Oramai è abbastanza chiaro qual'è la partita che si
giocherà nei prossimi tempi sull'Appennino ferito dal terremoto. O meglio, è la
ripresa di una partita antica, sospesa e ricominciata più volte negli anni. Il
sisma recente ha semplicemente fischiato un nuovo calcio d'avvio. È la sfida
tra chi pensa, progetta, lavora perché la montagna sia un luogo dove vivere,
crescere e morire, e quanti anche loro pensano, progettano e lavorano perché la
montagna diventi definitivamente un luogo spopolato, utile a perseguire
interessi economici di pochi, anche opachi, lontano da qualsiasi controllo; tutt'al più un territorio per occasionali vetrine vacanziere e turistiche, in
ambienti sterilizzati tipo parco avventura. Dopotutto perché stare a
ricostruire tanti piccoli abitati urbani di poche centinaia di persone, che la
furia della natura ha raso pressochè al suolo? Non ci sono solo i costi vivi della
ricostruzione immediata, ma quelli, enormi, negli anni a venire: servizi alle
persone, alle attività economiche, manutenzione del territorio e prevenzione
del rischio geomorfologico ed idrogeologico, etc etc... Ma siamo matti? Tutto
ciò per qualche migliaia di persone? Meglio accompagnare una loro riconversione
del quotidiano da un'altra parte, dove c'è già tutto, e molto, in questi anni
di crisi, di avanzo: case, infrastrutture, centri commerciali, etc. Si, ma il
lavoro? E perché, in montagna prima del terremoto, c'era il lavoro? E quale? Le
pecore, le mucche, un po' di artigianato, qualche trattoria, un po' di
affittacamere? Roba da piccoli numeri, il lavoro è un'altra cosa...è le fabbriche, gli uffici, i grandi negozi... E nel corso
degli anni, mentre la partita era temporaneamente sospesa, si sono anche
cambiate alcune regole del gioco: una legge sui parchi nazionali che indebolisce il
concetto di tutela, le fusioni dei piccoli comuni, le grandi infrastrutture
stradali (come la Quadrilatero, tanto per fare un esempio) che tagliano fuori
le piccole comunità e micro, ma vitali, attività economiche, le
riorganizzazioni scolastiche, la razionalizzazione dei presidi sanitari, etc
etc. La squadra della #strategiadellabbandono è molto forte, compatta,
allenata, pratica schemi collaudati. L'altra formazione, quella "dei
partigiani della pelle del mondo", è fatta di contadini, di pastori, di
piccoli artigiani, di nuclei familiari che vivono di turismo sostenibile,
qualche eccentrico personaggio che dice di essere un artista e 'mangia' con la cultura; una selezione
spesso abituata all'individualità piuttosto che al collettivo, a difendersi
anziché attaccare... che ha tutte le premesse per prendere un
"cappotto" definitivo. Poi ci sono i tifosi sugli spalti, e quelli
"tutti allenatori" per un giorno; quelli che hanno passato anni nei convegni sulla montagna e sulle politiche per le aree interne. Di quelli che 'tengono' con la
squadra della #strategiadellabbandono non mi interessa molto, l'importante è
riconoscerli, perché stanno annidati anche dove meno te lo aspetti. Per tutti noi che 'stiamo' con quelli dell'Appennino, e alcuni di
noi sull'Appennino ci stiamo proprio a vivere, adesso che è passata pure
l'Epifania, è ora di mettersi in braghe e calzettoni, e giocare assieme ai
montanari che in questi ore resistono a - 12°, e agli altri
"deportati" (come dicono loro) sulla costa e al lago, questa partita, dal
finale non affatto pregiudicato. Perché "questa, è una storia che..." (per dirla alla Lucarelli) ha anche
a che fare con la parola democrazia.
venerdì 6 gennaio 2017
lunedì 2 gennaio 2017
LE MUCCHE DI AGOSTINO
Alle 11 di mattina di una bella giornata limpida e soleggiata di
fine 2016, il rilevatore termico della mia dacia sandero segna ancora 1 grado.
Ad un certo punto, con la coda dell'occhio, vedo sopra il ciglio della strada
un gruppo di mucche; non resisto... faccio inversione, torno indietro e svolto sulla strada laterale che sale e che,
dopo trecento metri dal bivio, è chiusa e transennata.
E già, di lì si saliva
per una frazione di Castelsantangelo sul Nera che è completamente crollata, e
anche la strada ad un certo punto è rovinata: tutto ora è zona rossa. Ma a me quei
pochi metri di strada bastano per scendere dalla macchina, inerpicarmi sulla
scarpata, e fare qualche foto alle mucche al pascolo sotto il sole. Quando
ridiscendo verso la macchina, sotto la strada c'è un pick-up d'annata con
dentro un uomo che mi osserva, un po’ tra l’insospettito e l’incuriosito.
