Che la democrazia passasse
per il cibo, l’avevano capito già i Cervi 73 anni fa. Non a caso, il 25 luglio 1943
alla caduta del fascismo, tra i tanti modi che potessero improvvisare “quei
matti ed anarchici dei Cervi” per festeggiare quel fatto, loro, contadini e
antifascisti, organizzarono una grande cena popolare per tutti i contadini e
gli abitanti della zona. Una cena non sul cortile di casa loro, ma non a caso
nella piazza del paese, un luogo pubblico; una pastasciutta di lusso per quei tempi, per tutti, a km zero diremmo oggi: pasta corta in bianco condita con burro e
parmigiano di produzione locale. Oggi il rapporto tra cibo e democrazia è
servito davanti a noi, ineludibile: in maniera drammatica ed
esponenziale per quello che riguarda il Sud del pianeta; in maniera complessa e
spesso tragicomica per quello che riguarda il cosiddetto Occidente. Le mafie in
giacca e cravatta, che rilevano a quattro soldi imprese agricole ridotte allo
stremo da politiche nazionali ed internazionali, che passano, nella fase
elaborativa, per i lobbisti di grandi gruppi economici e finanziari; la produzione e la distribuzione di massa in
mano oramai esclusivamente ad un pugno di multinazionali; la rete commerciale
programmata non in base al bisogno demografico, ma in base alle logiche di
cubatura urbanistica speculativa di consumati palazzinari e di amministratori
compiacenti; i rapporti occupazionali legati al mercato del cibo, sia per la
distribuzione che alla ristorazione; la truffe, le contraffazioni e le
condizioni igienico sanitarie legate al cibo (lo slowfood che non è slow, il
bio che non è bio, la listeria che ti ammazza e che trovi non nella salsiccia
fresca ce fa il norcino in montagna, ma nel prosciutto cotto che trovi al
supermercato). Questo ed altro. E tra
questo e altro, c’è anche il prezzo del cibo: il prezzo del bio, o presunto tale, che
continua ad essere, come si sarebbe detto un tempo, solo per la borghesia; il
prezzo della ristorazione (gourmet a due zeri a coperto, e menù tipici completi
a 10 €; c’è qualcosa che non porta?). E poi, per entrare nel tragicomico (ma
non per questo meno importante), il proliferare di format televisivi in cui si illude,
o vende, che tutti, senza formazione e sacrificio, possono diventare grandi
chef stellati, compresi i bambini, e che sono spot continui per le
multinazionali del cibo; talk in cui si sbranano verbalmente onnivori,
vegetariani e vegani, senza alcun punto di vista scientifico, ma solamente in
virtù di estremizzazioni ideologiche e gettoni pagati dalle redazioni
televisive; dibattiti in cui si disquisisce di alimentazione e agricoltura, in tra i
cosiddetti esperti non c’è mai un contadino, ma solo politici, chef stellati a
volte pure un po’ sputtanati, grossisti delle catene di ristorazione ingrassati
da protettorati politici. Per non parlare poi di tutta la diffusa e seriale
catena delle fiere, mostre, eventi delle tipicità locali, in chiave promozionale
e turistica dei territori, che almeno un vantaggio, alla fine ce l’hanno:
passare uno stipendio, pagato dalle amministrazioni pubbliche, a tutti quelli
che, spesso altrimenti senza arte né parte, si inventano e vendono le
manifestazioni e gestiscono consorzi, presìdi, enti, in cui tanti produttori seri ed agricoltori onesti, non solo abboccano,
ma gli tocca pure pagarci per esserci, perché così “l’assessore mi vede e, forse, mi considera se c’ho bisogno d’una pratica veloce".
E poi, ma solo per un accenno, perché aprirebbe un mondo quando, sarebbe il caso,
dovrebbe aprire solo qualche cella circondariale, l’attività venatoria; la
caccia, che crea problemi seri all’agricoltura e al territorio, e alimenta
opachi traffici di selvaggina, che dal paniere del cacciatore, finisce
direttamente sul frigorifero del ristoratore, senza “passare dal via”, o meglio
per le autorità sanitarie e di controllo competenti. In tutto questo che c’entra
la democrazia? C’entra eccome, perché in queste giostre ci sono due soggetti, i
soli legittimati, che non contano un cazzo: il contadino e il
cittadino-consumatore; il primo che si spacca la schiena da prima dell’alba al
tramonto e che, quando va bene, con la propria attività non ci rimette, se lo
fa con etica e passione; il secondo, che l’importante è la lunghezza dello
scontrino alla cassa del supermercato, a prescindere dalla monnezza che si
porta sul piatto. Come si rimargina almeno, se non guarire, questa lesione di
democrazia? Non ci sono soluzioni, o forse ce ne sono tante. Una sicuramente è
ridurre la distanza tra contadino e cittadino, saltando tutto quello e quelli
che ci sono in mezzo. E poi smetterla forse un po’ tutti con ‘sta storia dei
piatti gourmet, e pensare che mangiare è una cosa seria per la salute e per l’ambiente
e il paesaggio, e allora guardare alla salubrità del cibo anche nella sua semplicità
di preparazione; imparare a prepararsi da soli alimenti spesso industriali
(tipo il pane, è facilissimo e non sottrae tempo a chissà che cosa). E poi che in
posto ci vai se ti stimola una passione ideale e culturale, senza porti prioritariamente
il problema di qual è il piatto o il ristorante cosiddetto tipico, e
chissenefrega se non c’è un museo aperto e nel centro storico scorrazzano le
pantegane. E a proposito di democrazia, forse non è un caso che le sole e nuove
lezioni di pratiche comunitarie e democratiche, ce le da proprio il Sud del Mondo, dove Capi di Stato,
dopo anni di miseria delle persone e restrizione dei diritti individuali, sono
diventati dei contadini? E’ lì che bisogna guardare, per costruire non più il
cosiddetto nuovo modello di sviluppo, obiettivo ideale verso il quale fare
giustificati gesti apotropaici, ma semplicemente un’idea di felicità condivisa.
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