venerdì 6 gennaio 2017

... TUTTE LE FESTE SI PORTA VIA.

Oramai è abbastanza chiaro qual'è la partita che si giocherà nei prossimi tempi sull'Appennino ferito dal terremoto. O meglio, è la ripresa di una partita antica, sospesa e ricominciata più volte negli anni. Il sisma recente ha semplicemente fischiato un nuovo calcio d'avvio. È la sfida tra chi pensa, progetta, lavora perché la montagna sia un luogo dove vivere, crescere e morire, e quanti anche loro pensano, progettano e lavorano perché la montagna diventi definitivamente un luogo spopolato, utile a perseguire interessi economici di pochi, anche opachi, lontano da qualsiasi controllo; tutt'al più un territorio per occasionali vetrine vacanziere e turistiche, in ambienti sterilizzati tipo parco avventura. Dopotutto perché stare a ricostruire tanti piccoli abitati urbani di poche centinaia di persone, che la furia della natura ha raso pressochè al suolo? Non ci sono solo i costi vivi della ricostruzione immediata, ma quelli, enormi, negli anni a venire: servizi alle persone, alle attività economiche, manutenzione del territorio e prevenzione del rischio geomorfologico ed idrogeologico, etc etc... Ma siamo matti? Tutto ciò per qualche migliaia di persone? Meglio accompagnare una loro riconversione del quotidiano da un'altra parte, dove c'è già tutto, e molto, in questi anni di crisi, di avanzo: case, infrastrutture, centri commerciali, etc. Si, ma il lavoro? E perché, in montagna prima del terremoto, c'era il lavoro? E quale? Le pecore, le mucche, un po' di artigianato, qualche trattoria, un po' di affittacamere? Roba da piccoli numeri, il lavoro è un'altra cosa...è le fabbriche, gli uffici, i grandi negozi... E nel corso degli anni, mentre la partita era temporaneamente sospesa, si sono anche cambiate alcune regole del gioco: una legge sui parchi nazionali che indebolisce il concetto di tutela, le fusioni dei piccoli comuni, le grandi infrastrutture stradali (come la Quadrilatero, tanto per fare un esempio) che tagliano fuori le piccole comunità e micro, ma vitali, attività economiche, le riorganizzazioni scolastiche, la razionalizzazione dei presidi sanitari, etc etc. La squadra della #strategiadellabbandono è molto forte, compatta, allenata, pratica schemi collaudati. L'altra formazione, quella "dei partigiani della pelle del mondo", è fatta di contadini, di pastori, di piccoli artigiani, di nuclei familiari che vivono di turismo sostenibile, qualche eccentrico personaggio che dice di essere un artista e 'mangia' con la cultura; una selezione spesso abituata all'individualità piuttosto che al collettivo, a difendersi anziché attaccare... che ha tutte le premesse per prendere un "cappotto" definitivo. Poi ci sono i tifosi sugli spalti, e quelli "tutti allenatori" per un giorno; quelli che hanno passato anni nei convegni sulla montagna e sulle politiche per le aree interne. Di quelli che 'tengono' con la squadra della #strategiadellabbandono non mi interessa molto, l'importante è riconoscerli, perché stanno annidati anche dove meno te lo aspetti. Per tutti noi che 'stiamo' con quelli dell'Appennino, e alcuni di noi sull'Appennino ci stiamo proprio a vivere, adesso che è passata pure l'Epifania, è ora di mettersi in braghe e calzettoni, e giocare assieme ai montanari che in questi ore resistono a - 12°, e agli altri "deportati" (come dicono loro) sulla costa e al lago, questa partita, dal finale non affatto pregiudicato. Perché "questa, è una storia che..." (per dirla alla Lucarelli) ha anche a che fare con la parola democrazia. 

lunedì 2 gennaio 2017

LE MUCCHE DI AGOSTINO

Alle 11 di mattina di una bella giornata limpida e soleggiata di fine 2016, il rilevatore termico della mia dacia sandero segna ancora 1 grado. Ad un certo punto, con la coda dell'occhio, vedo sopra il ciglio della strada un gruppo di mucche; non resisto... faccio inversione, torno indietro e svolto sulla strada laterale che sale e che, dopo trecento metri dal bivio, è chiusa e transennata. 

E già, di lì si saliva per una frazione di Castelsantangelo sul Nera che è completamente crollata, e anche la strada ad un certo punto è rovinata: tutto ora è zona rossa. Ma a me quei pochi metri di strada bastano per scendere dalla macchina, inerpicarmi sulla scarpata, e fare qualche foto alle mucche al pascolo sotto il sole. Quando ridiscendo verso la macchina, sotto la strada c'è un pick-up d'annata con dentro un uomo che mi osserva, un po’ tra l’insospettito e l’incuriosito.