Mi avvicino, lo saluto: 'buongiorno'.
'Che fai - mi chiede scrollando la sigaretta - le mandi ai
giornali?’
'No - rispondo sorridendo - non sono un giornalista, è che mi
piacciono le mucche, in particolare il muso; sono sue?'
'Si - mi conferma lui - ma qui le cose vanno male fratello, molto
male'.
Io in piedi e lui seduto sul pickup col finestrino abbassato e la
sigaretta ciondolante, iniziamo una imprevista ed improbabile chiacchierata.
Lui, è uno degli otto abitanti che sono rimasti a Castelsantagelo sul Nera, ché
sono quelli che c'hanno le bestie e non le possono, e non le hanno volute
lasciare. Tutti gli altri sono stati portati "in villeggiatura" sulla
costa, in attesa delle casette. Li ho visti, qualche settimana fa sulla costa,
aggirarsi disorientati sulla corniche tra
palme, panchine e “signorine” dell’Est”. Sguardi spaesati e occhi persi che ti
stringono lo stomaco; né “gente di mare”, né “turisti per caso”; solo sfollati
del terremoto sull’Appennino.
Anche la moglie e la figlia del proprietario delle mucche sono
loro sulla costa. Lui sta da mesi in una roulotte, la sua, ci tiene mettere in
chiaro subito. Di notte fa già molto freddo.
'In quattro mesi qui l'unica cosa che ci hanno portato sono i
bagni chimici e li hanno messi in paese ai bordi della zona rossa. Devo fare un
chilometro per pisciare - adesso è incazzato - e a 71 anni mi capita più di una
volta la notte, lo capisci vero? Ti pare normale dopo mesi questa situazione? Qui
se va avanti così non ci ritorna più nessuno, che vengono a fare? A cominciare
da mia moglie e mia figlia. Diventeranno posti abbandonati. Vogliono che se
vanno via tutti'
'Ma tu - gli chiedo - perché resti, solo per le mucche? Quante ne
hai, fai latte, formaggio?'
'No, sono poche, quelle che vedi, ma mi servono per arrotondare la
pensione, che ci campo con 700 € al mese?'
Ecco, non so proprio cosa rispondergli, è deluso e arrabbiato, ma né con qualcuno in
particolare, né con tutti. È arrabbiato e basta, secondo me ce l'ha con la
#strategiadellabbandono, anche se non sa cosa sia, anche se ci combatte da 4
mesi.
Me la cavo con un imbarazzato 'capisco' e con un incoraggiamento
semplicemente umano.
Ha il volto stanco, ma gli occhi sono fieri. Non mi ha più
risposto sul perché stia lì, oltre che per le mucche. Ma non serve, basta guardarlo
negli occhi per capirne il motivo.
Anche lui, per usare un'espressione di Paolo Pileri, nel bel libro
"Cosa c'è sotto", è un 'partigiano della pelle del mondo'. Uno dei
tanti, sconosciuti e sparsi sui paesi e sull'Appennino. Una moltitudine
demograficamente non censibile; che, se il Nemico avesse volto e nome definiti,
e loro la tenacia di ritrovarsi anziché rimanere sparpagliati e solitari, si
potrebbe mettere insieme un nuovo esercito di Liberazione; Liberazione da tante
cose di troppo, in eccesso e sbagliate.
Lui è Agostino, il padrone delle mucche.
