però un’espressione
ricorrente che attraversa le storie di Enzo, quasi un’intercalare, con cui
identifica ciò che in quel territorio è stato fatto da molti anni. “E’ successo
– dice – per opera della “mano nera”. Non specifica cosa sia o chi sia, ma dopo
un po’ lo capisco. Chi, o coloro, singoli e aggregati, che pur essendo figli di
quella terra, ad un certo punto, per ambizione ed avidità personali, hanno
sfruttato quel territorio, provocato danni e ferite non rimarginabili, in nome
di un presunto benessere della popolazione, a cui peraltro si appartiene. La “mano
nera” non ha una fisiognomica precisa, un’anagrafica codificabile, può essere
la politica, l’imprenditoria, la chiesa, o commistioni opache di tutto questo. Quello
o quelli che le strade, il cemento, le fabbriche, portano lavoro, sviluppo e
crescita economica. Ma che sotto, appena oltre il cotico del suolo, lasciano
inquinamento, depauperamento delle risorse naturali, lesioni all’assetto
geomorfologico originario, malattie. Enzo poi è costretto a smettere di
raccontare, perché io devo ripartire, ma ne avrebbe ancora per molto; “non
preoccuparti che tanto torno per riprendere il discorso - gli dico salutandolo
– mica abbiamo finito…”. Lui ritorna verso la sua tenda-casa, a presidiare il
suo paese e le sue storie, quasi a vigilare da qualche altra “mano nera” che
potrebbe riaffacciarsi da dietro quei cumoli di rovine e macerie, e riproporre
nuove lusinghe su come riportare sviluppo e benessere dopo la tragedia ed il
lutto del terremoto. Tornando e ripensando alle storie di Enzo, in fondo se si
guarda, anziché semplicemente vedere, ogni paese, ogni città, ha la sua “mano
nera”. La “mano nera” è figlia di un territorio, c’è nata e cresciuta e, in
molte realtà, continua a viverci. Vuole bene alla propria realtà nativa,
desidera sviluppo, lavoro, progresso per tutti i conterranei. Però, c’è un
però. Per la “mano nera” la priorità resta comunque la propria saccoccia, i
cazzi propri. E allora per la “mano nera” è normale che gli scarti industriali
tossici della propria fabbrica li si sotterri sotto superfici su cui poi la gente
è andata ad abitare o li si riversi nel fiume. Che volete? Grazie alla
produzione industriale è stato dato lavoro a tutti, dai nonni ai nipoti. Per la
“mano nera” le montagne non sono luoghi da tutelare e da promuovere per le
attività naturalistiche e turistiche, ma oggetti da far saltare con le mine e
da segare a fette, perché quella pietra lì è un gran business nell’industria
chimica e farmaceutica, e poi ci si sbianca anche lo zucchero da barbabietola; perché
indignarsi poi: quattro spicci di diritto di escavazione vanno al Comune, alla
Provincia e alla Regione; e poi, ogni volta che c’è la campagna elettorale, s’è
sempre data una mano (e una bustarella) a tutti, senza distinzioni ideologiche.
Per la “mano nera” ci sta che ogni territorio vasto abbia il suo inceneritore,
e va fatto proprio lì sopra, dove tanto il terreno è già stato inquinato da
decenni da quell’impianto industriale chiuso, che così almeno all’impianto di
termovalorizzazione (espressione elegante per definire l’inceneritore) si
riassume pure qualche decina di licenziati senza alcuna speranza. “La mano nera”
è quella che poi chiama direttamente il ministro di turno per far spostare la
direttrice di un nuovo asse stradale. E’ più funzionale, meno costoso e meno
impattante si dirà; ma no, è più costoso, si allunga il percorso, si inquina di
più, però se passa dall’altra parte, là ci stanno i terreni di tizio e di caio
(e qualcosina pure di sempronio). Le discariche, come sanno gli addetti ai
lavori, hanno un tempo di vita predefinito; dopo un po’ vanno ad esaurimento e
deve essere chiuso e risanato il sito. Ma la “mano nera” pensa che sia una
cazzata: ci si fanno talmente tanti soldi, si da lavoro, si danno soldi ai
Comuni che ci fanno nuovi giardinetti e piste ciclabili; sai che facciamo? Ne
chiediamo la proroga temporale per la durata e pure l’ampliamento per metterci
più rifiuti speciali, perché sono quelli che fanno l’affare, mica i quattro
sacchetti di indifferenziato delle famigliole del posto… Ecco, e si potrebbe
continuare a lungo, così come Enzo racconterebbe all’infinito le storie del suo
paese che in una notte d’estate è scoppiato. Poi a valle incontro un gruppo di
ragazzi che hanno deciso di scrivere su Facebook quello che succede ai loro
paesi dopo il 24 agosto, ma anche quello che era la vita delle loro piccole
comunità prima di quella notte. Anche loro non se ne vogliono andare e vogliono
diventare adulti e vecchi lì. Hanno tutti meno di vent’anni e gli occhi
luminosi anche in questi giorni di lutto, di separazione, sbandamento, di
pioggia e freddo. La pagina Facebook si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the
dust”. Sono loro il miglior antidoto nei confronti della “mano nera”; e come
loro i tanti adolescenti sparsi nei paeselli che credono che lì, ancor più che
in grandi città, si possa costruire felicità. Anche questi giovani sono quelli
che Paolo Pileri, nel bel libro “Che cosa c’è sotto”, chiama “i partigiani del
suolo”.
*il manifesto è affisso sotto un pilone del viadotto che passa sopra Pescara del Tronto
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