venerdì 30 dicembre 2016

FALCIONI DI GENGA: VICINO ALLE GROTTE E FUORI DAL CRATERE. (*)

Si conoscono le Grotte di Frasassi, ma non si associa quasi mai il Comune di Genga a questo miracolo della natura. Di fatti non è semplice, perché Genga non è un unico borgo abitato, ma ben 38 tra frazioni e località che circondano le Grotte di Frasassi; 1797 abitanti, censisce l’Istat nel 2016, sparsi in 73,16 kmq. La tradizione popolare separa in due il territorio comunale, definendo due nuove etnie di abitanti: i “caccetti” e i “prosaioli”; i primi quelli che stanno sopra la Gola di Frasassi in direzione Umbria, i secondi quelli che stanno sotto la Gola di Frasassi, verso la costa adriatica. A Genga si è lavorato nel Novecento per gli elettrodomestici dei Merloni, poi dal 1974 per tutte le attività logistiche, di accoglienza e di ricettività che ruotano attorno alle Grotte. A dare occupazione anche il Salumificio di Genga, che trasforma buoni prodotti norcini, e l’acqua minerale Frasassi di Togni, che da qualche tempo s’è lanciato anche nella produzione di buoni vini. Parecchi se ne sono anche andati lungo il Secolo, chi a Roma, chi a Terni alle acciaierie, chi in Belgio e in Francia. Nel territorio politica e istituzioni, da sempre derivati dei frigoriferi e delle lavatrici, hanno voluto far credere che il solo valore da perseguire fosse quello della saccoccia; quindi anche il magnifico paesaggio delle Gole della Rossa e di Frasassi è stato immolato alla dea pecunia, che ha fatto nel tempo adepti fedeli a destra, al centro e a sinistra: inquinamento industriale astutamente sotterrato e riversato in fiume, attività estrattive che hanno ridisegnato le sagome naturali dell’Appennino e, per finire, la Quadrilatero con il raddoppio della statale 76, che sta finendo di devastare la valle, per riproporre tragicamente un’idea di sviluppo sepolta per sempre dai tempi della crisi della Lehman Brothers. Il moralismo delle Istituzioni e della politica ha voluto fare dal 1997 di questo territorio un parco regionale; che è in realtà un finto parco, dove non ci sono limiti alle grandi opere, alle attività estrattive e alla caccia. Qui però, nonostante tutto, ci vengono da tutto il mondo per le Grotte, per le escursioni e ad arrampicare lungo le Gole; in alcuni punti non si può fare climbing perché, dicono le Istituzioni preposte, l’attività disturba l’Aquila Reale di Frasassi che nidifica; però, secondo le stesse preposte Istituzioni, il nido dell’Aquila Reale non viene messo in pericolo dall’esplosione a cielo aperto delle mine di cava a pochi metri. Genga è la terra del Papa, il 252° Vescovo di Roma, Leone XII nato qui nel 1760, che non fu in pontificato un esempio di virtù evangeliche e cristiane. Però a Leone della Genga qui ci tengono molto, oltre alla rituale toponomastica e ad un’orrenda fusione bronzea dono dei Rotary, gli hanno dedicato in anni recenti anche una mela autoctona che cresce qui per i monti, un presidio di biodiversità: la Mela del Papa. C’è stato, prima di Leone un altro Papa, non autoctono, il 246° Vescovo di Roma: Clemente XII, che ha avuto a che fare con questi territori; nel 1733 fece costruire la prima strada di collegamento tra il porto di Ancona e la Flaminia, dal capoluogo dorico a Fossato di Vico, la strada Clementina, oggi SS76, che fino a qualche decennio fa, prima delle gallerie, attraversava la Gola della Rossa risalendo tutto il corso dell’Esino. Dalla  vecchia Clementina ancor oggi, dentro la Gola della Rossa, partono sentieri escursionistici strepitosi; uno porta in una quarantina di minuti al millenario eremo di Grottafucile, fondato ed edificato da S. Silvestro e dai suoi monaci. Falcioni è una delle 38 frazioni del Comune di Genga, quella che sta lungo la Clementina, sopra la sponda