venerdì 30 dicembre 2016
FALCIONI DI GENGA: VICINO ALLE GROTTE E FUORI DAL CRATERE. (*)
Si conoscono le Grotte di Frasassi, ma non
si associa quasi mai il Comune di Genga a questo miracolo della natura. Di
fatti non è semplice, perché Genga non è un unico borgo abitato, ma ben 38 tra
frazioni e località che circondano le Grotte di Frasassi; 1797 abitanti,
censisce l’Istat nel 2016, sparsi in 73,16 kmq. La tradizione popolare separa
in due il territorio comunale, definendo due nuove etnie di abitanti: i
“caccetti” e i “prosaioli”; i primi quelli che stanno sopra la Gola di Frasassi
in direzione Umbria, i secondi quelli che stanno sotto la Gola di Frasassi,
verso la costa adriatica. A Genga si è lavorato nel Novecento per gli
elettrodomestici dei Merloni, poi dal 1974 per tutte le attività logistiche, di
accoglienza e di ricettività che ruotano attorno alle Grotte. A dare
occupazione anche il Salumificio di Genga, che trasforma buoni prodotti
norcini, e l’acqua minerale Frasassi di Togni, che da qualche tempo s’è
lanciato anche nella produzione di buoni vini. Parecchi se ne sono anche andati
lungo il Secolo, chi a Roma, chi a Terni alle acciaierie, chi in Belgio e in
Francia. Nel territorio politica e istituzioni, da sempre derivati dei
frigoriferi e delle lavatrici, hanno voluto far credere che il solo valore da
perseguire fosse quello della saccoccia; quindi anche il magnifico paesaggio
delle Gole della Rossa e di Frasassi è stato immolato alla dea pecunia,
che ha fatto nel tempo adepti fedeli a destra, al centro e a sinistra:
inquinamento industriale astutamente sotterrato e riversato in fiume, attività
estrattive che hanno ridisegnato le sagome naturali dell’Appennino e, per
finire, la Quadrilatero con il raddoppio della statale 76, che sta finendo di
devastare la valle, per riproporre tragicamente un’idea di sviluppo sepolta per
sempre dai tempi della crisi della Lehman Brothers. Il moralismo delle
Istituzioni e della politica ha voluto fare dal 1997 di questo territorio un
parco regionale; che è in realtà un finto parco, dove non ci sono limiti alle
grandi opere, alle attività estrattive e alla caccia. Qui però, nonostante
tutto, ci vengono da tutto il mondo per le Grotte, per le escursioni e ad
arrampicare lungo le Gole; in alcuni punti non si può fare climbing perché,
dicono le Istituzioni preposte, l’attività disturba l’Aquila Reale di Frasassi
che nidifica; però, secondo le stesse preposte Istituzioni, il nido dell’Aquila
Reale non viene messo in pericolo dall’esplosione a cielo aperto delle mine di
cava a pochi metri. Genga è la terra del Papa, il 252° Vescovo di Roma, Leone
XII nato qui nel 1760, che non fu in pontificato un esempio di virtù
evangeliche e cristiane. Però a Leone della Genga qui ci tengono molto, oltre
alla rituale toponomastica e ad un’orrenda fusione bronzea dono dei Rotary, gli
hanno dedicato in anni recenti anche una mela autoctona che cresce qui per i
monti, un presidio di biodiversità: la Mela del Papa. C’è stato, prima di Leone
un altro Papa, non autoctono, il 246° Vescovo di Roma: Clemente XII, che ha
avuto a che fare con questi territori; nel 1733 fece costruire la prima strada
di collegamento tra il porto di Ancona e la Flaminia, dal capoluogo dorico a
Fossato di Vico, la strada Clementina, oggi SS76, che fino a qualche decennio
fa, prima delle gallerie, attraversava la Gola della Rossa risalendo tutto il
corso dell’Esino. Dalla vecchia Clementina ancor oggi, dentro la
Gola della Rossa, partono sentieri escursionistici strepitosi; uno porta in una
quarantina di minuti al millenario eremo di Grottafucile, fondato ed edificato
da S. Silvestro e dai suoi monaci. Falcioni è una delle 38 frazioni del Comune
di Genga, quella che sta lungo la Clementina, sopra la sponda destra dell’Esino.
Siamo quaranta abitanti, bambini, adulti, vecchi, italiani, albanesi e francesi
e, per buona parte dell’anno, due lussemburghesi con radici gengarine. Tutti
hanno l’orto e c’è chi c’ha pure un pezzetto di bosco; ci sono cani, gatti,
capre, oche e galline. C’abbiamo anche una chiesetta dentro una casa storica,
dedicata a S. Giovanni Battista; solo che il parroco polacco della frazione
confinante, figlio della Chiesa del Papa amico di Pinochet, si rifiuta di
celebrarvi Messa alla festa del patrono il 24 giugno perché, dice, è un
immobile privato; e qui la gente, specie i più anziani, sono tutti incazzati.
Qui fino ai primi anni Novanta c’era una macelleria storica, in cui si facevano
decine di chilometri per venirci a comprare il castrato. Qui il terremoto c’era
arrivato pesantemente già nel 1997; poi alcuni hanno ricostruito bene, altri
riempiendo qualche crepa e basta, altri se ne sono fregati perché era la casa
dei nonni o della prozia e l’hanno lasciata così. Poi il terremoto è ritornato
forte nei giorni scorsi e di danni ce ne sono stati molti, specialmente là dove
erano prevalse superficialità, trascuratezza e abbandono. Domenica 30 ottobre
alle 9 stavano già qui il sindaco, il vicesindaco, i carabinieri e i vigili
urbani a sincerarsi di quello che era successo e ad ascoltare le persone.