Mi avvicino, lo saluto: 'buongiorno'.

'Che fai - mi chiede scrollando la sigaretta - le mandi ai giornali?’

'No - rispondo sorridendo - non sono un giornalista, è che mi piacciono le mucche, in particolare il muso; sono sue?'

'Si - mi conferma lui - ma qui le cose vanno male fratello, molto male'.

Io in piedi e lui seduto sul pickup col finestrino abbassato e la sigaretta ciondolante, iniziamo una imprevista ed improbabile chiacchierata. Lui, è uno degli otto abitanti che sono rimasti a Castelsantagelo sul Nera, ché sono quelli che c'hanno le bestie e non le possono, e non le hanno volute lasciare. Tutti gli altri sono stati portati "in villeggiatura" sulla costa, in attesa delle casette. Li ho visti, qualche settimana fa sulla costa, aggirarsi disorientati sulla corniche tra palme, panchine e “signorine” dell’Est”. Sguardi spaesati e occhi persi che ti stringono lo stomaco; né “gente di mare”, né “turisti per caso”; solo sfollati del terremoto sull’Appennino.
Anche la moglie e la figlia del proprietario delle mucche sono loro sulla costa. Lui sta da mesi in una roulotte, la sua, ci tiene mettere in chiaro subito. Di notte fa già molto freddo.

'In quattro mesi qui l'unica cosa che ci hanno portato sono i bagni chimici e li hanno messi in paese ai bordi della zona rossa. Devo fare un chilometro per pisciare - adesso è incazzato - e a 71 anni mi capita più di una volta la notte, lo capisci vero? Ti pare normale dopo mesi questa situazione? Qui se va avanti così non ci ritorna più nessuno, che vengono a fare? A cominciare da mia moglie e mia figlia. Diventeranno posti abbandonati. Vogliono che se vanno via tutti'

'Ma tu - gli chiedo - perché resti, solo per le mucche? Quante ne hai, fai latte, formaggio?'

'No, sono poche, quelle che vedi, ma mi servono per arrotondare la pensione, che ci campo con 700 € al mese?'

Ecco, non so proprio cosa rispondergli, è  deluso e arrabbiato, ma né con qualcuno in particolare, né con tutti. È arrabbiato e basta, secondo me ce l'ha con la #strategiadellabbandono, anche se non sa cosa sia, anche se ci combatte da 4 mesi.

Me la cavo con un imbarazzato 'capisco' e con un incoraggiamento semplicemente umano.
Ha il volto stanco, ma gli occhi sono fieri. Non mi ha più risposto sul perché stia lì, oltre che per le mucche. Ma non serve, basta guardarlo negli occhi per capirne il motivo.

Anche lui, per usare un'espressione di Paolo Pileri, nel bel libro "Cosa c'è sotto", è un 'partigiano della pelle del mondo'. Uno dei tanti, sconosciuti e sparsi sui paesi e sull'Appennino. Una moltitudine demograficamente non censibile; che, se il Nemico avesse volto e nome definiti, e loro la tenacia di ritrovarsi anziché rimanere sparpagliati e solitari, si potrebbe mettere insieme un nuovo esercito di Liberazione; Liberazione da tante cose di troppo, in eccesso e sbagliate.


Lui è Agostino, il padrone delle mucche. 

venerdì 30 dicembre 2016

FALCIONI DI GENGA: VICINO ALLE GROTTE E FUORI DAL CRATERE. (*)

