sabato 9 aprile 2016

LA BORGHESIA MASSONA

“A Jesi c’è la borghesia massona”, così se ne esce un amico fabrianese durante una scambio di opinioni in merito ad un progetto documentaristico sulle vicende della realtà della Città della Carta degli ultimi anni, dal titolo “La fine dell’illusione” (lo trovate in rete, www.lafinedellillusione.it). Un progetto multimediale interessante, che fa lo sforzo di analizzare, soprattutto attraverso testimonianze, ciò che è successo non solo nel tessuto economico della città, ma anche in quello sociale e civile. Con alcuni limiti, a mio parere, dovuti probabilmente, almeno immagino, all’esigenza di confezionare un prodotto che avesse l’obiettivo di analizzare solamente alcuni aspetti predominanti. Due i limiti principali: la narrazione testimoniale è circoscritta solo a rappresentanti, passati ed attuali, delle Istituzioni e della politica, e ai lavoratori del settore e dell’indotto manifatturiero meccanico. Proprio per questo, lo spaccato che emerge della città è di conseguenza parziale; manca il punto di vista degli imprenditori che sono stati protagonisti per decenni della storia economica della città, i cosiddetti padroni. Avranno qualcosa almeno da dire, se non a dover rendere conto, sullo stato in cui si trova, oramai da quasi un decennio, la città? E manca una fascia sociale, professionale e culturale, fondamentale di una comunità, la cosiddetta borghesia. Forse perché una borghesia, come storicamente intesa, a Fabriano non c’è mai stata. E mancano le donne; o meglio, c’è un’operaia intervistata, ma il ritratto che emerge della figura femminile, è che a Fabriano la donna è quasi esclusivamente intesa come sposa e madre. E invece, per quello che conosco di quella realtà, ci sono storie ed esperienze femminili significative, nel mondo delle professioni, della cultura e del sociale; ma la storia di quella città preferisce raccontarsi la donna come la moglie e casalinga, che mentre il marito produce, fa impresa e business, si ritrova al  caffè del centro con le amiche per il the. E nella mia chiacchierata con l’amico fabrianese, ponevo a confronto una storia che penso di conoscere un poco, quelle jesina, dove, pur anche lì con limiti e problemi, c’è un tessuto cittadino che ha attraversato, tenendo, anche anni difficili, grazie ad un equilibrio e ad un reciproco rispetto ed autonomia di ruolo tra poteri e strati sociali. La politica ha fatto la politica, l’impresa ha fatto l’impresa, la Chiesa ha fatto la Chiesa. Mai che a qualcuno fosse venuto pensato di accentrare o mischiare ruoli e funzioni, o esercitare indebite ingerenze; e quando a qualcuno è venuto in mente, il pensiero è sempre durato molto poco. E questo anche perché negli anni, la città è riuscita a far vivere, crescere ed interagire tra loro, una fiera e forte classe operaia, una borghesia laica e cattolica, conservatrice e progressista, e storie ed esperienze imprenditoriali eterogenee e plurali. Ed in cui anche le donne, hanno sempre avuto autonomia, ruolo ed identità proprie, e mai riflesse. Questo ha significato per la città negli anni, dialettica, confronto, scontro, contaminazione, competizione, rispetto reciproco, e per questo vitalità e forza nell’attraversare le stagioni. A Fabriano no. In quella realtà, quasi per un secolo, potere politico, imprenditoriale, economico, sono diventati via via sempre più un unicum, con il beneplacito della sfera ecclesiale. Questo, in tempi di vento in poppa, ha distribuito benessere per tutti, per alcuni ricchezza consistente, per la stragrande maggioranza tranquillità economica e sociale; ma quando la tempesta della crisi ha spazzato via un modello economico basato sul capitale e sul profitto ad ogni costo, il tappo è saltato, e le spese le ha fatte, e le sta facendo la maggioranza dei cittadini. Ma soprattutto quella concentrazione di poteri diversi in un unico ed esclusivo direttorio, negli anni ha prodotto distanze sociali, mancanza di stratificazione sociale e dipendenza dal capo. E non ha consentito l’affermarsi di un livello sociale e culturale fondamentale, che è quello intermedio, la borghesia. Capace di svolgere, forte di una propria autonomia identitaria, anche in alcune fasi il ruolo di una sorta di cuscinetto ammortizzatore tra fasce sociali differenti. Che poi a Jesi, siano presenti storicamente diversi circoli massonici, è un fatto. Ma non tutta la borghesia cittadina è massona, e non tutti i massoni sono borghesi. E’ un semplicismo. C’è poi un altro protagonista economico e sociale, anche in un contesto geomorfologico differente,  che ha avuto tra le due realtà considerazione diversa: il contadino. A Fabriano il metalmezzadro: l’agricoltura voce dell’impresa e dell’economia di fatto hobbystica e dopolavoristica, ed il contadino considerato culturalmente subalterno all’occupato nel manifatturiero. A Jesi, l’agricoltore, figura di lavoratore e imprenditore con uno suo status definito e riconosciuto.  Allora ridurre, seppur in sincera amicizia, un confronto ed un’analisi complessi, con l’espressione “lì c’è la borghesia massona”, come fosse il lessico di un esorcismo su episodi demoniaci  è, del tutto in buona fede, indice della incapacità di ammettere che, in fondo, per usare un’espressione calcistica “in zona Cesarini, si spera che quella che è stata una grande illusione, possa, rabberciata e riverniciata, riprodursi ancora. E che, quando il padrone, a cui si è delegata nel tempo molta della propria potenziale autonomia, non c’è più, ci si sente solo disorientati e orfani; e depressi. Ed incapaci di costruire, ancorché una nuova illusione, una realtà di concrete opportunità in uno spirito comunitario e solidaristico.

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