Quattro case inagibili con famiglie sfollate, quattro transennate e una
puntellata; diverse parzialmente agibili. Anche la chiesetta ha buscato
fortemente e l’hanno transennata. La strada provinciale della Gola di Frasassi,
quella che porta alle Grotte, era già stata chiusa dopo le scosse di mercoledì
26, e rimarrà chiusa per molto, per verifiche, controlli, rimozione massi e
detriti caduti dalle falesie. Dopo il terremoto siamo tutti un po’ diversi,
alcuni che non si parlavano per qualche vecchia ruggine adesso si parlano;
altri che si salutavano e basta si sono ritrovati a raccontarsi un po’ delle
proprie vite. Alcuni anziani la sera vanno a dormire in una sorta di baita di
legno sopra il fiume, poi la mattina tornano su e riprendono le proprie
attività. Un’ultraottantenne continua a dormire in macchina, mentre il figlio e
il nipote dormono dentro casa. La strada Clementina è stata la via di fuga
dalle case, il punto di ritrovo provvisorio e di appello di dove fosse quello e
quell’altro dopo le scosse. Adesso stiamo qui, un po’ più umani e assai
impauriti. Eppure la mattina quando ti svegli ed esci di casa, e oltre quella
casa puntellata scorgi il Monte Revellone con le sue creste, torna la
meraviglia per questi posti, per questo paesello di persone e storie così
diverse. Che curioso per me, figlio della città dell’Imperatore di Svevia,
Federico II, aver scelto di venire a vivere nel territorio di due Papi… Però
questo è l’approdo di un cammino, di scelte fatte, di idee perseguite, di cose
da voler ancor fare. Qui c’è quello che Franco Arminio chiama “nuovo umanesimo
delle montagne”. Qui ci sono battaglie da fare per i beni comuni, nuove
pratiche di politica e democrazia da sperimentare. Qui c’è spazio ancora per
far capire che non si vive più di soli scaldabagni e cappe e per la saccoccia,
ma si possono sostenere storie ed esperienze, molte giovani, che disegnano uno
stile di vita differente, più sobrio e più felice al contempo. Per affermare,
usando le parole del paesologo Arminio “che il tempo della merce è finito, sta
arrivando il tempo del sacro” Qui c’è quello che cercavo. Qui c’è quello di cui
una civiltà, una Nazione, se è tale, non può fare a meno. E questo è assai
differente dalla preoccupazione di essere dimenticati. Noi restiamo qui, a
Falcioni, al km 38 della strada Clementina, dopo la Gola della Rossa e sopra il
fiume. Qui, vicino alle Grotte di Frasassi e fuori dal cratere.
* scritto il 6 novembre 2016 (*)
domenica 4 dicembre 2016
I BISCOTTI DEL MONASTERO
Le scorgo da in fondo la
salita che già ci aspettano sul cortile. Oltre i vetri della finestra si scorge
il Vettore con i primi schizzi di neve. “La terra – dice la Madre Badessa - è
arrabbiata con noi”. “Ne avrebbe molte di ragioni – gli rispondo – considerato
come la trattiamo”; mi sorride benevola, senza aggiungere nulla. Dentro la casa
di campagna, in mezzo l’alta collina fermana, si sta bene, non fa freddo come
fuori, l’accoglienza delle monache è molto calorosa e funziona meglio del
riscaldamento. Fino a qualche giorno fa,
non c’era una strada percorribile in auto per arrivare lì; poi il Comune ha
fatto aprire una sterrata carreggiabile su quello che era poco più di un sentiero.
Loro non sono contente di stare lì, si sentono sacrificate, un po’ in
cattività, lontane da quella che era la loro perenne dimora abituale. Loro,
sono le monache benedettine di clausura di Amandola. Il Monastero di San
Lorenzo, già provato fortemente dalla scossa del 24 agosto che aveva già reso
scarsamente agibile parte dei locali, il 30 ottobre è parzialmente crollato,
proprio mentre alcune stavano in chiesa. Loro, sempre le suore, avevano
resistito nel rimanere al monastero fino a quella domenica mattina, ma poi sono
state messe in salvo dai pompieri; per qualche giorno hanno dormito al
palasport cittadino; poi sono state trasferite in quella che era una proprietà
dell’Ordine, frutto di un lascito benemerito di qualche anima pia. Anche loro
vogliono ripartire, anche loro hanno la tenacia e la fierezza dei marchigiani
che vogliono rialzarsi in piedi e, soprattutto, non vogliono abbandonare i
propri luoghi. Sono nove, quattro di origine nigeriana; quest’ultime hanno
ancora negli occhi la paura e lo smarrimento di chi non sapesse fino a un paio
di mesi fa cosa fosse, come fosse, un terremoto. Ma la Madre Badessa, vuoi per
funzione, vuoi per carattere, sa fare squadra, le tiene tutte sul pezzo e
coinvolte in questa nuova, provvisoria e poco riservata, dimensione della vita claustrale.