destra dell’Esino. Siamo quaranta abitanti, bambini, adulti, vecchi, italiani, albanesi e francesi e, per buona parte dell’anno, due lussemburghesi con radici gengarine. Tutti hanno l’orto e c’è chi c’ha pure un pezzetto di bosco; ci sono cani, gatti, capre, oche e galline. C’abbiamo anche una chiesetta dentro una casa storica, dedicata a S. Giovanni Battista; solo che il parroco polacco della frazione confinante, figlio della Chiesa del Papa amico di Pinochet, si rifiuta di celebrarvi Messa alla festa del patrono il 24 giugno perché, dice, è un immobile privato; e qui la gente, specie i più anziani, sono tutti incazzati. Qui fino ai primi anni Novanta c’era una macelleria storica, in cui si facevano decine di chilometri per venirci a comprare il castrato. Qui il terremoto c’era arrivato pesantemente già nel 1997; poi alcuni hanno ricostruito bene, altri riempiendo qualche crepa e basta, altri se ne sono fregati perché era la casa dei nonni o della prozia e l’hanno lasciata così. Poi il terremoto è ritornato forte nei giorni scorsi e di danni ce ne sono stati molti, specialmente là dove erano prevalse superficialità, trascuratezza e abbandono. Domenica 30 ottobre alle 9 stavano già qui il sindaco, il vicesindaco, i carabinieri e i vigili urbani a sincerarsi di quello che era successo e ad ascoltare le persone. Quattro case inagibili con famiglie sfollate, quattro transennate e una puntellata; diverse parzialmente agibili. Anche la chiesetta ha buscato fortemente e l’hanno transennata. La strada provinciale della Gola di Frasassi, quella che porta alle Grotte, era già stata chiusa dopo le scosse di mercoledì 26, e rimarrà chiusa per molto, per verifiche, controlli, rimozione massi e detriti caduti dalle falesie. Dopo il terremoto siamo tutti un po’ diversi, alcuni che non si parlavano per qualche vecchia ruggine adesso si parlano; altri che si salutavano e basta si sono ritrovati a raccontarsi un po’ delle proprie vite. Alcuni anziani la sera vanno a dormire in una sorta di baita di legno sopra il fiume, poi la mattina tornano su e riprendono le proprie attività. Un’ultraottantenne continua a dormire in macchina, mentre il figlio e il nipote dormono dentro casa. La strada Clementina è stata la via di fuga dalle case, il punto di ritrovo provvisorio e di appello di dove fosse quello e quell’altro dopo le scosse. Adesso stiamo qui, un po’ più umani e assai impauriti. Eppure la mattina quando ti svegli ed esci di casa, e oltre quella casa puntellata scorgi il Monte Revellone con le sue creste, torna la meraviglia per questi posti, per questo paesello di persone e storie così diverse. Che curioso per me, figlio della città dell’Imperatore di Svevia, Federico II, aver scelto di venire a vivere nel territorio di due Papi… Però questo è l’approdo di un cammino, di scelte fatte, di idee perseguite, di cose da voler ancor fare. Qui c’è quello che Franco Arminio chiama “nuovo umanesimo delle montagne”. Qui ci sono battaglie da fare per i beni comuni, nuove pratiche di politica e democrazia da sperimentare. Qui c’è spazio ancora per far capire che non si vive più di soli scaldabagni e cappe e per la saccoccia, ma si possono sostenere storie ed esperienze, molte giovani, che disegnano uno stile di vita differente, più sobrio e più felice al contempo. Per affermare, usando le parole del paesologo Arminio “che il tempo della merce è finito, sta arrivando il tempo del sacro” Qui c’è quello che cercavo. Qui c’è quello di cui una civiltà, una Nazione, se è tale, non può fare a meno. E questo è assai differente dalla preoccupazione di essere dimenticati. Noi restiamo qui, a Falcioni, al km 38 della strada Clementina, dopo la Gola della Rossa e sopra il fiume. Qui, vicino alle Grotte di Frasassi e fuori dal cratere. 

