giovedì 14 gennaio 2016

SI FA PRESTO A DIRE MACRO

Ieri mattina ho fatto 35 minuti di coda in un ufficio postale per pagare un bollettino. Mi trovavo in quel paese per lavoro, e avendo ampio anticipo rispetto ad un appuntamento successivo, ho deciso di approfittare per compiere una commissione personale. Un tempo di attesa alle Poste per il quale perlomeno innervosirsi lievemente. Eppure, ho aspettato tranquillamente seduto sulla panchetta che venisse il mio turno, guardando a quella situazione. Allo sportello, prima di me, non una coda consistente, ma solo un’anziana signora che era lì per riscuotere la pensione (e siccome la signora delle poste contava a voce alta, la pensionata non andava oltre la “minima”…), che tra operazione di  riscossione, controllo dello stato del suo libretto di risparmio postale, chiacchiera a 360° con l’impiegata e un’altra signora anziana che stava in attesa dopo di me sulla stato della quotidianità degli abitanti del paesello, è stata allo sportello oltre mezz’ora. Eppure non mi sono incazzato (strano davvero…), anzi ho pure partecipato alla discussione, chiamato in causa da una delle due anziane, se fossi a conoscenza su chi in paese usasse la bombola dell’ossigeno per facilitare la respirazione, avendo l’interpellante visto aggirarsi in mattinata un furgoncino che rifornisce bombole per l’ossigeno sanitario (forse la signora pensava che fossi il conducente del furgone di rifornimento delle bombole…); ho risposto con l’imbarazzato dello straniero “no, mi dispiace, non saprei, io non sono di qui…”. In quell’attesa, in un paese di meno di mille abitanti, in una delle cosiddette aree interne dell’Italia, mi era scattato lo stesso concetto del tempo avvertito in qualche villaggio africano, quando aspetti che parta il taxi brousse all’ombra di una pianta; che hai capito per certo che il pulmino prima o poi passa e che arriva a destinazione, ma non sai quando, perché dal villaggio precedente non parte ad orari predeterminati, ma solo quando è pieno, e prima di arrivare da te attraversa chissà quant'altri villaggi, scarica e carica persone, e riparte sempre solo quando è pieno. Un concetto del tempo e della quotidianità scarsamente occidentali, ma non per questo inferiori, semplicemente diversi. E già, l’Italia interna, quella oggetto di convegni, gruppi di studio, commissioni, propositi di rilancio, e poi abbandonata a se stessa nella quotidianità, rispetto alla salvaguardia del paesaggio, ai servizi alle persone, alla tutela del patrimonio storico e architettonico. In cui il monitoraggio dello stato civile e dei bisogni degli abitanti è esercitato da un’ultraottantenne che riscuote la pensione all’ufficio postale, aperto a giorni alterni. Ed in cui il presidio democratico è rappresentato da un Sindaco tuttofare, una sorta di volontario della Repubblica, che però si fa in quattro per tenere viva quella comunità, che sta conducendo una battaglia per riportare la pluriclasse in paese, dopo che il suo predecessore in virtù della efficentazione dei servizi e di una migliore istruzione, ha deciso di mandare tutti i giorni i numerosi bambini del paese a scuola a 20 km di distanza, perché la pluriclasse non garantirebbe un buon livello di istruzione primaria. “Eppure mia figlia – mi raccontava il Sindaco – ha fatto la pluriclasse e oggi fa la ricercatrice all’università”. Un Sindaco che sa chi sono “quelli che qui rubano nelle case”, perché conosce tutti e tutto, però poi la stazione dei carabinieri più vicina sta a oltre 20 km in un'altra città, dove comunque i militi che presidiano tutta l’estesa zona montana sono in tre. Un sindaco, che tra qualche tempo non ci sarà più, perché adesso il leitmotiv più in voga degli stessi che organizzano e sparlano nei convegni sulle aree interne, essendoci stati qualche solo qualche ora per la durata del convegno o ospiti di qualche struttura ricettiva per le vacanze, è la fusione dei Comuni, la semplificazione e centralizzazione dei livelli istituzionali e dei servizi ai cittadini, certi che questo produrrà una migliore qualità della vita per chi vive nelle aree interne, una migliore qualità dei servizi, ripopolamento delle comunità di questi luoghi e, soprattutto, meno sprechi e meno casta politica. E invece, quando in quella comunità di qualche centinaio di anime, non ci sarà più neppure un sindaco e un toponimo che è un presidio di storia ed identità, sostituito da un nuovo nome di una municipalità più ampia, espressione di  un anonimato linguistico, l’abbandono sarà ancora più forte, la voglia di scappar via di quei bambini oggi e giovani domani sarà ancora più urgente, il paesaggio dalla forte vocazione agricola e produttiva sarà ancora più preda di nuovi latifondisti del XXI secolo, o di  risorti palazzinari al servizio dei petroldollari di oligarchi russi e arabi. Attenzione quindi, se si è ancora in tempo, che quando si diluiscono le identità e si riconfigurano sempre più in macro i confini, si rendono più micro la democrazia e la qualità della vita. 

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