Insistono perché si resti a pranzo da loro, ci tengono. In una stanzetta noi,
con gli operai che stanno sistemando un po’ di cose intorno alla casa per
rendere maggiormente funzionale il tutto; in un’altra stanza loro, le monache:
sono sì sfollate, ma pur sempre di clausura e le regole vanno osservate. Poi
dopo pranzo, la Madre Badessa le chiama tutte nella stanza degli ospiti, e le
sorelle nigeriane arrivano con degli strumenti etnici a percussione, e succede
l’imponderabile per noi, quasi come il terremoto per loro: si accomodano sulla
panchetta e attaccano un canto religioso della loro terra; la lingua è
incomprensibile, ma la Madre Badessa e le consorelle marchigiane, battono il
tempo con le mani. Fuori dai vetri i Sibillini, l’Africa all’interno della casa,
catapultati su un altopiano nigeriano; una sonorità che mi riporta lontano di parecchi
anni e di qualche migliaio di chilometri, su una chiesa cristiana in cima alla falesia
di Badiangara, in Mali. Ma siamo lì, invece, nel fermano, con delle monache
sfollate, sui “monti azzurri”. Dentro quella casa, così lontana e avulsa da sistemi
di quotidianità, poco raggiungibile, abitata provvisoriamente da nove donne
così estranee al nostro concetto di vita e di tempo, così piena ancora di
paura, ma al tempo stesso anche di speranza, ho avuto la sensazione di trovarmi
per qualche ora nel cuore del mondo; Ali Farka Tourè, poeta e musicista
maliano, ad un intervistatore occidentale, una volta disse: “Per alcune
persone, quando dici Timbuctu, è come dire la fine del mondo, ma non è vero. Io
sono di Timbuctu e posso dirvi che siamo nel cuore del mondo”. E il “cuore del
mondo” non è tanto dove si è, ma come si è e con chi si è. E allora i “cuori”
del mondo possono essere infiniti. La faglia, con lacerazione e dolore come
ogni ferita, ha portato a giorno sull’Appennino tanti cuori del mondo; che non
sono solo borghi e paeselli sperduti qua e là, ma vite, storie, volti umani e
di bestie che ogni giorno rendevano vivo e pulsante, pur tra molti sacrifici,
quel territorio. Ma che i più scoprono essere veramente abitato e vissuto tutti
i giorni, solo quando ci sono grandi tragedie, anziché essere uno sfondo
ritoccato e virtuale su Instagram. Ecco, se la ricostruzione avesse come
orizzonte politico ed amministrativo il concetto di “cuore del mondo”, la
strategia dell’abbandono dei luoghi e delle comunità, non avrebbe nessuna
efficacia. Nel congedarci tutte le sorelle abbracciano mia moglie, sorella
anche lei per qualche ora. Quando usciamo per ripartire, vengono tutte sul
cortile a salutarci. Incrocio gli occhi di una sorella nigeriana, quella che è
scappata via dalla chiesa con il tetto che gli rovinava dietro. Prima del canto
aveva lo sguardo smarrito; adesso gli occhi sono luminosi, c’è di nuovo quella
luce densa che vedi solo in Africa, e ci
sorride. Un sorriso che ci fa molto bene. Loro vogliono tornare a San Lorenzo,
al Monastero, hanno da prendersi cura del roseto e dell’orto. Ma, soprattutto,
lì in mezzo alla campagna, non possono più fare i loro buonissimi biscotti.