* scritto il 6 novembre 2016 (*)

domenica 4 dicembre 2016

I BISCOTTI DEL MONASTERO

Le scorgo da in fondo la salita che già ci aspettano sul cortile. Oltre i vetri della finestra si scorge il Vettore con i primi schizzi di neve. “La terra – dice la Madre Badessa - è arrabbiata con noi”. “Ne avrebbe molte di ragioni – gli rispondo – considerato come la trattiamo”; mi sorride benevola, senza aggiungere nulla. Dentro la casa di campagna, in mezzo l’alta collina fermana, si sta bene, non fa freddo come fuori, l’accoglienza delle monache è molto calorosa e funziona meglio del riscaldamento.  Fino a qualche giorno fa, non c’era una strada percorribile in auto per arrivare lì; poi il Comune ha fatto aprire una sterrata carreggiabile su quello che era poco più di un sentiero. Loro non sono contente di stare lì, si sentono sacrificate, un po’ in cattività, lontane da quella che era la loro perenne dimora abituale. Loro, sono le monache benedettine di clausura di Amandola. Il Monastero di San Lorenzo, già provato fortemente dalla scossa del 24 agosto che aveva già reso scarsamente agibile parte dei locali, il 30 ottobre è parzialmente crollato, proprio mentre alcune stavano in chiesa. Loro, sempre le suore, avevano resistito nel rimanere al monastero fino a quella domenica mattina, ma poi sono state messe in salvo dai pompieri; per qualche giorno hanno dormito al palasport cittadino; poi sono state trasferite in quella che era una proprietà dell’Ordine, frutto di un lascito benemerito di qualche anima pia. Anche loro vogliono ripartire, anche loro hanno la tenacia e la fierezza dei marchigiani che vogliono rialzarsi in piedi e, soprattutto, non vogliono abbandonare i propri luoghi. Sono nove, quattro di origine nigeriana; quest’ultime hanno ancora negli occhi la paura e lo smarrimento di chi non sapesse fino a un paio di mesi fa cosa fosse, come fosse, un terremoto. Ma la Madre Badessa, vuoi per funzione, vuoi per carattere, sa fare squadra, le tiene tutte sul pezzo e coinvolte in questa nuova, provvisoria e poco riservata, dimensione della vita claustrale. Insistono perché si resti a pranzo da loro, ci tengono. In una stanzetta noi, con gli operai che stanno sistemando un po’ di cose intorno alla casa per rendere maggiormente funzionale il tutto; in un’altra stanza loro, le monache: sono sì sfollate, ma pur sempre di clausura e le regole vanno osservate. Poi dopo pranzo, la Madre Badessa le chiama tutte nella stanza degli ospiti, e le sorelle nigeriane arrivano con degli strumenti etnici a percussione, e succede l’imponderabile per noi, quasi come il terremoto per loro: si accomodano sulla panchetta e attaccano un canto religioso della loro terra; la lingua è incomprensibile, ma la Madre Badessa e le consorelle marchigiane, battono il tempo con le mani. Fuori dai vetri i Sibillini, l’Africa all’interno della casa, catapultati su un altopiano nigeriano; una sonorità che mi riporta lontano di parecchi anni e di qualche migliaio di chilometri, su una chiesa cristiana in cima alla falesia di Badiangara, in Mali. Ma siamo lì, invece, nel fermano, con delle monache sfollate, sui “monti azzurri”. Dentro quella casa, così lontana e avulsa da sistemi di quotidianità, poco raggiungibile, abitata provvisoriamente da nove donne così estranee al nostro concetto di vita e di tempo, così piena ancora di paura, ma al tempo stesso anche di speranza, ho avuto la sensazione di trovarmi per qualche ora nel cuore del mondo; Ali Farka Tourè, poeta e musicista maliano, ad un intervistatore occidentale, una volta disse: “Per alcune persone, quando dici Timbuctu, è come dire la fine del mondo, ma non è vero. Io sono di Timbuctu e posso dirvi che siamo nel cuore del mondo”. E il “cuore del mondo” non è tanto dove si è, ma come si è e con chi si è. E allora i “cuori” del mondo possono essere infiniti. La faglia, con lacerazione e dolore come ogni ferita, ha portato a giorno sull’Appennino tanti cuori del mondo; che non sono solo borghi e paeselli sperduti qua e là, ma vite, storie, volti umani e di bestie che ogni giorno rendevano vivo e pulsante, pur tra molti sacrifici, quel territorio. Ma che i più scoprono essere veramente abitato e vissuto tutti i giorni, solo quando ci sono grandi tragedie, anziché essere uno sfondo ritoccato e virtuale su Instagram. Ecco, se la ricostruzione avesse come orizzonte politico ed amministrativo il concetto di “cuore del mondo”, la strategia dell’abbandono dei luoghi e delle comunità, non avrebbe nessuna efficacia. Nel congedarci tutte le sorelle abbracciano mia moglie, sorella anche lei per qualche ora. Quando usciamo per ripartire, vengono tutte sul cortile a salutarci. Incrocio gli occhi di una sorella nigeriana, quella che è scappata via dalla chiesa con il tetto che gli rovinava dietro. Prima del canto aveva lo sguardo smarrito; adesso gli occhi sono luminosi, c’è di nuovo quella luce densa che vedi solo in Africa,  e ci sorride. Un sorriso che ci fa molto bene. Loro vogliono tornare a San Lorenzo, al Monastero, hanno da prendersi cura del roseto e dell’orto. Ma, soprattutto, lì in mezzo alla campagna, non possono più fare i loro buonissimi biscotti. 