Si conoscono le Grotte di Frasassi, ma non si associa quasi mai il Comune di Genga a questo miracolo della natura. Di fatti non è semplice, perché Genga non è un unico borgo abitato, ma ben 38 tra frazioni e località che circondano le Grotte di Frasassi; 1797 abitanti, censisce l’Istat nel 2016, sparsi in 73,16 kmq. La tradizione popolare separa in due il territorio comunale, definendo due nuove etnie di abitanti: i “caccetti” e i “prosaioli”; i primi quelli che stanno sopra la Gola di Frasassi in direzione Umbria, i secondi quelli che stanno sotto la Gola di Frasassi, verso la costa adriatica. A Genga si è lavorato nel Novecento per gli elettrodomestici dei Merloni, poi dal 1974 per tutte le attività logistiche, di accoglienza e di ricettività che ruotano attorno alle Grotte. A dare occupazione anche il Salumificio di Genga, che trasforma buoni prodotti norcini, e l’acqua minerale Frasassi di Togni, che da qualche tempo s’è lanciato anche nella produzione di buoni vini. Parecchi se ne sono anche andati lungo il Secolo, chi a Roma, chi a Terni alle acciaierie, chi in Belgio e in Francia. Nel territorio politica e istituzioni, da sempre derivati dei frigoriferi e delle lavatrici, hanno voluto far credere che il solo valore da perseguire fosse quello della saccoccia; quindi anche il magnifico paesaggio delle Gole della Rossa e di Frasassi è stato immolato alla dea pecunia, che ha fatto nel tempo adepti fedeli a destra, al centro e a sinistra: inquinamento industriale astutamente sotterrato e riversato in fiume, attività estrattive che hanno ridisegnato le sagome naturali dell’Appennino e, per finire, la Quadrilatero con il raddoppio della statale 76, che sta finendo di devastare la valle, per riproporre tragicamente un’idea di sviluppo sepolta per sempre dai tempi della crisi della Lehman Brothers. Il moralismo delle Istituzioni e della politica ha voluto fare dal 1997 di questo territorio un parco regionale; che è in realtà un finto parco, dove non ci sono limiti alle grandi opere, alle attività estrattive e alla caccia. Qui però, nonostante tutto, ci vengono da tutto il mondo per le Grotte, per le escursioni e ad arrampicare lungo le Gole; in alcuni punti non si può fare climbing perché, dicono le Istituzioni preposte, l’attività disturba l’Aquila Reale di Frasassi che nidifica; però, secondo le stesse preposte Istituzioni, il nido dell’Aquila Reale non viene messo in pericolo dall’esplosione a cielo aperto delle mine di cava a pochi metri. Genga è la terra del Papa, il 252° Vescovo di Roma, Leone XII nato qui nel 1760, che non fu in pontificato un esempio di virtù evangeliche e cristiane. Però a Leone della Genga qui ci tengono molto, oltre alla rituale toponomastica e ad un’orrenda fusione bronzea dono dei Rotary, gli hanno dedicato in anni recenti anche una mela autoctona che cresce qui per i monti, un presidio di biodiversità: la Mela del Papa. C’è stato, prima di Leone un altro Papa, non autoctono, il 246° Vescovo di Roma: Clemente XII, che ha avuto a che fare con questi territori; nel 1733 fece costruire la prima strada di collegamento tra il porto di Ancona e la Flaminia, dal capoluogo dorico a Fossato di Vico, la strada Clementina, oggi SS76, che fino a qualche decennio fa, prima delle gallerie, attraversava la Gola della Rossa risalendo tutto il corso dell’Esino. Dalla  vecchia Clementina ancor oggi, dentro la Gola della Rossa, partono sentieri escursionistici strepitosi; uno porta in una quarantina di minuti al millenario eremo di Grottafucile, fondato ed edificato da S. Silvestro e dai suoi monaci. Falcioni è una delle 38 frazioni del Comune di Genga, quella che sta lungo la Clementina, sopra la sponda destra dell’Esino. Siamo quaranta