venerdì 18 novembre 2016
LA STRATEGIA DELL'ABBANDONO
La
strategia dell’abbandono risiede da sempre in molti paesi dell’Appennino. Sta
lì, silente e dormiente per lungo tempo, un po’ come le faglie nella crosta
terrestre. Poi, come il terremoto, all’improvviso ritorna a manifestarsi con
tutta la sua forza, arruolando proseliti, capi ed esecutori. Il terremoto è il
suo più grande complice. Nel tempo di quiete, la strategia dell’abbandono si alimenta di
cattiva edilizia, saccheggio del paesaggio, mancata prevenzione geomorfologica,
di patrimoni immobiliari lasciati all’incuria da eredi che neanche si ricordano
di essere proprietari di una casa della bisnonna; ma si alimenta anche di
amministratori locali che non hanno poteri di intervento efficaci e
sanzionatori verso quanti lasciano depauperare un patrimonio immobiliare, fino
al punto di renderlo pericoloso per tutti; si alimenta di politica locale sempliciotta, che pensa prima
ai turisti che agli abitanti e, di conseguenza, non è consapevole del fatto che sull’Appennino
i turisti ci sono se i paesi sono vivi, se chi ci abita è anche un animatore della
vita del proprio borgo, se ci sono servizi, se le strutture ricettive sono
sicure, se le due stanze che prendi in affitto per una settimana (e magari in
nero) non ti si accartocciano sopra di notte se arriva il terremoto. Altrimenti
perché venire qui, meglio il villaggio vacanze esotico o la nave crociera. Poi
ci sono quelli che resistono alla strategia dell’abbandono. Sono quelli che
sull’Appennino ci abitano, non perché condannati ad espiare qualche reato, ma perché
hanno scelto consapevolmente di farlo, perché qui trovano le ragioni di una,
seppur opposta al modello Briatore, idea di felicità. E allora ci sono bambini,
ci sono vecchi, cani, pecore, maiali, mucche e galline; ci sono imprese che
producono qualità esclusivamente per il fatto di essere lì, in quelle
condizioni ambientali ed altimetriche. Ci sono ragazze e ragazzi che investono
il proprio futuro qui, sull’Appennino, con competenze e conoscenze elevate. Tutto questo la strategia dell'abbandono vorrebbe delocalizzarlo, reinpiantandolo sulla costa o in qualche estesa pianura. E quando arriva il terremoto, la strada verso l'obiettivo, come si dice, è spianata. Perché
la battaglia alla strategia dell’abbandono abbia successo c’è però bisogno di
un nuovo civismo, di nuove pratiche democratiche e partecipative che promuovano, in chi ha scelto di vivere sull’Appennino, una diversa coscienza di attenzione e
valorizzazione del territorio, capace di superare anche difetti, qualche
cattiva abitudine incrostata, localismi e particolarismi di caseggiato, la
saccoccia come fine ultimo ed esclusivo di ogni iniziativa ed attività. La
sfida è riuscire a coltivare e far crescere una nuova idea di comunità e di
appartenenza, che tenga conto dei valori dell’identità e delle radici, ma che
sappia valorizzare anche quegli innesti che nel tempo si sono inseriti e che
vogliono essere parte insieme a tanti. Una necessità di riorganizzazione culturale e procedurale. Una nuova “lunga marcia”, insomma. Sull’Appennino
e per l’Appennino.
domenica 9 ottobre 2016
LA MANO NERA
Piove a Pescara del
Tronto. E’ freddo, il primo vero freddo. “Cominciamo da quelle leggere – dice
Enzo mentre rovista nello zainetto che ha salvato dal crollo di casa la notte
del 24 agosto – poi passiamo alle altre. “ Leggere e pesanti sono le cose che vuole raccontarmi. Alla fine
passano più di due ore, accartocciati dentro il camper del GUS. Enzo partendo
da sé, dalla sua vita a Pescara, è un
fiume in piena. Racconti, idee, proteste e proposte, che come l’acqua del fiume
che passa, si mescolano, accavallano, confondono. Mi colpisce però un’espressione
ricorrente che attraversa le storie di Enzo, quasi un’intercalare, con cui
identifica ciò che in quel territorio è stato fatto da molti anni. “E’ successo
– dice – per opera della “mano nera”. Non specifica cosa sia o chi sia, ma dopo
un po’ lo capisco. Chi, o coloro, singoli e aggregati, che pur essendo figli di
quella terra, ad un certo punto, per ambizione ed avidità personali, hanno
sfruttato quel territorio, provocato danni e ferite non rimarginabili, in nome
di un presunto benessere della popolazione, a cui peraltro si appartiene. La “mano
nera” non ha una fisiognomica precisa, un’anagrafica codificabile, può essere
la politica, l’imprenditoria, la chiesa, o commistioni opache di tutto questo. Quello
