“…anni dopo al punto
partenza”. Non due come scrive Guccini in una sua canzone, ma venti. E’ tempo
di anniversario quest’anno per il Parco Naturale Regionale Gola della Rossa e
di Frasassi. Fu infatti il 2 settembre di vent’anni or sono che il Consiglio Regionale
delle Marche approvò la Legge istitutiva dell’area protetta. Un parto non
semplice, epilogo di un confronto politico e sociale complesso. Ricordo che in
quegli anni, vista dalla città di Federico II, ambientalista antesignano anche
lui, quella scelta mi pareva assai una forzatura e, per certi aspetti, poco
naturale. Era come se si volesse appiccicare un marchio dop, su un formaggio
prodotto con latte in polvere. Nel senso che la previsione di area protetta andava
a circoscrivere un territorio fortemente già compromesso dal punto di vista
ambientale: l’attraversava una rete ferroviaria, una strada statale, fortemente
antropizzato, con attività industriali e manifatturiere pesanti che vi
insistevano da decenni, con un’attività estrattiva che aveva già compromesso
l’originaria morfologia del paesaggio. Ma era quella la stagione del governo,
nazionale e locale, dell’Ulivo; e la legge del Parco non poté che risultare
alla fine il compromesso tra due anime di quella stagione politica: quella
“industrialista” e quella “ambientalista” (in questa categoria c’erano poi
ambientalisti rigorosi, ed altri un po’ meno), che alla fine produsse tutte le
contraddizioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti: nessuna riconversione
industriale verso un modello leggero, che oggi si definirebbe green economy (una certa riconversione
non green poi nell’ultimo decennio
l’ha prodotta la crisi…), le aree di cava, pur facenti parti del territorio
naturale del parco, furono perimetrale fuori dell’area protetta (attività a cui
il Comune di Serra S. Quirico ha rinnovato la concessione di escavazione fino
al 2050 con delibera di Consiglio n. 57 del 2008), il mantenimento di alcune
aree tutt’oggi interessate dall’attività venatoria, deroga a qualsiasi opera
infrastrutturale che avesse avuto interesse e rilevanza nazionale (di qui lo
scempio del paesaggio in corso in questi anni con il raddoppio della ss 76 per
opera della Quadrilatero). E, non secondarie, la mancanza di un reale processo
partecipativo con le comunità che abitavano nel parco, una serie di mediazione
al ribasso con chi viveva di agricoltura e zootecnia in questo territorio, e
che rappresenta il primo custode del territorio. Furono anni di scontri accesi,
l’aneddotica narra addirittura di una riunione di promotori e sostenitori del
parco, riparatisi dentro una chiesa di Serra S. Quirico, circondata da cavatori
e cacciatori imbelviti e liberati dai Carabinieri… Negli anni si è fatto molto
poi per la promozione del parco (convegni e pubblicazioni sono stati
abbondanti…), dei suoi obiettivi, e buono è stato ed è il lavoro didattico e
formativo con le scuole. E’ cresciuta una frequentazione turistica, al di là
del tradizionale afflusso alle grotte di Frasassi, sono nate piccole imprese
che sul valore paesaggistico e naturalistico del Parco, promuovono le proprie
attività. Allora è stata una scelta giusta, si darà, alla fine? Certo, però
basta girarci un po’ dentro il parco, al di là dei sentieri più battuti, per
constatare che ancora la strada da fare molta. Chi ci vive, come chi ci pratica
un’attività agricola, fa tutt’oggi fatica e vedere il bicchiere tutto pieno. Il
fenomeno dello spopolamento dei borghi e delle piccole comunità rappresenta un
dato demografico allarmante, il patrimonio artistico ed architettonico non è
stato per niente curato, basti pensare alle condizioni in cui si trova il
millenario Eremo di Grotta Fucile, fondato da San Silvestro, la situazione di
degrado che negli anni si è prodotta al lago Fossi a Genga, ai bordi dei
sentieri oltre asparagi e funghi, è altrettanto comune trovare elettrodomestici
e altri rifiuti abbandonati; tante tabelle, insegne, molte logore ed
arrugginite oggi. La vera funzione di manutenzione e di guardiaparco, la
svolgono alla fine più i volenterosi abitanti delle piccole comunità, che chi
di dovere. Il limite di tutto questo, che produce il bicchiere mezzo pieno di
oggi, è stata la governance del
Parco. Non si diede allora vita ad un
Ente autonomo, ma si affidò subito la gestione del parco alla politica locale e
territoriale, la quale, chiaramente, esercitò la propria funzione con tutti i
vizi compromissori della stessa, in cui spesso il parco è risultato essere un’istituzione
di compensazione ed aggiustamento dei risultati elettorali, di bicchiere di
cristallo tra gli elefantiaci scontri dei campanilismi locali della politica.
Che ha visto, negli anni, avvicendarsi classi dirigenti consumate e più
propense a cedere alle spinte corporativistiche di turno, che intente a far
radicare nelle comunità una nuova cultura ambientalista, capace di costruire
dal basso una riconversione economica e sociale di un territorio. Giace da
qualche tempo nell’Assemblea Legislativa delle Marche (oggi si chiama così),
una proposta di legge che mira ad allargare i confini del Parco, estendendoli.
