“A
Jesi c’è la borghesia massona”, così se ne esce un amico fabrianese durante una
scambio di opinioni in merito ad un progetto documentaristico sulle vicende
della realtà della Città della Carta degli ultimi anni, dal titolo “La fine
dell’illusione” (lo trovate in rete, www.lafinedellillusione.it). Un progetto
multimediale interessante, che fa lo sforzo di analizzare, soprattutto attraverso
testimonianze, ciò che è successo non solo nel tessuto economico della città,
ma anche in quello sociale e civile. Con alcuni limiti, a mio parere, dovuti
probabilmente, almeno immagino, all’esigenza di confezionare un prodotto che
avesse l’obiettivo di analizzare solamente alcuni aspetti predominanti. Due i
limiti principali: la narrazione testimoniale è circoscritta solo a rappresentanti,
passati ed attuali, delle Istituzioni e
della politica, e ai lavoratori del settore e dell’indotto manifatturiero
meccanico. Proprio per questo, lo spaccato che emerge della città è di
conseguenza parziale; manca il punto di vista degli imprenditori che sono stati
protagonisti per decenni della storia economica della città, i cosiddetti
padroni. Avranno qualcosa almeno da dire, se non a dover rendere conto, sullo
stato in cui si trova, oramai da quasi un decennio, la città? E manca una
fascia sociale, professionale e culturale, fondamentale di una comunità, la
cosiddetta borghesia. Forse perché una borghesia, come storicamente intesa, a
Fabriano non c’è mai stata. E mancano le donne; o meglio, c’è un’operaia
intervistata, ma il ritratto che emerge della figura femminile, è che a
Fabriano la donna è quasi esclusivamente intesa come sposa e madre. E invece,
per quello che conosco di quella realtà, ci sono storie ed esperienze femminili
significative, nel mondo delle professioni, della cultura e del sociale; ma la
storia di quella città preferisce raccontarsi la donna come la moglie e
casalinga, che mentre il marito produce, fa impresa e business, si ritrova
al caffè del centro con le amiche per il
the. E nella mia chiacchierata con l’amico fabrianese, ponevo a confronto una
storia che penso di conoscere un poco, quelle jesina, dove, pur anche lì con
limiti e problemi, c’è un tessuto cittadino che ha attraversato, tenendo, anche
anni difficili, grazie ad un equilibrio e ad un reciproco rispetto ed autonomia
di ruolo tra poteri e strati sociali. La politica ha fatto la politica, l’impresa
ha fatto l’impresa, la Chiesa ha fatto la Chiesa. Mai che a qualcuno fosse venuto
pensato di accentrare o mischiare ruoli e funzioni, o esercitare indebite ingerenze;
e quando a qualcuno è venuto in mente, il pensiero è sempre durato molto poco.
E questo anche perché negli anni, la città è riuscita a far vivere, crescere ed
interagire tra loro, una fiera e forte classe operaia, una borghesia laica e
cattolica, conservatrice e progressista, e storie ed esperienze imprenditoriali
eterogenee e plurali. Ed in cui anche le donne, hanno sempre avuto autonomia,
ruolo ed identità proprie, e mai riflesse. Questo ha significato per la città
negli anni, dialettica, confronto, scontro, contaminazione, competizione,
rispetto reciproco, e per questo vitalità e forza nell’attraversare le stagioni.
A Fabriano no. In quella realtà, quasi per un secolo, potere politico,
imprenditoriale, economico, sono diventati via via sempre più un unicum, con il beneplacito della sfera
ecclesiale. Questo, in tempi di vento in poppa, ha distribuito benessere per
tutti, per alcuni ricchezza consistente, per la stragrande maggioranza
tranquillità economica e sociale; ma quando la tempesta della crisi ha spazzato
via un modello economico basato sul capitale e sul profitto ad ogni costo, il
tappo è saltato, e le spese le ha fatte, e le sta facendo la maggioranza dei
cittadini. Ma soprattutto quella concentrazione di poteri diversi in un unico ed
esclusivo direttorio, negli anni ha prodotto distanze sociali, mancanza di
stratificazione sociale e dipendenza dal capo. E non ha consentito l’affermarsi
di un livello sociale e culturale fondamentale, che è quello intermedio, la
borghesia. Capace di svolgere, forte di una propria autonomia identitaria,
anche in alcune fasi il ruolo di una sorta di cuscinetto ammortizzatore tra
fasce sociali differenti. Che poi a Jesi, siano presenti storicamente diversi circoli
massonici, è un fatto. Ma non tutta la borghesia cittadina è massona, e non
tutti i massoni sono borghesi. E’ un semplicismo. C’è poi un altro protagonista
economico e sociale, anche in un contesto geomorfologico differente, che ha avuto tra le due realtà considerazione
diversa: il contadino. A Fabriano il metalmezzadro: l’agricoltura voce dell’impresa
e dell’economia di fatto hobbystica e dopolavoristica, ed il contadino
considerato culturalmente subalterno all’occupato nel manifatturiero. A Jesi, l’agricoltore,
figura di lavoratore e imprenditore con uno suo status definito e riconosciuto.
Allora ridurre, seppur in sincera amicizia, un confronto ed un’analisi complessi,
con l’espressione “lì c’è la borghesia massona”, come fosse il lessico di un
esorcismo su episodi demoniaci è, del
tutto in buona fede, indice della incapacità di ammettere che, in fondo, per
usare un’espressione calcistica “in zona Cesarini, si spera che quella che è
stata una grande illusione, possa, rabberciata e riverniciata, riprodursi
ancora. E che, quando il padrone, a cui si è delegata nel tempo molta della
propria potenziale autonomia, non c’è più, ci si sente solo disorientati e
orfani; e depressi. Ed incapaci di costruire, ancorché una nuova illusione, una
realtà di concrete opportunità in uno spirito comunitario e solidaristico.
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