o quelli che le strade, il cemento, le fabbriche, portano lavoro, sviluppo e
crescita economica. Ma che sotto, appena oltre il cotico del suolo, lasciano
inquinamento, depauperamento delle risorse naturali, lesioni all’assetto
geomorfologico originario, malattie. Enzo poi è costretto a smettere di
raccontare, perché io devo ripartire, ma ne avrebbe ancora per molto; “non
preoccuparti che tanto torno per riprendere il discorso - gli dico salutandolo
– mica abbiamo finito…”. Lui ritorna verso la sua tenda-casa, a presidiare il
suo paese e le sue storie, quasi a vigilare da qualche altra “mano nera” che
potrebbe riaffacciarsi da dietro quei cumoli di rovine e macerie, e riproporre
nuove lusinghe su come riportare sviluppo e benessere dopo la tragedia ed il
lutto del terremoto. Tornando e ripensando alle storie di Enzo, in fondo se si
guarda, anziché semplicemente vedere, ogni paese, ogni città, ha la sua “mano
nera”. La “mano nera” è figlia di un territorio, c’è nata e cresciuta e, in
molte realtà, continua a viverci. Vuole bene alla propria realtà nativa,
desidera sviluppo, lavoro, progresso per tutti i conterranei. Però, c’è un
però. Per la “mano nera” la priorità resta comunque la propria saccoccia, i
cazzi propri. E allora per la “mano nera” è normale che gli scarti industriali
tossici della propria fabbrica li si sotterri sotto superfici su cui poi la gente
è andata ad abitare o li si riversi nel fiume. Che volete? Grazie alla
produzione industriale è stato dato lavoro a tutti, dai nonni ai nipoti. Per la
“mano nera” le montagne non sono luoghi da tutelare e da promuovere per le
attività naturalistiche e turistiche, ma oggetti da far saltare con le mine e
da segare a fette, perché quella pietra lì è un gran business nell’industria
chimica e farmaceutica, e poi ci si sbianca anche lo zucchero da barbabietola; perché
indignarsi poi: quattro spicci di diritto di escavazione vanno al Comune, alla
Provincia e alla Regione; e poi, ogni volta che c’è la campagna elettorale, s’è
sempre data una mano (e una bustarella) a tutti, senza distinzioni ideologiche.
Per la “mano nera” ci sta che ogni territorio vasto abbia il suo inceneritore,
e va fatto proprio lì sopra, dove tanto il terreno è già stato inquinato da
decenni da quell’impianto industriale chiuso, che così almeno all’impianto di
termovalorizzazione (espressione elegante per definire l’inceneritore) si
riassume pure qualche decina di licenziati senza alcuna speranza. “La mano nera”
è quella che poi chiama direttamente il ministro di turno per far spostare la
direttrice di un nuovo asse stradale. E’ più funzionale, meno costoso e meno
impattante si dirà; ma no, è più costoso, si allunga il percorso, si inquina di
più, però se passa dall’altra parte, là ci stanno i terreni di tizio e di caio
(e qualcosina pure di sempronio). Le discariche, come sanno gli addetti ai
lavori, hanno un tempo di vita predefinito; dopo un po’ vanno ad esaurimento e
deve essere chiuso e risanato il sito. Ma la “mano nera” pensa che sia una
cazzata: ci si fanno talmente tanti soldi, si da lavoro, si danno soldi ai
Comuni che ci fanno nuovi giardinetti e piste ciclabili; sai che facciamo? Ne
chiediamo la proroga temporale per la durata e pure l’ampliamento per metterci
più rifiuti speciali, perché sono quelli che fanno l’affare, mica i quattro
sacchetti di indifferenziato delle famigliole del posto… Ecco, e si potrebbe
continuare a lungo, così come Enzo racconterebbe all’infinito le storie del suo
paese che in una notte d’estate è scoppiato. Poi a valle incontro un gruppo di
ragazzi che hanno deciso di scrivere su Facebook quello che succede ai loro
paesi dopo il 24 agosto, ma anche quello che era la vita delle loro piccole
comunità prima di quella notte. Anche loro non se ne vogliono andare e vogliono
diventare adulti e vecchi lì. Hanno tutti meno di vent’anni e gli occhi
luminosi anche in questi giorni di lutto, di separazione, sbandamento, di
pioggia e freddo. La pagina Facebook si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the
dust”. Sono loro il miglior antidoto nei confronti della “mano nera”; e come
loro i tanti adolescenti sparsi nei paeselli che credono che lì, ancor più che
in grandi città, si possa costruire felicità. Anche questi giovani sono quelli
che Paolo Pileri, nel bel libro “Che cosa c’è sotto”, chiama “i partigiani del
suolo”.