Credo che non sia questo il necessario, ed il tema. Ma, al contrario, ciò che è
urgente è una riforma vera della Legge di vent’anni fa, che con rigore renda coerenti, tra norma e prassi, le finalità di
un’area protetta. Che ad esempio dica basta subito con l’attività estrattiva in
questo territorio, altrimenti nel 2050 non ci saranno più alcune montagne; che
investa risorse vere e controllate per la prevenzione e la salvaguardia del
territorio; che sottragga la governance
del parco alla schermaglia della politica locale; che pretenda dalla
Quadrilatero, alla fine dei lavori del raddoppio della statale 76, opere di
riforestazione e rimboschimento coerenti con il patrimonio vegetativo del
territorio (anziché aree semidesertiche come sulla ss 77); che l’attività venatoria
venga bandita definitivamente dal territorio del parco senza più zone franche;
che l’azione di contenimento della proliferazione dei cinghiali venga sottratta
ai cacciatori e ai fucili, e si
sperimentino sistemi farmacologici come avviene in gran parte d’Europa; che chi
in decenni ha tratto profitto smisurato dall’attività estrattiva, riversi parte
degli utili in opere di salvaguardia, compensazione e ripristino del territorio
violato; che i Comuni interessati dal parco facciano una nuova politica
abitativa tesa esclusivamente al recupero del patrimonio immobiliare privato,
con incentivi fiscali e tributari, con servizi reali alle persone e alle
famiglie che vivono sul territorio, e che da anni continuano a sentirsi
cittadini di serie B; che si favoriscano la creazione di piccole imprese
giovanili e non, nel settore turistico, agroalimentare, sportivo. Ma per far
tutto questo, serve per prima una diversa classe dirigente politica, quella
attuale non ce la può fare; non nuova tanto anagraficamente, ma con una diversa
cultura amministrativa, e neanche necessariamente autoctona, ma che veda
impegnati anche quelli che in questo territorio, pur non essendoci nati, hanno
scelto di viverci. Capace di tenere testa alle tante tirate di giacca,
rigorosa, forte proprio di un’autonomia che deriva dal non essersi logorata nel
territorio e in baruffe sedimentate in anni addietro. Serve una ripartenza
insomma, per non logorare del tutto, senza rimedio, una buona scelta che, pur
con tutte le contraddizioni ed i limiti, si fece vent’anni fa. E che andrebbe
rifatta.
sabato 15 aprile 2017
GLI ARTEFICI DEL DISASTRO
L’incipit di questa storia, potrebbe essere “Cedi la strada agli
alberi”, titolo del libro di Franco Arminio. Michele, fabrianese acquisito, che
come dice un noto talk televisivo “si guadagna da vivere come” gestore dell’accoglienza in un bellissimo
monastero del territorio, me l’aveva detto: “vacci a vedere di giorno che
scempio al paesaggio stanno facendo da quelle parti”. Ci passo di giorno, sulla
strada delle Serre, e vedo l’avvio della perimetrazione delle aree di cantiere,
con le ruspe già in azione, ed immagino quello che questo comporterà per il
paesaggio. E’ il cantiere della pedemontana Fabriano-Muccia del progetto
Quadrilatero, quello partorito oltre 10 anni fa, che prevedeva di realizzare il
raddoppio delle ss 77 e 76, e di modernizzando i collegamenti tra Marche e
Tirreno. La storia di questa vicenda è molto complessa, ma la racconta bene in
ogni suo aspetto Loredana Lipperini, nel libro “Quel trenino a molla che si
chiama il cuore”. Dietro quel progetto, c’era l’idea della politica e di una
classe dirigente, trasversale per appartenenze culturali e per livelli di
governo, che la risposta più efficace ad un sistema economico che stava crollando,
potesse essere che “il fare strade moderne”, urbanizzando ed edificando le aree
contigue, avrebbe rimesso in moto le imprese e le lobby degli appalti, rilanciando
un modello economico in crisi. “Dopo che saranno fatte le strade – mi disse uno
anni fa - si arriverà dall’Umbria all’Adriatico un quarto d’ora prima.” “E poi
– gli risposi – quando sei arrivato quindici minuti prima – che t’è cambiato?” Devastato
già il paesaggio della Val di Chienti e dell’Alta Valle dell’Esino, per
arrivare da qualche parte un quarto d’ora prima, adesso toccherà al bellissimo
paesaggio collinare e pedemontano che da Fabriano si protende fino alle pendici
dei Sibillini a Muccia: le colline del Verdicchio di Matelica e di altre
tipicità su cui, mentre le ruspe cancellano suolo agricolo, si continua a scommettere
un nuovo futuro per l’economia territoriale e turistica. Quarantadue km, 5
ponti e viadotti, una galleria da 900 m (un metro costruito in galleria fa
guadagnare tre volte rispetto ad un metro a giorno). Non si è poi portati a
pensare, che una strada così produrrà un danno indotto ad una microeconomia ed
imprenditorialità che sono radicate nei borghi e nelle cittadine che stanno tra
Fabriano e Muccia. Già molti dei piccoli produttori che vendevano patate rosse
ed altri prodotti sull’altopiano di Colfiorito, adesso sono costretti a
scendere sulle provinciali a valle, perché con la nuova 77, lassù non ci passa
più nessuno. Pensiamo ad esempio ai bar, piccoli esercizi commerciali, e tante
piccole attività artigianali che guadagnavano dall’automobilista che passava
dentro i borghi tra Fabriano e Muccia; a strada nuova il loro fatturato si
vedrà significativamente ridotto. Al posto del prodotto tipico acquistabile
fermandosi lungo la provinciale, nella stazione di servizio che verrà
realizzata lungo la superstrada si troveranno poi la maxiconfezione di barrette
Kinder e l’orsacchiotto di peluche fatto dai bambini asiatici schiavizzati. Per
non parlare dei danni irreversibili al paesaggio e all’agricoltura, con il consumo