abitanti, bambini, adulti, vecchi, italiani, albanesi e francesi e, per buona parte dell’anno, due lussemburghesi con radici gengarine. Tutti hanno l’orto e c’è chi c’ha pure un pezzetto di bosco; ci sono cani, gatti, capre, oche e galline. C’abbiamo anche una chiesetta dentro una casa storica, dedicata a S. Giovanni Battista; solo che il parroco polacco della frazione confinante, figlio della Chiesa del Papa amico di Pinochet, si rifiuta di celebrarvi Messa alla festa del patrono il 24 giugno perché, dice, è un immobile privato; e qui la gente, specie i più anziani, sono tutti incazzati. Qui fino ai primi anni Novanta c’era una macelleria storica, in cui si facevano decine di chilometri per venirci a comprare il castrato. Qui il terremoto c’era arrivato pesantemente già nel 1997; poi alcuni hanno ricostruito bene, altri riempiendo qualche crepa e basta, altri se ne sono fregati perché era la casa dei nonni o della prozia e l’hanno lasciata così. Poi il terremoto è ritornato forte nei giorni scorsi e di danni ce ne sono stati molti, specialmente là dove erano prevalse superficialità, trascuratezza e abbandono. Domenica 30 ottobre alle 9 stavano già qui il sindaco, il vicesindaco, i carabinieri e i vigili urbani a sincerarsi di quello che era successo e ad ascoltare le persone. Quattro case inagibili con famiglie sfollate, quattro transennate e una puntellata; diverse parzialmente agibili. Anche la chiesetta ha buscato fortemente e l’hanno transennata. La strada provinciale della Gola di Frasassi, quella che porta alle Grotte, era già stata chiusa dopo le scosse di mercoledì 26, e rimarrà chiusa per molto, per verifiche, controlli, rimozione massi e detriti caduti dalle falesie. Dopo il terremoto siamo tutti un po’ diversi, alcuni che non si parlavano per qualche vecchia ruggine adesso si parlano; altri che si salutavano e basta si sono ritrovati a raccontarsi un po’ delle proprie vite. Alcuni anziani la sera vanno a dormire in una sorta di baita di legno sopra il fiume, poi la mattina tornano su e riprendono le proprie attività. Un’ultraottantenne continua a dormire in macchina, mentre il figlio e il nipote dormono dentro casa. La strada Clementina è stata la via di fuga dalle case, il punto di ritrovo provvisorio e di appello di dove fosse quello e quell’altro dopo le scosse. Adesso stiamo qui, un po’ più umani e assai impauriti. Eppure la mattina quando ti svegli ed esci di casa, e oltre quella casa puntellata scorgi il Monte Revellone con le sue creste, torna la meraviglia per questi posti, per questo paesello di persone e storie così diverse. Che curioso per me, figlio della città dell’Imperatore di Svevia, Federico II, aver scelto di venire a vivere nel territorio di due Papi… Però questo è l’approdo di un cammino, di scelte fatte, di idee perseguite, di cose da voler ancor fare. Qui c’è quello che Franco Arminio chiama “nuovo umanesimo delle montagne”. Qui ci sono battaglie da fare per i beni comuni, nuove pratiche di politica e democrazia da sperimentare. Qui c’è spazio ancora per far capire che non si vive più di soli scaldabagni e cappe e per la saccoccia, ma si possono sostenere storie ed esperienze, molte giovani, che disegnano uno stile di vita differente, più sobrio e più felice al contempo. Per affermare, usando le parole del paesologo Arminio “che il tempo della merce è finito, sta arrivando il tempo del sacro” Qui c’è quello che cercavo. Qui c’è quello di cui una civiltà, una Nazione, se è tale, non può fare a meno. E questo è assai differente dalla preoccupazione di essere dimenticati. Noi restiamo qui, a Falcioni, al km 38 della strada Clementina, dopo la Gola della Rossa e sopra il fiume. Qui, vicino alle Grotte di Frasassi e fuori dal cratere. 