*il manifesto è affisso sotto un pilone del viadotto che passa sopra Pescara del Tronto
domenica 25 settembre 2016
ENZO ABITA QUI
La macchina rossa era di
Enzo; sopra la macchina c’è, crollata, la casa di Enzo. Avevo letto di Enzo i
giorni scorsi, la sua scelta di rimanere l’unico abitante dentro il paese
disintegrato dal terremoto di Pescara del Tronto mi aveva colpito. Poi una
serie di concomitanze hanno fatto si che con Enzo ci siamo incontrati e conosciuti;
forse, per certi imperscrutabili aspetti, riconosciuti. “Lui fuori dalla zona
rossa non ci viene – mi hanno detto – bisogna che vieni giù tu”. “Ma a me –
avevo ribattuto – dentro la zona rossa non mi ci fanno entrare”. Poi il
compromesso, ci incontriamo in una sorta di striscia interterritoriale, subito oltre il confine della zona rossa. Ci
conosciamo lì, proprio davanti la sua macchina rossa sfondata dalle macerie. Mi
sento ridicolo con il caschetto giallo modello pupazzetto Toys, non tanto
per ragioni estetiche; mi interrogo da cosa dovrebbe rendermi incolume quel
pezzo di plastica se ci fosse un pericolo vero e serio. Enzo mi racconta un po’
di sé, che vive lì da più di vent’anni, che il padre era di Pescara, ma che lui
è nato e vissuto a Roma, per poi scegliere di venire a vivere in quella casa
delle radici familiari. Enzo non se ne andrà da Pescara, non lo ha fatto dalla
notte della catastrofe sismica, non lo farà in seguito. I primi giorni ha
dormito sopra una tettoia all’aperto, poi i ragazzi del GUS gli hanno portato
una tenda, e gli continuano a portare i pasti, perché lui da lì non esce, come
se uscendo dalla zona rossa temesse che trovano il modo di fregarlo e non farlo rientrare
più. Gli hanno offerto in dono una roulotte per l’arrivo della stagione fredda,
ma è stato detto ai benefattori che non è possibile procedere al dono, perché si
creerebbe un precedente. Enzo mi racconta che ha dato una mano fondamentale nelle
ore immediate alla tragedia, consentendo di tirare fuori in poche ore sia i
vivi che i morti; si, perché lui sapeva quali erano, tra tutte, le case abitate
quella notte, e chi c’era in ogni casa. Poi mi dice anche che lui sta lì non
per protesta, ma perché ha da fare delle proposte. E che ha un sacco di cose da
raccontare. Gli dico che mi interessa ascoltarlo e che torno; mi lascia il suo
numero di telefono. Chi è Enzo? Il suonato del paese, come è semplicistico
pensare, o la testimonianza di qualcos’altro di più profondo, significativo,
che ci mette di fronte a verità rimosse o sconosciute? Ogni terremoto, con il
suo carico di tragedia e di dolore, per molti, purtroppo, è l’occasione per
prendere atto di un fatto, o di fare una scoperta: che su per quelle montagne non ci
sono solo i turisti, gli escursionisti, i villeggianti estivi a cui è rimasta
la casa della nonna o dello zio; no, pensate, che su per quelle montagne, c’è
gente che ci vive sempre, che ci lavora, ci sono bambini che nascono, che vanno
a scuola e che diventano grandi. C’è gente che lì ha scelto di vivere e che,
incredibilmente, è felice di viverci per tutta la vita; e che neanche adesso
che il terremoto gli ha portato via tutto, se ne vuole andare. Strana la gente…
Nelle città si sta meglio, più sicuri, ci sono tutte le comodità; perché ricostruirgli
il paese spianato dal sisma, sarebbe tanto meglio per loro che lo Stato gli ricostruisse una nuova e
migliore vita in città… Però dal lavoro e dall’economia di quelle montagne, ci
piace riempirci borse della spesa e imbandirci tavole per la nostra
convivialità, anche per la nostra sempre più mirata ricerca di una maggior sana
alimentazione. Ma quella roba si fa lassù, in cima all’appennino, è lassù che
il lavoro di chi vive consente di ottenere beni non riproducibili e delocalizzabili.
E allora se facciamo l’amatriciana solidale, è un po’ una presa per il culo
farla con i prodotti comprati all’ipermercato; forse è più solidale se troviamo
il modo di comprare gli arrosticini che anche in questi giorni con la casa
crollata, ma con la macelleria più o meno stabile, continua a preparare e a
vendere l’allevatore-macellaio del paesello. Perché se gli arrosticini e gli
altri prodotti di un duro lavoro su quei monti, non glieli compra più nessuno, perché
il paese non c’è più e fra un po’, passata l’emergenza e sgomberate le tende,
non ci faranno spesa più neanche i vigili del fuoco, lui con l’amatriciana
solidale non ci fa un cazzo; tra qualche settimana, arrivato l’inverno, chiude
bottega. Enzo mi deve raccontare un sacco di cose; “devo parlarti – mi dice
salutandomi – della cava qui dietro il paese, del cemento che c’era qui, della fonte dell’acqua, e
ti devo dire delle proposte”. “Ok – gli dico – mi organizzo e tra qualche
giorno ritorno. E tu lo sai che ritorno. Vedi di farti trovare qui dentro, a
Pescara del Tronto”
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