venerdì 18 novembre 2016

LA STRATEGIA DELL'ABBANDONO

La strategia dell’abbandono risiede da sempre in molti paesi dell’Appennino. Sta lì, silente e dormiente per lungo tempo, un po’ come le faglie nella crosta terrestre. Poi, come il terremoto, all’improvviso ritorna a manifestarsi con tutta la sua forza, arruolando proseliti, capi ed esecutori. Il terremoto è il suo più grande complice. Nel tempo di quiete, la strategia dell’abbandono si alimenta di cattiva edilizia, saccheggio del paesaggio, mancata prevenzione geomorfologica, di patrimoni immobiliari lasciati all’incuria da eredi che neanche si ricordano di essere proprietari di una casa della bisnonna; ma si alimenta anche di amministratori locali che non hanno poteri di intervento efficaci e sanzionatori verso quanti lasciano depauperare un patrimonio immobiliare, fino al punto di renderlo pericoloso per tutti; si alimenta di politica locale sempliciotta, che pensa prima ai turisti che agli abitanti e, di conseguenza, non è consapevole del fatto che sull’Appennino i turisti ci sono se i paesi sono vivi, se chi ci abita è anche un animatore della vita del proprio borgo, se ci sono servizi, se le strutture ricettive sono sicure, se le due stanze che prendi in affitto per una settimana (e magari in nero) non ti si accartocciano sopra di notte se arriva il terremoto. Altrimenti perché venire qui, meglio il villaggio vacanze esotico o la nave crociera. Poi ci sono quelli che resistono alla strategia dell’abbandono. Sono quelli che sull’Appennino ci abitano, non perché condannati ad espiare qualche reato, ma perché hanno scelto consapevolmente di farlo, perché qui trovano le ragioni di una, seppur opposta al modello Briatore, idea di felicità. E allora ci sono bambini, ci sono vecchi, cani, pecore, maiali, mucche e galline; ci sono imprese che producono qualità esclusivamente per il fatto di essere lì, in quelle condizioni ambientali ed altimetriche. Ci sono ragazze e ragazzi che investono il proprio futuro qui, sull’Appennino, con competenze e conoscenze elevate. Tutto questo la strategia dell'abbandono vorrebbe delocalizzarlo, reinpiantandolo sulla costa o in qualche estesa pianura. E quando arriva il terremoto, la strada verso l'obiettivo, come si dice, è spianata. Perché la battaglia alla strategia dell’abbandono abbia successo c’è però bisogno di un nuovo civismo, di nuove pratiche democratiche e partecipative che promuovano, in chi ha scelto di vivere sull’Appennino, una diversa coscienza di attenzione e valorizzazione del territorio, capace di superare anche difetti, qualche cattiva abitudine incrostata, localismi e particolarismi di caseggiato, la saccoccia come fine ultimo ed esclusivo di ogni iniziativa ed attività. La sfida è riuscire a coltivare e far crescere una nuova idea di comunità e di appartenenza, che tenga conto dei valori dell’identità e delle radici, ma che sappia valorizzare anche quegli innesti che nel tempo si sono inseriti e che vogliono essere parte insieme a tanti. Una necessità di riorganizzazione culturale e procedurale. Una nuova “lunga marcia”, insomma. Sull’Appennino e per l’Appennino.



domenica 9 ottobre 2016

LA MANO NERA

Piove a Pescara del Tronto. E’ freddo, il primo vero freddo. “Cominciamo da quelle leggere – dice Enzo mentre rovista nello zainetto che ha salvato dal crollo di casa la notte del 24 agosto – poi passiamo alle altre. “ Leggere e pesanti  sono le cose che vuole raccontarmi. Alla fine passano più di due ore, accartocciati dentro il camper del GUS. Enzo partendo da sé, dalla sua vita a Pescara, è  un fiume in piena. Racconti, idee, proteste e proposte, che come l’acqua del fiume che passa, si mescolano, accavallano, confondono. Mi colpisce però un’espressione ricorrente che attraversa le storie di Enzo, quasi un’intercalare, con cui identifica ciò che in quel territorio è stato fatto da molti anni. “E’ successo – dice – per opera della “mano nera”. Non specifica cosa sia o chi sia, ma dopo un po’ lo capisco. Chi, o coloro, singoli e aggregati, che pur essendo figli di quella terra, ad un certo punto, per ambizione ed avidità personali, hanno sfruttato quel territorio, provocato danni e ferite non rimarginabili, in nome di un presunto benessere della popolazione, a cui peraltro si appartiene. La “mano nera” non ha una fisiognomica precisa, un’anagrafica codificabile, può essere la politica, l’imprenditoria, la chiesa, o