di suolo per realizzare strada e infrastrutture necessarie annesse. Ma i vignaioli del territorio lo sanno? Perché
non si mobilitano come stanno facendo in questi giorni gli olivicoltori
salentini contro il passaggio di un gasdotto? O qui interessa solo che il
furgoncino impieghi una manciata di minuti in meno per un trasporto? Ad un
territorio già interessato da anni da un consistente fenomeno di spopolamento, e
ora interessato da una vera e propria “strategia dell’abbandono” post terremoto,
la nuova strada darà il colpo di grazia. Mi colpisce, ma fino ad un certo punto
poi, che tutto questo avvenga senza che chi ha una qualsivoglia responsabilità
politica od istituzionale, non dico si incateni lungo il cantiere (non sono più
i tempi, e poi in molti sono corresponsabili dei fatti), ma almeno si faccia
attraversare dal beneficio del dubbio. E invece no, tutti a suonar le trombe del
“W la nuova strada!”. L’unico soggetto politico, il solo che rende dignità alla
parola “politica” nel comprensorio fabrianese, e che si è espresso contro la
Quadrilatero e questi progetti, è il Laboratorio Sociale Fabbri; ma si sa,
quelli sono pericolosi estremisti… Questa strada non servirà a niente, non
porterà nessun progresso e crescita, consumerà in maniera irrimediabile suolo e
paesaggio a forte vocazione agricola di qualità, non ha nulla di strategico. E’
sicuramente più strategico, per la valorizzazione del territorio e per una
nuova idea di essere comunità, il progetto di Paolo Piacentini, fabrianese
acquisito anche lui: l’”Università del Camminare”. Perché quella non è solo
un’idea per il tempo libero o hobbystica, o sentimentale (chi la pensa così
sbaglia, una passeggiata non purifica il cervello…), ma è una proposta di come
possa ridestarsi uno spirito civico che nel tempo è stato centrifugato e
aspirato dal mito industriale, e di come sia indispensabile prendersi cura del
suolo e del territorio. E questo ce lo ricorda non un ambientalista estremista,
ma un urbanista del Politecnico di Milano, Paolo Pileri, nel libro “Che cosa
c’è sotto”, in cui invita a diventare “partigiani della pelle del mondo”. Capita
spesso di trovare sui social un leit
motiv, che è quello di additare chiunque si contrapponga al perpetuarsi di modello
economico novecentesco (travolto peraltro dalla crisi), come i promotori di una
cosiddetta “decrescita infelice”; scimmiottando in maniera assai molto
ignorante, una teoria e una prassi dell’economista francese Serge Latouche: la
“decrescita felice”. Pensando malevolmente che si voglia perseguire una sorta
di cialtronesco ritorno al “poveri ma belli”. Mentre il tema vero, in generale
e di questo territorio, in cui tra
disoccupazione ed inoccupazione, si registrano cifre vicine ai quattro zeri, e
che pone non ultimo Papa Francesco, è quello della sobrietà. Ma quest’ultimo è
un valore e uno stile di vita che, come li avrebbe classificati il grande poeta
colombiano Álvaro Mutis, “gli artefici del disastro” di questo territorio, non sanno
ancora cosa possa significare, avvezzi ancora a praticare l’arroganza dei
ricchi.
venerdì 10 marzo 2017
YES WE CAN
Sarebbe stato
magnifico arrivarci che fosse ancora giorno in questa osteria sul lago, da cui
si scorgono i Sibillini, anche se la fase di luna piena ci lascia intravedere
le cime imbiancate delle creste che spezzano il buio. Ma tant’è, come da
tradizione, certe riunioni si fanno di notte… Arrivano alla spicciolata, un
sacco di gente, più del previsto, dicono i promotori. Nell’afflusso arriva un
gruppetto, una decina circa, di persone palesemente straniere; strano, turisti
da queste parti, d’inverno e col terremoto. “Sono venuti pure gli inglesi!”
dice un organizzatore dell’incontro; quindi non sono turisti, concludo, ma
partecipanti all’incontro. Gli “inglesi” sono i proprietari di case-vacanza
acquistate in questo territorio, e che se le sono ritrovate lesionate o crollate
con il terremoto; sono venuti per capire, per informarsi, per chiedere. Sono un
po’ buffi, sembrano i protagonisti compassati di quei format televisivi tipo “vado
a vivere in campagna” o simili. Si siedono in cerchio insieme a tutti gli
altri, dopo aver preso al bancone della locanda, la tradizionale birretta, come
se fossero al pub, solo che qui hanno esclusivamente Menabrea o Moretti. E’
osservandoli, così composti, integrati ed estranei al tempo stesso, che per una
semplice ed illogica rimuginazione anglofona, mi viene in mente lo “yes we can”
di anni fa… La riunione è quella di Terreinmoto Marche, “una rete di realtà sociali, associazioni e semplici
cittadini che vogliono intervenire sul terremoto a livello informativo,
comunicativo e sociale”, come si definiscono sulla pagina facebook. E alla
riunione ci sono tante realtà democratiche di base, persone che col terremoto
hanno perso tutto, allevatori, chi resiste in roulotte e chi è sfollato sulla
costa. Con un comune obiettivo: non disperdere quel senso di comunità che ha
sempre contraddistinto questo territorio, e rendersi parte attiva, direttamente
coinvolta, e contraddittoria se occorre, nel processo di ripartenza e
ricostruzione dopo la catastrofe del terremoto; portare a chilometro zero
quella che è oggi la distanza siderale tra livelli decisori e popolazioni, nei
processi e nelle scelte da compiere. Uno scopo gigantesco, considerata la
situazione del territorio, già attraversato con forza dalla
#strategiadellabbandono, ed i tempi e modi della politica, in giorni in cui si
ripropone nuovamente una spompata visione leaderistica, che alla fine però sa
tanto di concordato preventivo. Lo spirito che attraversa il salone della locanda
è diverso dalla semplice solidarietà e beneficienza. Lo straordinario e