* scritto il 6 novembre 2016 (*)

domenica 4 dicembre 2016

I BISCOTTI DEL MONASTERO

Le scorgo da in fondo la salita che già ci aspettano sul cortile. Oltre i vetri della finestra si scorge il Vettore con i primi schizzi di neve. “La terra – dice la Madre Badessa - è arrabbiata con noi”. “Ne avrebbe molte di ragioni – gli rispondo – considerato come la trattiamo”; mi sorride benevola, senza aggiungere nulla. Dentro la casa di campagna, in mezzo l’alta collina fermana, si sta bene, non fa freddo come fuori, l’accoglienza delle monache è molto calorosa e funziona meglio del riscaldamento.  Fino a qualche giorno fa, non c’era una strada percorribile in auto per arrivare lì; poi il Comune ha fatto aprire una sterrata carreggiabile su quello che era poco più di un sentiero. Loro non sono contente di stare lì, si sentono sacrificate, un po’ in cattività, lontane da quella che era la loro perenne dimora abituale. Loro, sono le monache benedettine di clausura di Amandola. Il Monastero di San Lorenzo, già provato fortemente dalla scossa del 24 agosto che aveva già reso scarsamente agibile parte dei locali, il 30 ottobre è parzialmente crollato, proprio mentre alcune stavano in chiesa. Loro, sempre le suore, avevano resistito nel rimanere al monastero fino a quella domenica mattina, ma poi sono state messe in salvo dai pompieri; per qualche giorno hanno dormito al palasport cittadino; poi sono state trasferite in quella che era una proprietà dell’Ordine, frutto di un lascito benemerito di qualche anima pia. Anche loro vogliono ripartire, anche loro hanno la tenacia e la fierezza dei marchigiani che vogliono rialzarsi in piedi e, soprattutto, non vogliono abbandonare i propri luoghi. Sono nove, quattro di origine nigeriana; quest’ultime hanno ancora negli occhi la paura e lo smarrimento di chi non sapesse fino a un paio di mesi fa cosa fosse, come fosse, un terremoto. Ma la Madre Badessa, vuoi per funzione, vuoi per carattere, sa fare squadra, le tiene tutte sul pezzo e coinvolte in questa nuova, provvisoria e poco riservata, dimensione della vita claustrale. Insistono perché si resti a pranzo da loro, ci tengono. In una stanzetta noi, con gli operai che stanno sistemando un po’ di cose intorno alla casa per rendere maggiormente funzionale il tutto; in un’altra stanza loro, le monache: sono sì sfollate, ma pur sempre di clausura e le regole vanno osservate. Poi dopo pranzo, la Madre Badessa le chiama tutte nella stanza degli ospiti, e le sorelle nigeriane arrivano con degli strumenti etnici a percussione, e succede l’imponderabile per noi, quasi come il terremoto per loro: si accomodano sulla panchetta e attaccano un canto religioso della loro terra; la lingua è incomprensibile, ma la Madre Badessa e le consorelle marchigiane, battono il tempo con le mani. Fuori dai vetri i Sibillini, l’Africa all’interno della casa, catapultati su un altopiano nigeriano; una sonorità che mi riporta lontano di parecchi anni e di qualche migliaio di chilometri, su una chiesa cristiana in cima alla falesia di Badiangara, in Mali. Ma siamo lì, invece, nel fermano, con delle monache sfollate, sui “monti azzurri”. Dentro quella casa, così lontana e avulsa da sistemi di quotidianità, poco raggiungibile, abitata provvisoriamente da nove donne così estranee al nostro concetto di vita e di tempo, così piena ancora di paura, ma al tempo stesso anche di speranza, ho avuto la sensazione di trovarmi per qualche ora nel cuore del mondo; Ali Farka Tourè, poeta e musicista maliano, ad un intervistatore occidentale, una volta disse: “Per alcune persone, quando dici Timbuctu, è come dire la fine del mondo, ma non è vero. Io sono di Timbuctu e posso dirvi che siamo nel cuore del mondo”. E il “cuore del mondo” non è tanto dove si è, ma come si è e con chi si è. E allora i “cuori” del mondo possono essere infiniti. La faglia, con lacerazione e dolore come ogni ferita, ha portato a giorno sull’Appennino tanti cuori del mondo; che non sono solo borghi e paeselli sperduti qua e là, ma vite, storie, volti umani e di bestie che ogni giorno rendevano vivo e pulsante, pur tra molti sacrifici, quel territorio. Ma che i più scoprono essere veramente abitato e vissuto tutti i giorni, solo quando ci sono grandi tragedie, anziché essere uno sfondo ritoccato e virtuale su Instagram. Ecco, se la ricostruzione avesse come orizzonte politico ed amministrativo il concetto di “cuore del mondo”, la strategia dell’abbandono dei luoghi e delle comunità, non avrebbe nessuna efficacia. Nel congedarci tutte le sorelle abbracciano mia moglie, sorella anche lei per qualche ora. Quando usciamo per ripartire, vengono tutte sul cortile a salutarci. Incrocio gli occhi di una sorella nigeriana, quella che è scappata via dalla chiesa con il tetto che gli rovinava dietro. Prima del canto aveva lo sguardo smarrito; adesso gli occhi sono luminosi, c’è di nuovo quella luce densa che vedi solo in Africa,  e ci sorride. Un sorriso che ci fa molto bene. Loro vogliono tornare a San Lorenzo, al Monastero, hanno da prendersi cura del roseto e dell’orto. Ma, soprattutto, lì in mezzo alla campagna, non possono più fare i loro buonissimi biscotti. 