commistioni opache di tutto questo. Quello o quelli che le strade, il cemento, le fabbriche, portano lavoro, sviluppo e crescita economica. Ma che sotto, appena oltre il cotico del suolo, lasciano inquinamento, depauperamento delle risorse naturali, lesioni all’assetto geomorfologico originario, malattie. Enzo poi è costretto a smettere di raccontare, perché io devo ripartire, ma ne avrebbe ancora per molto; “non preoccuparti che tanto torno per riprendere il discorso - gli dico salutandolo – mica abbiamo finito…”. Lui ritorna verso la sua tenda-casa, a presidiare il suo paese e le sue storie, quasi a vigilare da qualche altra “mano nera” che potrebbe riaffacciarsi da dietro quei cumoli di rovine e macerie, e riproporre nuove lusinghe su come riportare sviluppo e benessere dopo la tragedia ed il lutto del terremoto. Tornando e ripensando alle storie di Enzo, in fondo se si guarda, anziché semplicemente vedere, ogni paese, ogni città, ha la sua “mano nera”. La “mano nera” è figlia di un territorio, c’è nata e cresciuta e, in molte realtà, continua a viverci. Vuole bene alla propria realtà nativa, desidera sviluppo, lavoro, progresso per tutti i conterranei. Però, c’è un però. Per la “mano nera” la priorità resta comunque la propria saccoccia, i cazzi propri. E allora per la “mano nera” è normale che gli scarti industriali tossici della propria fabbrica li si sotterri sotto superfici su cui poi la gente è andata ad abitare o li si riversi nel fiume. Che volete? Grazie alla produzione industriale è stato dato lavoro a tutti, dai nonni ai nipoti. Per la “mano nera” le montagne non sono luoghi da tutelare e da promuovere per le attività naturalistiche e turistiche, ma oggetti da far saltare con le mine e da segare a fette, perché quella pietra lì è un gran business nell’industria chimica e farmaceutica, e poi ci si sbianca anche lo zucchero da barbabietola; perché indignarsi poi: quattro spicci di diritto di escavazione vanno al Comune, alla Provincia e alla Regione; e poi, ogni volta che c’è la campagna elettorale, s’è sempre data una mano (e una bustarella) a tutti, senza distinzioni ideologiche. Per la “mano nera” ci sta che ogni territorio vasto abbia il suo inceneritore, e va fatto proprio lì sopra, dove tanto il terreno è già stato inquinato da decenni da quell’impianto industriale chiuso, che così almeno all’impianto di termovalorizzazione (espressione elegante per definire l’inceneritore) si riassume pure qualche decina di licenziati senza alcuna speranza. “La mano nera” è quella che poi chiama direttamente il ministro di turno per far spostare la direttrice di un nuovo asse stradale. E’ più funzionale, meno costoso e meno impattante si dirà; ma no, è più costoso, si allunga il percorso, si inquina di più, però se passa dall’altra parte, là ci stanno i terreni di tizio e di caio (e qualcosina pure di sempronio). Le discariche, come sanno gli addetti ai lavori, hanno un tempo di vita predefinito; dopo un po’ vanno ad esaurimento e deve essere chiuso e risanato il sito. Ma la “mano nera” pensa che sia una cazzata: ci si fanno talmente tanti soldi, si da lavoro, si danno soldi ai Comuni che ci fanno nuovi giardinetti e piste ciclabili; sai che facciamo? Ne chiediamo la proroga temporale per la durata e pure l’ampliamento per metterci più rifiuti speciali, perché sono quelli che fanno l’affare, mica i quattro sacchetti di indifferenziato delle famigliole del posto… Ecco, e si potrebbe continuare a lungo, così come Enzo racconterebbe all’infinito le storie del suo paese che in una notte d’estate è scoppiato. Poi a valle incontro un gruppo di ragazzi che hanno deciso di scrivere su Facebook quello che succede ai loro paesi dopo il 24 agosto, ma anche quello che era la vita delle loro piccole comunità prima di quella notte. Anche loro non se ne vogliono andare e vogliono diventare adulti e vecchi lì. Hanno tutti meno di vent’anni e gli occhi luminosi anche in questi giorni di lutto, di separazione, sbandamento, di pioggia e freddo. La pagina Facebook si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the dust”. Sono loro il miglior antidoto nei confronti della “mano nera”; e come loro i tanti adolescenti sparsi nei paeselli che credono che lì, ancor più che in grandi città, si possa costruire felicità. Anche questi giovani sono quelli che Paolo Pileri, nel bel libro “Che cosa c’è sotto”, chiama “i partigiani del suolo”.