generoso moto, che il dramma del terremoto ha attivato in opere ed azioni
filantropiche, e di cui c’è ancora enormemente bisogno, si esaurisce al, seppur
prezioso, gesto di filantropia diretta: la donazione, la raccolta fondi, l’aiuto
al singolo o alla comunità. Qui c’è qualcosa d’altro, che va oltre: c’è il
sentimento della solidarietà che diventa fatto politico, che attiva pratiche di
partecipazione e democrazia, e che muove dalla storia, dalle problematiche non
solo urgenti e recenti, di un territorio, e dei diritti chi ci vive, per
nascita o per scelta; questa realtà si chiama montagna, con la sua peculiarità
e specificità. Ad un certo punto entra in sala, ad incontro iniziato, Paolo. Ci
riconosciamo subito, sorpresi ma fino ad un certo punto; un abbraccio forte,
senza parole. L’ultima volta che siamo stati assieme è quando abbiamo dormito per
più notti sui banchi del laboratorio di Scienze della Terra all’Università di
Perugia, durante la Pantera, più di venticinque anni fa. Lui vive da queste
parti in montagna; ci bisbigliamo un po’ di cose, quello che facciamo, dove e
come viviamo, senza avere la pretesa di raccontarci nel dettaglio quello che è
successo a ciascuno per un quarto di secolo, dopo che si scappava insieme da
qualche manganello della Celere che sgomberava il Rettorato. Per questo ci
prenderemo adesso il giusto tempo. Mi ha colpito una cosa che mi ha detto, ad
un certo punto, ascoltandomi; “allora sei come noi”. Ecco, questa frase è un
segno distintivo, che appartiene ad una comunità sparsa ma al tempo stesso
attraversata da una forte fraternità, quella della montagna. Chi vive in città,
in pianura o sulla costa, pur sentendosi sinceramente solidale ed anche
generoso con i territori segnati dal terremoto, una roba così non riesce a
percepirla, perché te il terremoto non ce l’hai avuto dentro, perché qui non ci
vivi e la notte non ci devi tornare a dormire. E di conseguenza per te la
solidarietà esaurisce il tuo bisogno di renderti utile; ma per il popolo dell’Appennino
è fisiologico che quello che vive a seguito di una condizione di straordinaria
destabilizzazione, diventi ad un certo punto pratica civile e politica; perché c’è
in gioco il tuo presente e il tuo domani, e sai bene che non ti puoi fidare di delegarne gli esiti e le strategie a qualcun altro che sostiene di rappresentarti. Per questo Terreinmoto Marche è un’originale
e nuova pratica di democrazia, che mette insieme senza gerarchie e
appartenenze, la vita delle persone e di un territorio, per quello che sono,
ancor prima di quello che potrebbero rappresentare. Da questa locanda di
montagna in riva ad un lago, comprendi che qui il “si, possiamo farcela” è
autentico, vero, senza filtri e opacità. Perché è un obiettivo condiviso di
tanti e diversi, non il desiderata di
uno per tutti.
giovedì 23 febbraio 2017
RICOSTRUTTORI DI COMUNITÀ
“L'altezza mi mette paura, e il sangue e i terremoti; per il resto non temo nulla, tranne la morte, il pensiero di mettermi a urlare in mezzo alla folla, l’appendicite, e un attacco di cuore, già, anche questo; così me ne sto seduto nella mia stanza con l’orologio in mano e un dito premuto sulla giugulare, a contare i battiti ascoltando i misteriosi borbottii del mio stomaco. Per il resto, niente mi turba.” (Ask the dust, John Fante)
“Ask
the dust/Chiedi alla polvere” è la loro pagina facebook. Loro, sono un gruppo
di ragazze e ragazzi di Arquata del Tronto e dintorni, tutti con meno di
vent’anni. Quando li incontri hanno gli occhi luminosi anche se, in circa due
minuti, nella notte del 24 agosto, la polvere delle macerie ha ricoperto la
quotidianità. Sono stati i primi e sono i più giovani (e per questo saranno gli
unici che cito per non dimenticare qualcuno tra tanti), a sentire il bisogno,
di fronte ad una catastrofe come quella che da 6 mesi interessa l’Appennino di
quattro Regioni, di raccontare, di raccontarsi, di fare comunità ancora in
senso fisico e sulla rete, di mettersi a disposizione. Decine di comitati,
associazioni, incontri, iniziative, assemblee; tutto rafforzato ed amplificato
dai social, ma trascurato dai media tradizionali. E’ un fenomeno nuovo, il solo
positivo chiaramente, quello generato dalla forza della natura, ma che coinvolge
le persone e la società civile in maniera per certi versi imprevedibile. E che
non va confuso con lo straordinario manifestarsi di gesti di solidarietà e
filantropia che in questi mesi si stanno riversando sull’Appennino ferito dal
terremoto. Quello di cui parliamo è un fenomeno autoctono, radicato nei
territori. La gestione del post terremoto ad oggi è a dir poco complicata e
difficoltosa, e su questo qui mi fermo. Ma ci sono dati di fatto: intere
comunità “deportate” (come si definiscono loro) in alberghi e residence sulla
costa, che vedono allungarsi lì la propria permanenza; paesi e frazioni oramai
già prossimi al processo di fossilizzazione; persone che, nonostante tutto (e
tutti) resistono a vivere precariamente sull’Appennino con i loro animali e le
loro attività economiche, che sono la peculiarità non delocalizzabile di questi
territori. A questa situazione, che in parte è figlia del caso, ed in parte è
il prodotto perseguito di una vera e propria “Strategia dell’Abbandono”
(#strategiadellabbandono su facebook), in questi mesi si sta contrapponendo un
impensabile risveglio di civismo, di senso di comunità, di partecipazione
democratica, che attraversa l’Appennino colpito dal sisma. L’espressione più
evidente la troviamo sui social e sulla rete, ma questa è sempre la conseguenza
anche di una pratica fisica di persone, associazioni, movimenti, gruppi
impegnati in settori diversi della società, che si incontrano, discutono,
