lunedì 18 aprile 2016

I REFERENDUM PICCINI PICCIO'

Domenica scorsa si sono svolti, contestualmente al referendum nazionale sulle trivelle, due mini referendum locali per far pronunciare le comunità locali sulla proposta di fusione del proprio Comune con un Comune più grande limitrofo (tecnicamente definita fusione per incorporazione). Due piccole comunità dell’entroterra marchigiano, una con neanche mille abitanti, l’altra con poco più di duemila. Il primo dato significativo è che la partecipazione al quesito referendario locale nei due piccoli centri è stato sensibilmente più ampio della partecipazione la voto sul referendum nazionale. Il secondo dato è che in entrambi i centri il NO alla fusione per incorporazione ha visto una stragrande maggioranza dei consensi. Quindi la maggioranza degli abitanti di quei piccoli Comuni non vuole essere fusa. Si dirà: hanno prevalso resistenze ingiustificate, localismi e particolarismi; non è bastata neanche la lusinga della seduzione economica per quei cittadini, due milioni di euro per dieci anni di trasferimenti statali in più per il bilancio del  neo Comune risultante dalla fusione. Forse è il caso però, oltre che colpevolizzare gli istinti localistici e conservatori di quelle persone, di fare anche una riflessione sul senso della oramai diffusa strategia politica del principio amministrativo della fusione municipale. Premesso che è vero che i Comuni, specialmente quelli più piccoli, stanno in grande difficoltà economica ed organizzativa da anni. Non ci sono più risorse sufficienti per garantire una normalità dei servizi erogati, non ci sono più risorse umane disponibili per gestire il funzionamento della macchina amministrativa. Ma è un problema magicamente spuntato da qualche tempo, o invece magari è il frutto di un lento logoramento del valore delle Autonomie Locali da parte di politiche statali, che hanno perseguito scientemente da anni un’aggressione per primo al sistema democratico delle Istituzioni locali, ed insieme alla loro capacità di operatività, fino a produrre il crack di una rete di sussidiarietà orizzontale nei territori? Spesso in nome di parole d’ordine qualunquiste e populiste, la casta, gli spechi, le inefficienze. Che negli anni  problemi di questo genere non se ne siano verificati, sarebbe negare delle evidenze; ma da qui la generale colpevolizzazione di tutto e tutti, ha prodotto solo l’indebolimento e lo screditamento del livello istituzionale più prossimo ai cittadini, e di conseguenza più riconosciuto. Che ha contribuito a screditare generalmente la politica. Una politica incapace, nel suo insieme, di elaborare una vera riforma dell’ordinamento statale a settan’anni dalla Costituzione repubblicana; che sapesse rivedere e rimodulare i diversi livelli di governo in maniera equilibrata rispetto alle condizioni della società, dell’economia, delle corporazioni, che non sono più quelle di quando decenni fa venne disegnato il quadro istituzionale del Paese. Ma che invece, al contrario, ha corso dietro in maniera disorganica al vento delle stagioni: prima il problema avvertito dall’opinione pubblica erano le Province, e quindi via le Province. Poi il bicameralismo e l’eccessivo numero dei parlamentari (il numero, si badi bene, non il costo, che è rimasto pressoché invariato), e quindi largo alla riforma della Costituzione di questi mesi. Ora, da qualche tempo, il problema sono i Comuni che non ce la fanno più, e quindi via alle fusioni. In tutto questo inalterato il livello regionale, che negli anni ha assunto ruolo e proporzioni elefantiache. In tutto questo solo interventi a spot ed una tantum, in cui non si intravede nessun disegno organico di un nuovo modello statale. L’unico obiettivo finora raggiunto è che si è solamente ridotto il livello di democrazia: le province ci sono ma non si eleggono più direttamente i rappresentanti; il Senato ci sarà ancora, ma di fatto sarà non elettivo e vi finiranno eletti già in altri livelli, regioni e comuni, scelti dai partiti con il criterio della fedeltà; i Comuni già da anni hanno visto tagliarsi il numero dei Consiglieri Comunali e delle Giunte, che di fatto erano e sono dei volontari della politica. Ed ora l’assalto finale da parte di classi dirigenti miopi ed ignoranti (per essere educati): la fusione dei piccoli Comuni. Meno Sindaci, che nei piccoli Comuni sono un presidio della democrazia, e chi lo fa il più delle volte anziché guadagnarci, come si malpensa, ci rimette di proprio. E la creazione di neologismi nel chiamare le nuove municipalità, che niente hanno a che vedere con storia, radici ed identità locali. E lì davanti, sempre le sopracitate classi dirigenti, a brandire la ricompensa: vi diamo più soldi. Come se la storia, le radici, l’identità di una comunità si potessero comprare. Ben altra cosa sarebbe stimolare alla pratica di messa in comune di servizi e risorse umane tra comunità, senza andare ad indebolire ed annullare la rappresentanza democratica ed indentitaria. Tra l’altro alle scelte di fusione si arriva sempre con percorsi informativi, partecipativi e di formazione del consenso, senza alcuna pratica comunitaria, ma pensati ed imposti dall’alto da qualche raìs di partito territoriale. E allora quando i cittadini possono esprimersi liberamente e senza condizionamenti e ricatti, questi piccoli pretoriani di partito di provincia li mandano a cagare. Come è successo nell’entroterra marchigiano domenica, e come è auspicabile che succeda ancora. Perché gli abitanti di una piccola comunità ci tengono ai propri valori, alle proprie radici e, forse, anche alla democrazia molto di più di quello che si pensa. E le piccole comunità, specie nelle aree interne, hanno bisogno dalla politica di ben altre attenzioni che non sia qualche pugno di euro; hanno bisogno di scelte e politiche nazionali che riguardano la qualità della vita, dei servizi, del paesaggio, delle quali, al di là dei soliti slogan e gettonati convegni, non se ne intravede alcuna concretezza. Hanno bisogno di scelte d’amore da parte della politica. Di una visione e di una passione che non c’è più. Ci sono solo ambizioni personali e tanti piccoli capetti, emuli al ribasso del capo di turno più grande. E allora viva le piccole comunità e i piccoli Comuni, presìdi di democrazia e di una moderna resistenza  (con la r minuscola, sia ben chiaro) civile.

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