*il manifesto è affisso sotto un pilone del viadotto che passa sopra Pescara del Tronto

domenica 25 settembre 2016

ENZO ABITA QUI

La macchina rossa era di Enzo; sopra la macchina c’è, crollata, la casa di Enzo. Avevo letto di Enzo i giorni scorsi, la sua scelta di rimanere l’unico abitante dentro il paese disintegrato dal terremoto di Pescara del Tronto mi aveva colpito. Poi una serie di concomitanze hanno fatto si che con Enzo ci siamo incontrati e conosciuti; forse, per certi imperscrutabili  aspetti, riconosciuti. “Lui fuori dalla zona rossa non ci viene – mi hanno detto – bisogna che vieni giù tu”. “Ma a me – avevo ribattuto – dentro la zona rossa non mi ci fanno entrare”. Poi il compromesso, ci incontriamo in una sorta di striscia interterritoriale, subito oltre il confine della zona rossa. Ci conosciamo lì, proprio davanti la sua macchina rossa sfondata dalle macerie. Mi sento ridicolo con il caschetto giallo modello pupazzetto Toys, non tanto per ragioni estetiche; mi interrogo da cosa dovrebbe rendermi incolume quel pezzo di plastica se ci fosse un pericolo vero e serio. Enzo mi racconta un po’ di sé, che vive lì da più di vent’anni, che il padre era di Pescara, ma che lui è nato e vissuto a Roma, per poi scegliere di venire a vivere in quella casa delle radici familiari. Enzo non se ne andrà da Pescara, non lo ha fatto dalla notte della catastrofe sismica, non lo farà in seguito. I primi giorni ha dormito sopra una tettoia all’aperto, poi i ragazzi del GUS gli hanno portato una tenda, e gli continuano a portare i pasti, perché lui da lì non esce, come se uscendo dalla zona rossa temesse che trovano il modo di fregarlo e non farlo rientrare più. Gli hanno offerto in dono una roulotte per l’arrivo della stagione fredda, ma è stato detto ai benefattori che non è possibile procedere al dono, perché si creerebbe un precedente. Enzo mi racconta che ha dato una mano fondamentale nelle ore immediate alla tragedia, consentendo di tirare fuori in poche ore sia i vivi che i morti; si, perché lui sapeva quali erano, tra tutte, le case abitate quella notte, e chi c’era in ogni casa. Poi mi dice anche che lui sta lì non per protesta, ma perché ha da fare delle proposte. E che ha un sacco di cose da raccontare. Gli dico che mi interessa ascoltarlo e che torno; mi lascia il suo numero di telefono. Chi è Enzo? Il suonato del paese, come è semplicistico pensare, o la testimonianza di qualcos’altro di più profondo, significativo, che ci mette di fronte a verità rimosse o sconosciute? Ogni terremoto, con il suo carico di tragedia e di dolore, per molti, purtroppo, è l’occasione per prendere atto di un fatto, o di fare una scoperta: che su per quelle montagne non ci sono solo i turisti, gli escursionisti, i villeggianti estivi a cui è rimasta la casa della nonna o dello zio; no, pensate, che su per quelle montagne, c’è gente che ci vive sempre, che ci lavora, ci sono bambini che nascono, che vanno a scuola e che diventano grandi. C’è gente che lì ha scelto di vivere e che, incredibilmente, è felice di viverci per tutta la vita; e che neanche adesso che il terremoto gli ha portato via tutto, se ne vuole andare. Strana la gente… Nelle città si sta meglio, più sicuri, ci sono tutte le comodità; perché ricostruirgli il paese spianato dal sisma, sarebbe tanto meglio per loro  che lo Stato gli ricostruisse una nuova e migliore vita in città… Però dal lavoro e dall’economia di quelle montagne, ci piace riempirci borse della spesa e imbandirci tavole per la nostra convivialità, anche per la nostra sempre più mirata ricerca di una maggior sana alimentazione. Ma quella roba si fa lassù, in cima all’appennino, è lassù che il lavoro di chi vive consente di ottenere beni non riproducibili e delocalizzabili. E allora se facciamo l’amatriciana solidale, è un po’ una presa per il culo farla con i prodotti comprati all’ipermercato; forse è più solidale se troviamo il modo di comprare gli arrosticini che anche in questi giorni con la casa crollata, ma con la macelleria più o meno stabile, continua a preparare e a vendere l’allevatore-macellaio del paesello. Perché se gli arrosticini e gli altri prodotti di un duro lavoro su quei monti, non glieli compra più nessuno, perché il paese non c’è più e fra un po’, passata l’emergenza e sgomberate le tende, non ci faranno spesa più neanche i vigili del fuoco, lui con l’amatriciana solidale non ci fa un cazzo; tra qualche settimana, arrivato l’inverno, chiude bottega. Enzo mi deve raccontare un sacco di cose; “devo parlarti – mi dice salutandomi – della cava qui dietro il paese, del cemento che c’era qui, della fonte dell’acqua, e ti devo dire delle proposte”. “Ok – gli dico – mi organizzo e tra qualche giorno ritorno. E tu lo sai che ritorno. Vedi di farti trovare qui dentro, a Pescara del Tronto”

venerdì 8 luglio 2016

EMMANUEL E CHINYERY, LE MARCHE, E L'INNOCENZA PERDUTA (se mai avuta)