propongono, con una solo obiettivo: quello di non far spegnere i riflettori sul
terremoto e su quello che sta accadendo (o meglio su quello che non sta
accadendo) a loro e in quei luoghi. I limiti dell’intervento pubblico sono
parzialmente attutiti da questa società civile (che in diversi casi diventa per
fortuna anche sostitutiva), parte integrante della quotidianità delle montagne
che si autorganizza, mobilita, si informa e promuove, diventa soggetto attivo
interlocutore con le Istituzioni. Tutto questo trova narrazione sui social, in
un modo che è tutto fuorché nostalgico e retorico (la nostalgia del paesello o
la meraviglia di fronte al paesaggio), ma al contrario è progetto,
dimostrazione che la montagna significa casa, lavoro, servizi, economia, e che
l’obiettivo è quello di proseguire a far essere questo territorio ciò che storicamente
è sempre stato: un luogo di vita, la casa del Popolo dell’Appennino. Gli
archivi storici narrano che a Castelsantangelo sul Nera, dopo il rovinoso sisma
della Valnerina del 1703 (oltre 10.000 morti), gli abitanti sopravvissuti non
scapparono o migrarono lungo la costa, costretti dalle Autorità del tempo, ma
si misero subito a tagliar legna nei boschi per costruirsi delle casette
provvisorie in attesa di rimettere in piedi quelle in pietra e muratura. E
invece, la “strategia dell’abbandono”, ha tutto l’interesse perché l’Appennino,
complice una volta il terremoto, o altre calamità naturali, si spopoli e le
persone si distribuiscano altrove. Perché dare i servizi alle persone in
montagna costa di più, tocca spendere risorse per la salvaguardia e prevenzione
dell’assetto geomorfologico; e poi quando ci sarà da realizzare il nuovo
gasdotto Rete Adriatica (ed anche l’inceneritore a Castelraimondo) la gente
protesterà, i Sindaci si mobiliteranno, nasceranno comitati, con il rischio di
rallentamenti, pause, interruzioni (un po’ come per l’oleodotto nei territori
Sioux che ha fatto fare marcia indietro ad Obama e la farà fare alla fine anche
a Trump). Meglio l’Appennino spopolato, per farci affari ad alto e losco
impatto ambientale, tutt’al più con qualche villaggio vacanza; già molti
servizi essenziali sono stati concentrati da tempo sulla costa e in pianura, e
poi da quelle parti c’è tutta quell’edilizia residenziale e commerciale
invenduta che è rimasta “sul gozzo” ai costruttori e palazzinari, e pure a
qualche banca; se la gente la spostiamo suo malgrado lì, si rimette in circolo
pure quell’economia fallimentare… Invece tutto il variegato civismo che si è
generato a seguito del terremoto ribadisce il contrario: che l’Appennino è un
valore e la vita su quel territorio è strategico per il futuro dell’intero
Paese. Va colto come una spinta democratica, pur nella sua frammentarietà,
finché non troverà un suo filo di continuità e di unità. Rappresenta, nella sua
genuinità, un rilevante fatto politico. Dopotutto sull’Appennino italiano
vivono oltre 20 milioni di persone. Circa la metà dell’elettorato passivo ed
attivo del Paese. E’ prossimo forse il tempo che il Popolo dell’Appennino,
stanco di essere più o meno degnamente rappresentato da terzi, si farà
rappresentanza diretta, con nuove ed originali pratiche di democrazia
partecipata dal basso? Anche questa, è una domanda da rivolgere alla polvere;
non a quella americana dell’Est e del Middle West di John Fante, “da cui non cresce
nulla”, ma a quella che il vento sposta dalle macerie dei paesi terremotati
dell’Appennino; da cui è probabile ed auspicabile che possa crescere una nuova
idea di comunità e di democrazia.
martedì 7 febbraio 2017
LONTANO DAGLI OCCHI LONTANO DAL CUORE
L'apertura della 67° edizione del Festival di Sanremo, coincide per
me con la casuale lettura di un commento di un post su facebook di una signora (che
poi mi accorgo essere una compaesana), in cui l'autrice, rispettabilmente,
sosteneva che del terremoto bisogna parlarne il meno possibile, perché risulterebbe
essere deleterio per il turismo, causando ciò ripercussioni alla capacità di
attrazione di questa parte del territorio appenninico. Sono convinto al
contrario che mettere quello che è accaduto e sta accadendo sotto il tappeto,
anche questo rientra nella #strategiadellabbandono, nel caso specifico quella
“de noantri”. Come se eludere il fatto che ci siano stati anche qui sfollati e
persone assistite in hotel (vabbè, però alcuni sono albanesi…), prime e seconde
case inagibili, una strada indispensabile alla quotidianità, ancor prima che al
turismo, chiusa per più di tre mesi, la tentazione per diversi, anche i più
giovani, di andarsene, attività economiche che risentiranno pesantemente della
situazione, possa salvaguardare a prescindere la quotidianità e le potenzialità
economiche di questa zona, a spiccata vocazione turistica. Si fa così anche uno
sgarbo agli amministratori locali che con sensibilità si sono prodigati, per
quello che hanno potuto, per l'assistenza e per un ripristino della normalità
in tempi ragionevoli, considerato che l'hanno fatto con mezzi propri, visto che
questo Comune non fa parte del cratere (e qui, diciamocelo, diversi hanno fatto
un tifo operoso perché Genga non rientrasse nel cratere); e farne parte,
avrebbe significato per chi qui vive e lavora, per chi ha una attività
economica, oltre che per il patrimonio immobiliare, una serie di sostegni che
avrebbero compensato le comprensibili difficoltà di mesi che verranno. E lo
sostengo, forte del fatto che l’essere nel cratere, per me non avrebbe
comportato alcuna differenza (ho casa per fortuna sana, non ho qui la
residenza, non ho attività economiche in loco, non dipendo da aziende locali).