venerdì 18 novembre 2016

LA STRATEGIA DELL'ABBANDONO

La strategia dell’abbandono risiede da sempre in molti paesi dell’Appennino. Sta lì, silente e dormiente per lungo tempo, un po’ come le faglie nella crosta terrestre. Poi, come il terremoto, all’improvviso ritorna a manifestarsi con tutta la sua forza, arruolando proseliti, capi ed esecutori. Il terremoto è il suo più grande complice. Nel tempo di quiete, la strategia dell’abbandono si alimenta di cattiva edilizia, saccheggio del paesaggio, mancata prevenzione geomorfologica, di patrimoni immobiliari lasciati all’incuria da eredi che neanche si ricordano di essere proprietari di una casa della bisnonna; ma si alimenta anche di amministratori locali che non hanno poteri di intervento efficaci e sanzionatori verso quanti lasciano depauperare un patrimonio immobiliare, fino al punto di renderlo pericoloso per tutti; si alimenta di politica locale sempliciotta, che pensa prima ai turisti che agli abitanti e, di conseguenza, non è consapevole del fatto che sull’Appennino i turisti ci sono se i paesi sono vivi, se chi ci abita è anche un animatore della vita del proprio borgo, se ci sono servizi, se le strutture ricettive sono sicure, se le due stanze che prendi in affitto per una settimana (e magari in nero) non ti si accartocciano sopra di notte se arriva il terremoto. Altrimenti perché venire qui, meglio il villaggio vacanze esotico o la nave crociera. Poi ci sono quelli che resistono alla strategia dell’abbandono. Sono quelli che sull’Appennino ci abitano, non perché condannati ad espiare qualche reato, ma perché hanno scelto consapevolmente di farlo, perché qui trovano le ragioni di una, seppur opposta al modello Briatore, idea di felicità. E allora ci sono bambini, ci sono vecchi, cani, pecore, maiali, mucche e galline; ci sono imprese che producono qualità esclusivamente per il fatto di essere lì, in quelle condizioni ambientali ed altimetriche. Ci sono ragazze e ragazzi che investono il proprio futuro qui, sull’Appennino, con competenze e conoscenze elevate. Tutto questo la strategia dell'abbandono vorrebbe delocalizzarlo, reinpiantandolo sulla costa o in qualche estesa pianura. E quando arriva il terremoto, la strada verso l'obiettivo, come si dice, è spianata. Perché la battaglia alla strategia dell’abbandono abbia successo c’è però bisogno di un nuovo civismo, di nuove pratiche democratiche e partecipative che promuovano, in chi ha scelto di vivere sull’Appennino, una diversa coscienza di attenzione e valorizzazione del territorio, capace di superare anche difetti, qualche cattiva abitudine incrostata, localismi e particolarismi di caseggiato, la saccoccia come fine ultimo ed esclusivo di ogni iniziativa ed attività. La sfida è riuscire a coltivare e far crescere una nuova idea di comunità e di appartenenza, che tenga conto dei valori dell’identità e delle radici, ma che sappia valorizzare anche quegli innesti che nel tempo si sono inseriti e che vogliono essere parte insieme a tanti. Una necessità di riorganizzazione culturale e procedurale. Una nuova “lunga marcia”, insomma. Sull’Appennino e per l’Appennino.