Il barbaro assassinio di Emmanuel a Fermo, non è sufficiente che possa essere riconosciuto come un gesto fascista, fatto da un fascista. Per molti, fascista, è una parola quasi impronunciabile, che non sta bene usare nel XXI secolo, e quindi meglio razzista, estremista di destra, o la molto più soft ultrà. Ed è quindi comprensibile e condivisibile, che anche molti si incazzino e pretendano che quel gesto e quell’omicida vengano appellati con la parola più propria, fascismo. Ma non può esaurirsi e finire qui. Quell’omicidio apre questioni e problematiche più profonde, che interpellano una regione e che esigono che, almeno, questa tragedia possa rappresentare l’opportunità, non rinviabile, per una terra di un milione e mezzo di abitanti, per fare un tagliando. Un tagliando al livello del suo sentimento democratico, che coinvolga i singoli, la società organizzata, le classi dirigenti, la politica e le istituzioni. L’omicidio di Emmanuel ci dice che abbiamo superato il livello di guardia, tutti e tutto. Il fatto che uno spacchi il cranio ad una persona perché considerato diverso, ha alle spalle tutta una filiera di valori, di sentimenti, di comportamenti, consapevoli ed inconsapevoli, propri di una comunità, che non solo negli anni si sono indeboliti, ma addirittura incrinati. E' il fatto che uno, al di là del suo istintuale tasso di aggressività e di cultura, arrivi a considerare normale, comprensibile e giustificabile, considerare l’altra persona, per provenienza e per etnia, una scimmia. E se questo avviene, significa che quell’omicida ha una certa consapevolezza che, nel considerare un africano una scimmia, possa essere nel pensiero comune della gente che ha intorno, un atteggiamento se non del tutto legittimabile, quantomeno sopportabile. E allora che cosa è diventata negli anni la società marchigiana, cosa sono diventati i tanto prudenti e timorati marchigiani? Dov’è finito quel tanto decantato humus comunitario ed identitario, che è stato per decenni assunto a modello e ad esempio (nelle relazioni, nell’economia, nei rapporti della società organizzata,…)? Perché, in un certo senso, l'omicidio di Emmanuel sancisce  l'attimo in cui si è persa quell’aurea di innocenza? O non c’è mai stata? Perché è sufficiente oggi la presenza, in una piccola cittadina, di una decina di richiedenti asilo, per mandare in tilt una cristallizzata e apparentemente tranquilla dinamica quotidiana, per far smarrire ai responsabili delle Istituzioni, senso di responsabilità, e trasformarli persino in promotori della paura, per smuovere sentimenti di ostilità, egoismo ed intolleranza anche in persone insospettabili? E’ stata la crisi? E’ stato il venir meno, nelle Marche di un’idea dei rapporti padronali e subalterni, concretizzatasi per decenni classe dirigente diffusa, e che creando dipendenza, nella sua implosione, ha lasciato tutti senza la figura rassicurante di un padrone? E’ stata la mutazione genetica, probabilmente irreversibile, di un modello e una pratica della politica improntata alla sola semplificazione, razionalizzazione, cultura del “The Truman show”? E’ stato il fatto che da diversi anni si è spinto sull’acceleratore culturale della costruzione di un’identità marchigiana (storicamente inesistente), anziché sulla crescita consapevole e partecipata di un nuovo e necessario umanesimo ed autentica comunanza? O è stato il fatto che, non solo nelle Marche, quando ogni aspetto della vita e della quotidianità, è improntato alla supremazia assoluta della merce, di conseguenza tutto è giustificabile al perseguimento di quel fine? Oggi, se usciamo dai mantra dei tweet e degli #, ci accorgiamo che questa regione (e i suoi abitanti) è più povera, più sola, più egoista e più corrotta. E di conseguenza più propensa a far sedimentare germi e sentimenti fascisti. E la risposta a tutto questo non può essere ancora la semplificazione di questioni che hanno necessità di complessità ed articolazione, ed un generico e riverniciato riformismo. Ma deve necessariamente essere la radicalità. Delle idee, dei comportamenti, delle scelte; private e pubbliche; individuali e collettivi. E’ necessaria una forte iniezione di eresia. Don Vinicio Albanesi, quando eravamo molto più giovani, e più giovane anche lui, ai campeggi ci portava a tavola una grande pastasciuttiera con dentro la pasta fumante, e ci diceva nel posarla al centro della mensa a cui sedevamo: “ecco l’Eucarestia”. Era eretico e blasfemo, nel fare e nel dire? Non saprei; certo era un messaggio forte per dei ragazzi di vent’anni, c’era l’idea di sentirsi una comunità di eguali, di mutualità, e di condividere un po’ per uno, ma per tutti con tutti, quanto bastava per vivere, il necessario. E di conseguenza nessuno si sentiva diverso, subalterno, ma autonomo e tra pari; libero di impegnarsi nel dispiegare la propria vita nella comunità più grande. Ecco, forse le Marche, hanno bisogno di prendere atto che "il tempo della merce è finito, e sta arrivando il tempo del sacro*". Ne saranno all’altezza, ne saremo all’altezza? Non ho molta fiducia, guardandomi attorno. Vedo molte indignazioni di giornata, costernazioni da primo post su facebook il ripetersi di stanchi ed inefficaci riti di solidarietà e cordoglio. Vedo la paura, se non il terrore, per chi ha responsabilità, seppur diverse, verso i cittadini, di chiamare la cose con il loro vero nome, perché ciò metterebbe in discussione un pezzetto del proprio potere e consenso. Non vedo, ma è dovuto sicuramente alla miopia, quasi niente di radicale. Quel gesto così apparentemente senza finalità e concretezza, a cui invita un poeta ed un intellettuale come Franco Arminio: “Mettiti in ginocchio anche se non credi a nessuno.

 *cit. Franco Arminio


PS. Immagine di Serrabernacchia (frazione di Genga)