E invece, da un mio acquisito compaesano, che poi il 30 ottobre mattina magari
è pure venuto in macchina “a vedere che era successo qui a Falcioni”, e
c'ha visto sbiancati in volto e impauriti, mi sarebbe piaciuto leggere un
commento di questo tipo: "si, il terremoto qui c'è stato, eccome se c'è
stato, parliamone tutti assieme, facciamo una grande assemblea pubblica, dentro
quella palestra che il sindaco per la notte del 30 ottobre ha fatto aprire e
riscaldare per quanti avevano paura a dormire a casa; ragioniamo assieme su
come desiderano vivere qui poco più di 1700 persone sparse in 37 frazioni, su come
far nascere e crescere i propri figli, lavorare, prenderci cura degli anziani,
valorizzare le straordinarie peculiarità di questo paesaggio in maniera
rispettosa, e senza essere più ossequianti, tra l'altro di serie B, del padrone
quasi secolare, che c'avrà anche riempito il piatto, ma svuotato da ogni
passione civile. Facciamo sfogare quelli che hanno avuto e hanno paura, quelli
che c'hanno avuto danni, quelli che sono incazzati col mondo; ascoltiamo quelli
che vogliono vivere qui e quelli che vogliono realizzare qualcosa di diverso da
quello che s’è sempre fatto, chiamiamo i nipoti e i pronipoti che hanno le
seconde case ereditate da nonni e prozii e che ci vengono alle feste comandate,
e chiediamogli di impegnarsi davvero perché i loro patrimoni non diventino in
poco tempo rovine abbandonate". Questo era il commento che serviva in quel
post. Proviamo a costruire, insomma,
un'inedita e inusuale pratica di democrazia e di politica, una nuova idea di
comunità, senza casacche, senza livori di paese, senza pensare che "prima
i fatti miei, poi...", ma che invece "se penso per primo all’interesse
generale, alla fine mi riescono meglio anche i fatti miei". Sull'Appennino
ferito dal terremoto si può e si deve ricostruire non solo case, scuole,
chiese, ma anche una migliore idea di democrazia e di comunità. Se non si
accetta questa sfida, che certo è impervia, il fallimento è certo. Rimarranno
le rovine, materiali e immateriali, prevarrà lo spopolamento, la
fossilizzazione macilenta dei borghi, l'inselvatichimento del paesaggio, la
trasformazione delle peculiarità naturalistiche ed architettoniche in uno
sterililizzato e insapore parco divertimenti, attraversato in maniera indolore
e senza alcun contrasto dal realizzando mega oleodotto Snam, che attraverserà
continuativamente a soli 5 m di profondità il territorio appenninico di Abruzzo
e Marche, proprio lungo dove si sono risvegliate le faglie. Al contrario, più
che il silenzio e l’omissione sul terremoto, il potenziale turistico lo
salvaguarda e lo rilancia un territorio vissuto, abitato, in cui la più
incisiva operazione di marketing la fanno quelli che vivono qui, le persone, i
bambini, i vecchi, gli adulti; non sostituibili da nessun infopoint o agenzia
di accoglienza, o socialtour. Chi vuole venire qui non consulta la carta
sismica o il decreto del governo con la lista dei Comuni del cratere. Chi è
interessato a venire qui, turista o viaggiatore, lo sa che questa è zona
sismica e che c’è stato il terremoto, e che ci potrebbe ancora essere, mica è
un deficiente… Ma è interessato a sapere se ci sono borghi vissuti e non
abbandonati, strutture di accoglienza sicure e di qualità, abitanti con una
quotidianità con cui interagire e bere un bicchiere di vino, anziché hostess dal
sorriso impersonale che potrebbero accoglierlo in qualsiasi altro posto del
pianeta. Il fattore antropico, e la qualità della vita che arriva solo dalla
cura del territorio, questa è la storia e la forza dell'Appennino. Le chiese, i
musei, le grotte stanno sparse per tutto il mondo, perfino alle Bermuda. Con "Lontano dagli occhi" Sergio
Endrigo arrivò secondo nel 1969 in quel Sanremo, edizione burrascosa in pieno
clima sessantottino (vinsero per soli 9 voti Bobby Solo e Iva Zanicchi con Zingara). Endrigo, in quella splendida melodia,
canta "Che cos'è? C'è nell'aria
qualcosa di freddo che inverno non è Che cos'è? Questa sera per strada i
bambini non giocano più." Che cos'è, cari compaesani? Ecco, parliamo
del terremoto, parliamone tra noi e parliamo di noi, perché qui, a Falcioni di
Genga, da cinque mesi i bambini che ci vivono, per strada non giocano più (alcuni
hanno dormito impauriti per un mese e mezzo dentro un camper). E questo è un
grosso guaio.
