L’incipit di questa storia, potrebbe essere “Cedi la strada agli
alberi”, titolo del libro di Franco Arminio. Michele, fabrianese acquisito, che
come dice un noto talk televisivo “si guadagna da vivere come” gestore dell’accoglienza in un bellissimo
monastero del territorio, me l’aveva detto: “vacci a vedere di giorno che
scempio al paesaggio stanno facendo da quelle parti”. Ci passo di giorno, sulla
strada delle Serre, e vedo l’avvio della perimetrazione delle aree di cantiere,
con le ruspe già in azione, ed immagino quello che questo comporterà per il
paesaggio. E’ il cantiere della pedemontana Fabriano-Muccia del progetto
Quadrilatero, quello partorito oltre 10 anni fa, che prevedeva di realizzare il
raddoppio delle ss 77 e 76, e di modernizzando i collegamenti tra Marche e
Tirreno. La storia di questa vicenda è molto complessa, ma la racconta bene in
ogni suo aspetto Loredana Lipperini, nel libro “Quel trenino a molla che si
chiama il cuore”. Dietro quel progetto, c’era l’idea della politica e di una
classe dirigente, trasversale per appartenenze culturali e per livelli di
governo, che la risposta più efficace ad un sistema economico che stava crollando,
potesse essere che “il fare strade moderne”, urbanizzando ed edificando le aree
contigue, avrebbe rimesso in moto le imprese e le lobby degli appalti, rilanciando
un modello economico in crisi. “Dopo che saranno fatte le strade – mi disse uno
anni fa - si arriverà dall’Umbria all’Adriatico un quarto d’ora prima.” “E poi
– gli risposi – quando sei arrivato quindici minuti prima – che t’è cambiato?” Devastato
già il paesaggio della Val di Chienti e dell’Alta Valle dell’Esino, per
arrivare da qualche parte un quarto d’ora prima, adesso toccherà al bellissimo
paesaggio collinare e pedemontano che da Fabriano si protende fino alle pendici
dei Sibillini a Muccia: le colline del Verdicchio di Matelica e di altre
tipicità su cui, mentre le ruspe cancellano suolo agricolo, si continua a scommettere
un nuovo futuro per l’economia territoriale e turistica. Quarantadue km, 5
ponti e viadotti, una galleria da 900 m (un metro costruito in galleria fa
guadagnare tre volte rispetto ad un metro a giorno). Non si è poi portati a
pensare, che una strada così produrrà un danno indotto ad una microeconomia ed
imprenditorialità che sono radicate nei borghi e nelle cittadine che stanno tra
Fabriano e Muccia. Già molti dei piccoli produttori che vendevano patate rosse
ed altri prodotti sull’altopiano di Colfiorito, adesso sono costretti a
scendere sulle provinciali a valle, perché con la nuova 77, lassù non ci passa
più nessuno. Pensiamo ad esempio ai bar, piccoli esercizi commerciali, e tante
piccole attività artigianali che guadagnavano dall’automobilista che passava
dentro i borghi tra Fabriano e Muccia; a strada nuova il loro fatturato si
vedrà significativamente ridotto. Al posto del prodotto tipico acquistabile
fermandosi lungo la provinciale, nella stazione di servizio che verrà
realizzata lungo la superstrada si troveranno poi la maxiconfezione di barrette
Kinder e l’orsacchiotto di peluche fatto dai bambini asiatici schiavizzati. Per
non parlare dei danni irreversibili al paesaggio e all’agricoltura, con il consumo
di suolo per realizzare strada e infrastrutture necessarie annesse. Ma i vignaioli del territorio lo sanno? Perché
non si mobilitano come stanno facendo in questi giorni gli olivicoltori
salentini contro il passaggio di un gasdotto? O qui interessa solo che il
furgoncino impieghi una manciata di minuti in meno per un trasporto? Ad un
territorio già interessato da anni da un consistente fenomeno di spopolamento, e
ora interessato da una vera e propria “strategia dell’abbandono” post terremoto,
la nuova strada darà il colpo di grazia. Mi colpisce, ma fino ad un certo punto
poi, che tutto questo avvenga senza che chi ha una qualsivoglia responsabilità
politica od istituzionale, non dico si incateni lungo il cantiere (non sono più
i tempi, e poi in molti sono corresponsabili dei fatti), ma almeno si faccia
attraversare dal beneficio del dubbio. E invece no, tutti a suonar le trombe del
“W la nuova strada!”. L’unico soggetto politico, il solo che rende dignità alla
parola “politica” nel comprensorio fabrianese, e che si è espresso contro la
Quadrilatero e questi progetti, è il Laboratorio Sociale Fabbri; ma si sa,
quelli sono pericolosi estremisti… Questa strada non servirà a niente, non
porterà nessun progresso e crescita, consumerà in maniera irrimediabile suolo e
paesaggio a forte vocazione agricola di qualità, non ha nulla di strategico. E’
sicuramente più strategico, per la valorizzazione del territorio e per una
nuova idea di essere comunità, il progetto di Paolo Piacentini, fabrianese
acquisito anche lui: l’”Università del Camminare”. Perché quella non è solo
un’idea per il tempo libero o hobbystica, o sentimentale (chi la pensa così
sbaglia, una passeggiata non purifica il cervello…), ma è una proposta di come
possa ridestarsi uno spirito civico che nel tempo è stato centrifugato e
aspirato dal mito industriale, e di come sia indispensabile prendersi cura del
suolo e del territorio. E questo ce lo ricorda non un ambientalista estremista,
ma un urbanista del Politecnico di Milano, Paolo Pileri, nel libro “Che cosa
c’è sotto”, in cui invita a diventare “partigiani della pelle del mondo”. Capita
spesso di trovare sui social un leit
motiv, che è quello di additare chiunque si contrapponga al perpetuarsi di modello
economico novecentesco (travolto peraltro dalla crisi), come i promotori di una
cosiddetta “decrescita infelice”; scimmiottando in maniera assai molto
ignorante, una teoria e una prassi dell’economista francese Serge Latouche: la
“decrescita felice”. Pensando malevolmente che si voglia perseguire una sorta
di cialtronesco ritorno al “poveri ma belli”. Mentre il tema vero, in generale
e di questo territorio, in cui tra
disoccupazione ed inoccupazione, si registrano cifre vicine ai quattro zeri, e
che pone non ultimo Papa Francesco, è quello della sobrietà. Ma quest’ultimo è
un valore e uno stile di vita che, come li avrebbe classificati il grande poeta
colombiano Álvaro Mutis, “gli artefici del disastro” di questo territorio, non sanno
ancora cosa possa significare, avvezzi ancora a praticare l’arroganza dei
ricchi.
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