martedì 24 maggio 2016

PARTIGIANI DI IERI E PRETORIANI DI OGGI

Non saprei, nel momento in cui mi accingo a scrivere alcune riflessioni personali, se mi trovo nello status, come detto da alcune e alcuni in questi giorni, di possessore della “eredità morale della Resistenza”; l’unica eredità che mi sono ritrovato, ed anche casualmente, semidimenticata in una scatola di cartone tra un trasloco e un altro, sono due medaglie di bronzo delle Brigate Garibaldi. Mio padre ed io, solo più di settant’anni dopo, abbiamo ricostruito che, anziché essere state regalate negli anni a nonno Serafino da qualche parente o conoscente, come c'avevano detto, erano DI nonno Serafino. Nonno (scomparso nel 1974), mica l’aveva detto a nessuno che a tutti gli effetti aveva fatto parte di un distaccamento partigiano in quel di Ostra, che stava con Brutti e Maggini…(fucilati dai fascisti Ostra il 6 febbraio del 1944); c’è toccato andare all’Archivio di Stato, all’Istituto di Storia e al Distretto Militare, per trovarlo lì, il Serafino, in lista con tutti gli altri partigiani, 70 anni dopo la Liberazione. Questo, per avvalorare una cosa che ho imparato in questi anni, avendo avuto il privilegio di conoscerne tanti, italiani, slavi, di tutta Europa: che i Partigiani parlano poco o niente; o meglio di quello che hanno fatto e del perché l’hanno fatto, non ti raccontano proprio nulla, nonostante sollecitati. Anzi, più chiedi e più si infastidiscono. Poche parole, quello che è si è si, quello che è no è no. E allora da questo capisci che è meglio lasciarli stare, non tirarli per la giacca, né tantomeno esibirli come una sorta di Buffalo Bill al circo. E capisci una cosa, specialmente: che questi qui è giusto che dicano su tutto quel che cazzo gli pare e gli passa per la testa; è così e basta. Ma questo, chi pensa che l’attività e le scelte della politica, il consenso a queste,  si fondano sulla fedeltà ad una persona fisica, ad un capo, con metodi, parole e prassi scopiazzate da qualche setta psico-socio-spirituale, non lo può capire. Chi ha combattuto per la Libertà ha praticato, nell’essere certamente fedele ad un ideale e ad una causa, tra i suoi simili, capi o sottoposti, esclusivamente il valore della lealtà. Cosa assai diversa dalla fedeltà. E allora, di conseguenza, per la politica modello scientology (o altre esperienze nostrane similari), è impensabile, inammissibile, che un’associazione, autonoma giuridicamente e statutariamente, di oltre centoventiquattromila iscritti, che si ritiene idealmente vicina, possa nel merito di una questione specifica, democraticamente decidere di pensarla diversamente. Proprio perché quella politica lì, fondata e tenuta in piedi sul concetto della fedeltà, è forte e vincente solo se crea rapporti di sottomissione, asservimento e subalternità. Ecco perché l’aggressione all’ANPI, politica, morale, per certi versi con una fisicità, è di una gravità e di un pericolo inaudito. Perché non è la solita schermaglia, gioco fra parti, composizione e scomposizione interna ad un’area o schieramento. E’ qualcosa di più infido, profondo, pericoloso. E’ il riprodursi e nuovo prodursi della pretesa di controllo delle coscienze e delle intelligenze e, di conseguenza dell’esercizio della libertà di pensiero e azione di ognuno. E’ allora, in quella politica lì, non ci si confronta lealmente nel merito riconoscendosi reciproca autonomia e scelta; si scatenano i pretoriani, quelli televisivi, giornalistici e da tastiera; quelli che li fai inserire in un corpo estraneo, avverso, per sovvertirne l’equilibrio, l’ordine, la gerarchia. L'altro, nella sua soggettività organizzata, diventa il nemico da distruggere. E i pretoriani non sono, figurativamente, equiparabili oggi ai semplici iscritti, militanti, opinionisti di un partito o movimento. Nell’antichità erano militari scelti che svolgevano compiti di guardia del corpo dell’imperatore; erano pronti a morire per l’imperatore, non per una causa o un ideale, si badi bene, per il corpo dell’imperatore. Per il militante o l'iscritto ad una associazione, a battaglia politica finita, il giorno dopo è un giorno come un altro, con la propria vita, il proprio lavoro, i propri affetti. Per il pretoriano la posta è molto più alta, vitale; sul piatto ci si gioca spesso tutto, metaforicamente la vita. La coscienza individuale, l’esercizio della propria convinzione, che in una associazione è sinonimo di confronto, dialettica e democratica sintesi, non può essere riconosciuta da una determinata strutturazione politica; pena il cedimento delle sue fondamenta. E’ un concetto che mi genera, e non mi ritengo certamente uno che si impressiona, spavento. Quattro anni fa, e questa riflessione di oggi coincide con un anniversario, casualmente il 24 maggio (quello del Piave…), con la maggioranza politica dei Consiglieri Provinciali di Ancona uscii dall’aula facendo mancare il numero legale, quando si voleva far approvare un atto che avrebbe fatto aprire una nuova cava su Monte S. Angelo ad Arcevia; su quel monte il 4 maggio del 1944 i fascisti ammazzarono più di settanta civili, tra cui una bambina di sei anni, Palmina. Un luogo sacro, al di là del valore ambientale del territorio, che non può essere oggetto di interessi privati e speculativi, tanto più autorizzati da provvedimenti pubblici. L'atto non fu approvato, il Consiglio Provinciale decadde pochi giorni dopo per fine consiliatura e poi le Province non sono state più elette dai cittadini. La cava ad oggi non è stata fatta. Non  comunicai anticipatamente ad alcuno (a livello politico e di partito) che avrei agito in quel modo e sollecitato altri compagni ad agire così. Chiesi esclusivo consiglio ad un anziano che oggi ha quasi 93 anni, uno di quelli che oggi è giusto dica quello che stracazzo gli pare, un Partigiano; uno offeso e aggredito verbalmente in maniera virulenta, e pubblicamente, da settimane dai famigli dell'imperatore e dai pretoriani. Fu doloroso quel 24 maggio; la coscienza versus l’appartenenza ad un partito. L’ideale o la saccoccia. In quel giorno, con quella scelta, si sarebbe esaurito un mio percorso nella politica attiva, e di questo ne ero consapevole uscendo di casa la mattina. Da quel giorno, ogni mattina, però, riesco ancora a guardarmi nello specchio. E per questo non c’è alcuna Mastercard che valga.