giovedì 2 febbraio 2017
LE FERITE DI SAN SALVATORE
Il terremoto che ha
colpito dal 24 agosto l’Appennino, mettendo in ginocchio l’entroterra di quasi
quattro province marchigiane su cinque, ha avuto effetti dannosi anche nel
territorio di Fabriano, sia su edifici civili, sia sul patrimonio artistico-architettonico
religioso. Le scosse che si sono succedute, in uno sciame sismico che sembra
non terminare ancora, hanno avuto nel fabrianese un effetto particolare: quello
di confermare, qualora ce ne fosse ulteriormente bisogno, lo iato che esiste
tra la città (fatta eccezione per una parte molto minoritaria) e l’Appennino
che la circonda. In particolare con quella fascia montana che da Borgo Tufico
si protende fino ad affacciarsi sulla Vallesina. Come se quella parte di montagna
non fosse, dal punto di vista dei confini territoriali, anch’essa Comune di
Fabriano. Questo in condizioni normali, e tanto più in situazioni di
straordinarietà. Ciò vale per il rapporto con le comunità di persone che vivono
e lavorano su quella montagna; un’operosità che è legata all’agricoltura, alla
pastorizia, alla cura e manutenzione del patrimonio boschivo. Ma vale anche per
un altro aspetto, quello spirituale e religioso. Su quei monti, a Valdicastro,
è vissuto ed è morto uno dei Padri della spiritualità occidentale, San
Romualdo, le cui spoglie mortali riposano nel centro storico di Fabriano. Un
“gigante” della fede, fondatore dell’Ordine Camaldolese. Una narrazione che
contribuisce ad alimentare la crescita del cosiddetto “turismo della
spiritualità”. La Chiesa di S. Salvatore a Valdicastro, elemento storico ed
architettonico originale del complesso abbaziale, rappresenta uno dei segni
monumentali ed artistici più rilevanti del territorio. E seppur dal punto di
vista immobiliare, è un edificio privato (e il fatto di esserlo, va
sottolineato, almeno dal 1988 ha consentito che non divenissero delle vestigia
diroccate ed abbandonate in mezzo ad un paesaggio inselvatichito), è tutt’ora
consacrata al culto, ed è stato possibile sempre visitarla liberamente grazie
alla disponibilità della Coop. “S. Romualdo” che ne è proprietaria, e che ha
saputo anche coinvolgere l’associazionismo culturale locale nell’organizzare
visite guidate ed eventi. Ma la Chiesa di S. Salvatore è per prima un punto di
riferimento sacro per le comunità di persone (tutti cittadini fabrianesi) che
vivono in quella parte di Appennino e che ogni 19 giugno, nella festività di S.
Romualdo, si riversano in centinaia all’Abbazia per la celebrazione
dell’Eucarestia. E dentro la Chiesa è custodita la “Madonna dell’Acqua”, una
statua in cartapesta di Maria con in braccio il Bambino, che è legata alla
religiosità popolare di quei luoghi (un tempo veniva portata in processione tra
le frazioni montane), e che è tutt’oggi oggetto di culto e preghiera per l’intercessione
per la buona stagione e la floridità dei raccolti. Ma dal 24 agosto la Chiesa
di S. Salvatore è inagibile perché segnata pesantemente da subito dal terremoto
che, con le scosse del 26 e 30 ottobre, e del 18 gennaio, ha visto aggravarsi
la situazione. Però che questo patrimonio religioso ed architettonico rischi
subire danni irreversibili, non sembra essere considerata una priorità da
quanti hanno competenza e responsabilità per funzioni previste dalle leggi nel
dover metterlo in sicurezza. Infatti la Coop. “S. Romualdo” già dalle prime
luci del 24 agosto ha provveduto ad allertare il Comune di Fabriano e i Vigili
del Fuoco, scrivendo contestualmente il 31 agosto alla Sovrintendenza secondo
le procedure previste dal Ministero. Il sopralluogo dei tecnici del Comune di
Fabriano è avvenuto il 12 settembre, con conseguente Ordinanza di inagibilità
della sola Chiesa, firmata due giorni dopo dal Sindaco. Successivamente alle
scosse di fine ottobre, su richiesta immediata della proprietà, si è svolto
dopo diversi giorni un nuovo sopralluogo, Comune e Vigili del Fuoco, che hanno
ravvisato la necessità di puntellare parte della struttura, per evitare che il
tetto, aggravato ipoteticamente dal peso della neve o da altre scosse, potesse
crollare; operazione questa che per norma compete al Comune. Nei primi giorni
dell’anno, il 2 gennaio per la precisione, la proprietà, viste le preoccupanti previsioni
meteo, ha sollecitato telefonicamente il Comune e la Sovrintendenza, inviando al
Comune anche una p.e.c. in data 5
gennaio; ma a questa non c’è stato nessun riscontro ad oggi da parte del
Comune, mentre la Sovrintendenza aveva annunciato un sopralluogo (quello che
sarebbe dovuto avvenire già a settembre) tra giorni 15 e 20 gennaio, ma anche
la Sovrintendenza non s’è poi più vista e sentita. In quella zona
dell’Appennino la scorsa settimana ha fatto oltre due metri di neve, e grazie
al lavoro di prevenzione e sgombero delle imprese agricole del posto (compresa
la “S. Romualdo”), la strada provinciale è stata sempre percorribile e le
frazioni sempre raggiungibili. La Chiesa di S. Salvatore in Valdicastro non è
stata ancora messa in sicurezza e puntellata, il tetto fortunatamente ha per
ora retto al carico della neve (sicuramente grazie all’intercessione di S.