domenica 9 ottobre 2016

LA MANO NERA

Piove a Pescara del Tronto. E’ freddo, il primo vero freddo. “Cominciamo da quelle leggere – dice Enzo mentre rovista nello zainetto che ha salvato dal crollo di casa la notte del 24 agosto – poi passiamo alle altre. “ Leggere e pesanti  sono le cose che vuole raccontarmi. Alla fine passano più di due ore, accartocciati dentro il camper del GUS. Enzo partendo da sé, dalla sua vita a Pescara, è  un fiume in piena. Racconti, idee, proteste e proposte, che come l’acqua del fiume che passa, si mescolano, accavallano, confondono. Mi colpisce però un’espressione ricorrente che attraversa le storie di Enzo, quasi un’intercalare, con cui identifica ciò che in quel territorio è stato fatto da molti anni. “E’ successo – dice – per opera della “mano nera”. Non specifica cosa sia o chi sia, ma dopo un po’ lo capisco. Chi, o coloro, singoli e aggregati, che pur essendo figli di quella terra, ad un certo punto, per ambizione ed avidità personali, hanno sfruttato quel territorio, provocato danni e ferite non rimarginabili, in nome di un presunto benessere della popolazione, a cui peraltro si appartiene. La “mano nera” non ha una fisiognomica precisa, un’anagrafica codificabile, può essere la politica, l’imprenditoria, la chiesa, o commistioni opache di tutto questo. Quello o quelli che le strade, il cemento, le fabbriche, portano lavoro, sviluppo e crescita economica. Ma che sotto, appena oltre il cotico del suolo, lasciano inquinamento, depauperamento delle risorse naturali, lesioni all’assetto geomorfologico originario, malattie. Enzo poi è costretto a smettere di raccontare, perché io devo ripartire, ma ne avrebbe ancora per molto; “non preoccuparti che tanto torno per riprendere il discorso - gli dico salutandolo – mica abbiamo finito…”. Lui ritorna verso la sua tenda-casa, a presidiare il suo paese e le sue storie, quasi a vigilare da qualche altra “mano nera” che potrebbe riaffacciarsi da dietro quei cumoli di rovine e macerie, e riproporre nuove lusinghe su come riportare sviluppo e benessere dopo la tragedia ed il lutto del terremoto. Tornando e ripensando alle storie di Enzo, in fondo se si guarda, anziché semplicemente vedere, ogni paese, ogni città, ha la sua “mano nera”. La “mano nera” è figlia di un territorio, c’è nata e cresciuta e, in molte realtà, continua a viverci. Vuole bene alla propria realtà nativa, desidera sviluppo, lavoro, progresso per tutti i conterranei. Però, c’è un però. Per la “mano nera” la priorità resta comunque la propria saccoccia, i cazzi propri. E allora per la “mano nera” è normale che gli scarti industriali tossici della propria fabbrica li si sotterri sotto superfici su cui poi la gente è andata ad abitare o li si riversi nel fiume. Che volete? Grazie alla produzione industriale è stato dato lavoro a tutti, dai nonni ai nipoti. Per la “mano nera” le montagne non sono luoghi da tutelare e da promuovere per le attività naturalistiche e turistiche, ma oggetti da far saltare con le mine e da segare a fette, perché quella pietra lì è un gran business nell’industria chimica e farmaceutica, e poi ci si sbianca anche lo zucchero da barbabietola; perché indignarsi poi: quattro spicci di diritto di escavazione vanno al Comune, alla Provincia e alla Regione; e poi, ogni volta che c’è la campagna elettorale, s’è sempre data una mano (e una bustarella) a tutti, senza distinzioni ideologiche. Per la “mano nera” ci sta che ogni territorio vasto abbia il suo inceneritore, e va fatto proprio lì sopra, dove tanto il terreno è già stato inquinato da decenni da quell’impianto industriale chiuso, che così almeno all’impianto di termovalorizzazione (espressione elegante per definire l’inceneritore) si riassume pure qualche decina di licenziati senza alcuna speranza. “La mano nera” è quella che poi chiama direttamente il ministro di turno per far spostare la direttrice di un nuovo asse stradale. E’ più funzionale, meno costoso e meno impattante si dirà; ma no, è più costoso, si allunga il percorso, si inquina di più, però se passa dall’altra parte, là ci stanno i terreni di tizio e di caio (e qualcosina pure di sempronio). Le discariche, come sanno gli addetti ai lavori, hanno un tempo di vita predefinito; dopo un po’ vanno ad esaurimento e deve essere chiuso e risanato il sito. Ma la “mano nera” pensa che sia una cazzata: ci si fanno talmente tanti soldi, si da lavoro, si danno soldi ai Comuni che ci fanno nuovi giardinetti e piste ciclabili; sai che facciamo? Ne chiediamo la proroga temporale per la durata e pure l’ampliamento per metterci più rifiuti speciali, perché sono quelli che fanno l’affare, mica i quattro sacchetti di indifferenziato delle famigliole del posto… Ecco, e si potrebbe continuare a lungo, così come Enzo racconterebbe all’infinito le storie del suo paese che in una notte d’estate è scoppiato. Poi a valle incontro un gruppo di ragazzi che hanno deciso di scrivere su Facebook quello che succede ai loro paesi dopo il 24 agosto, ma anche quello che era la vita delle loro piccole comunità prima di quella notte. Anche loro non se ne vogliono andare e vogliono diventare adulti e vecchi lì. Hanno tutti meno di vent’anni e gli occhi luminosi anche in questi giorni di lutto, di separazione, sbandamento, di pioggia e freddo. La pagina Facebook si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the dust”. Sono loro il miglior antidoto nei confronti della “mano nera”; e come loro i tanti adolescenti sparsi nei paeselli che credono che lì, ancor più che in grandi città, si possa costruire felicità. Anche questi giovani sono quelli che Paolo Pileri, nel bel libro “Che cosa c’è sotto”, chiama “i partigiani del suolo”.

*il manifesto è affisso sotto un pilone del viadotto che passa sopra Pescara del Tronto

domenica 25 settembre 2016

ENZO ABITA QUI

La macchina rossa era di Enzo; sopra la macchina c’è, crollata, la casa di Enzo. Avevo letto di Enzo i giorni scorsi, la sua scelta di rimanere l’unico abitante dentro il paese disintegrato dal terremoto di Pescara del Tronto mi aveva colpito. Poi una serie di concomitanze hanno fatto si che con Enzo ci siamo incontrati e conosciuti; forse, per certi imperscrutabili  aspetti, riconosciuti. “Lui fuori dalla zona rossa non ci viene – mi hanno detto – bisogna che vieni giù tu”. “Ma a me – avevo ribattuto – dentro la zona rossa non mi ci fanno entrare”. Poi il compromesso, ci incontriamo in una sorta di striscia interterritoriale, subito oltre il confine della zona rossa. Ci conosciamo lì, proprio davanti la sua macchina rossa sfondata dalle macerie. Mi sento ridicolo con il caschetto giallo modello pupazzetto Toys, non tanto per ragioni estetiche; mi interrogo da cosa dovrebbe rendermi incolume quel pezzo di plastica se ci fosse un pericolo vero e serio. Enzo mi racconta un po’ di sé, che vive lì da più di vent’anni, che il padre era di Pescara, ma che lui è nato e vissuto a Roma, per poi scegliere di venire a vivere in quella casa delle radici familiari. Enzo non se ne andrà da Pescara, non lo ha fatto dalla notte della catastrofe sismica, non lo farà in seguito. I primi giorni ha dormito sopra una tettoia all’aperto, poi i ragazzi del GUS gli hanno portato una tenda, e gli continuano a portare i pasti, perché lui da lì non esce, come se uscendo dalla zona rossa temesse che trovano il modo di fregarlo e non farlo rientrare più. Gli hanno offerto in dono una roulotte per l’arrivo della stagione fredda, ma è stato detto ai benefattori che non è possibile procedere al dono, perché si creerebbe un precedente. Enzo mi racconta che ha dato una mano fondamentale nelle ore immediate alla tragedia, consentendo di tirare fuori in poche ore sia i vivi che i morti; si, perché lui sapeva quali erano, tra tutte, le case abitate quella notte, e chi c’era in ogni casa. Poi mi dice anche che lui sta lì non per protesta, ma perché ha da fare delle proposte. E che ha un sacco di cose da raccontare. Gli dico che mi interessa ascoltarlo e che torno; mi lascia il suo numero di telefono. Chi è Enzo? Il suonato del paese, come è semplicistico pensare, o la testimonianza di qualcos’altro di più profondo, significativo, che ci mette di fronte a verità rimosse o sconosciute? Ogni terremoto, con il suo carico di tragedia e di dolore, per molti, purtroppo, è l’occasione per prendere atto di un fatto, o di fare una scoperta: che su per quelle montagne non ci sono solo i turisti, gli escursionisti, i villeggianti estivi a cui è rimasta la casa della nonna o dello zio; no, pensate, che su per quelle montagne, c’è gente che ci vive sempre, che ci lavora, ci sono bambini che nascono, che vanno a scuola e che diventano grandi. C’è gente che lì ha scelto di vivere e che, incredibilmente, è felice di viverci per tutta la vita; e che neanche adesso che il terremoto gli ha portato via tutto, se ne vuole andare. Strana la gente… Nelle città si sta meglio, più sicuri, ci sono tutte le comodità; perché ricostruirgli il paese spianato dal sisma, sarebbe tanto meglio per loro  che lo Stato gli ricostruisse una nuova e migliore vita in città… Però dal lavoro e dall’economia di quelle montagne, ci piace riempirci borse della spesa e imbandirci tavole per la nostra convivialità, anche per la nostra sempre più mirata ricerca di una maggior sana alimentazione. Ma quella roba si fa lassù, in cima all’appennino, è lassù che il lavoro di chi vive consente di ottenere beni non riproducibili e delocalizzabili. E allora se facciamo l’amatriciana solidale, è un po’ una presa per il culo farla con i prodotti comprati all’ipermercato; forse è più solidale se troviamo il modo di comprare gli arrosticini che anche in questi giorni con la casa crollata, ma con la macelleria più o meno stabile, continua a preparare e a vendere l’allevatore-macellaio del paesello. Perché se gli arrosticini e gli altri prodotti di un duro lavoro su quei monti, non glieli compra più nessuno, perché il paese non c’è più e fra un po’, passata l’emergenza e sgomberate le tende, non ci faranno spesa più neanche i vigili del fuoco, lui con l’amatriciana solidale non ci fa un cazzo; tra qualche settimana, arrivato l’inverno, chiude bottega. Enzo mi deve raccontare un sacco di cose; “devo parlarti – mi dice salutandomi – della cava qui dietro il paese, del cemento che c’era qui, della fonte dell’acqua, e ti devo dire delle proposte”. “Ok – gli dico – mi organizzo e tra qualche giorno ritorno. E tu lo sai che ritorno. Vedi di farti trovare qui dentro, a Pescara del Tronto”