Romualdo). L’Agriturismo e l’attività agricola non hanno subito danni dal
terremoto; molti sono stati gli ospiti anche in queste settimane, essendo un
punto di riferimento per le famiglie di tutta la Regione. Quello che una
Cooperativa agricola quasi del tutto familiare, ha saputo fare in trent’anni su
quella parte dell’Appennino, con lavoro duro e grandi sacrifici, in una
comunità civile normale, sarebbe un fiore all’occhiello ed un’esperienza da
esaltare, come significativa della possibilità di fare in montagna agricoltura
biologica e produzioni di qualità, tutelando le biodiversità, valorizzando le
peculiarità del territorio, e consentendone la sua manutenzione e cura. Ma
tant’è, invece, quest’esperienza, come anche altre in quel pezzetto
dell’Appennino, risulta essere vissuta come estranea, se non un fastidio, dalla
Fabriano “dentro le mura”. Non consapevole pienamente ancora, che quel modello
industriale che ne ha fatto la fortuna del Novecento, è stato sepolto dalla
crisi e il miraggio che, con qualche ritocco, possa essere replicabile, è solo
una pericolosa illusione. O meglio, per dirla con i versi del poeta Franco
Arminio, non si è consapevoli che “il tempo delle merce è finito, sta arrivando
il tempo del sacro”.
giovedì 19 gennaio 2017
QUELLI DELLA PANDA VERDE
Qualche giorno fa al paesello, in macchina incrocio una panda
verde con sulle fiancate la scritta "CARABINIERI". La cosa all'inizio
mi genera sorpresa. 'Ma come - mi chiedo - ma i Carabinieri non c'hanno le
macchine blu scuro? E poi a Genga i Carabinieri della stazione locale, c'hanno
una jeep, l'ho visti al bar due giorni fa!' Poi, ci penso un po', e trovo la
risposta a quanto visto. "Ma certo - mi dico - quelli sono gli agenti
della Forestale che adesso sono stati accorpati nei Carabinieri: i Carabinieri Forestali.
E la prima cosa che mi viene in mente, riguardo ad una scelta fatta in ragione
della razionalizzazione dei costi, e dell'efficientamento dello Stato, è che al
contrario un primo costo in più quella "riforma" ce l'ha avuto
subito: le spese del carrozziere per cambiare la scritta sulle fiancate della
Panda. Tutto questo, c'entra qualcosa con quello che sta accadendo
sull'Appennino questi mesi ed ultimi giorni, piegato dalla neve e dal
terremoto? Si, c'entra eccome, considerata la tragica e straordinaria intensità
dei due fenomeni naturali, e la loro concomitanza. Quello a cui assistiamo, e
viviamo, è una sorta di ultimo quadro di un'opera tragica di uno Stato, e della
sua capacità di prossimità, prontezza ed efficienza verso le difficoltà in cui
improvvisamente possono venire a trovarsi le persone ed i territori. Uno Stato
animato da buoni propositi e volontà, servito da impagabili e generosi
funzionari, ma che gli errori della politica, tutta, perseveranti negli anni,
ha reso incapace di funzionare, dirigere, operare; specie nell'emergenza. Un
gigante scomposto, disarticolato, in affanno. Questo è il prodotto di un'idea di
riforma (si fa per dire), con diversi padri snaturati, delle diverse
articolazioni centrali e periferiche dell'organizzazione statale, senza una
visione complessiva e un road map, dettate dalla lettura dei territori,
dall'ascolto e dal confronto dei cittadini e dei loro bisogni, ma basate
esclusivamente sulla rincorsa al facile e immediato consenso politico, al mito
della riduzione dei costi e dello spreco, alla lotta alla corruzione e alle
opacità. La riduzione ad Enti miserevoli della rete dei Comuni (ho già scritto
su questo blog quello che penso della boiata della fusione dei piccoli
Municipi), lo smantellamento del ruolo e delle funzioni delle Province, e l’umiliante
sballottamento in altre Istituzioni delle loro professionalità, la
trasformazione delle Regioni in elefantiaci soggetti sempre di più gestionali,
la privatizzazione di fatto di servizi territoriali essenziali, svolgenti anche
attività di prevenzione, malcelata in apparenti società pubbliche, ed altro
ancora, hanno allontanato lo Stato dai territori e dalle popolazioni,
ingigantendo l'incapacità di saper prevenire, amministrare, intervenire con
coordinata prontezza. In questo processo, alla fine poi, i vizi che si volevano
eliminare sono rimasti tutti, anzi: i costi eccessivi, gli sprechi, i ladri, le
opacità e i fannulloni. E quindi poi, drammaticamente, è normale che moduli
abitativi definitivi che dovevano arrivare per primavera arriveranno se va bene
d'estate, che non si è capaci di improntare in poche settimane e prima che gli
animali muoiano gelati, stalle in tensostruttura non il patrimonio bovino delle
pampas argentine, ma per poco più di
diecimila capi, che si deportino migliaia di persone dall'Appennino alla costa
con un viaggio che rischia di essere di sola andata, che venga considerata una
struttura di eccellenza un albergo costruito in zona fragilissima dopo che
quanti hanno rilasciato permessi e licenze siano già stati condannati per abuso
edilizio, e che una slavina si porti via hotel e vite umane, che un
amministratore locale con la neve e con le scosse, andando in affanno, decida
al contempo di tenere aperte le scuole e allestire il palasport per farci
dormire i cittadini, che una bufera di neve riesca a disattivare per giorni decine di migliaia di utenze elettriche nel Centro Italia, e non altrettanto a fare in Alaska. "Chi accusa la Protezione Civile attacca il Sistema
Paese" ha detto con emotività l'ing. Fabrizio Curcio. È vero, sono
d'accordo con lui, persona seria e perbene. È legittimo però, non solo non
tacere, ma cominciare a chiedere il conto, senza demagogia, populismo e
giacobinismo, e con nuovi processi di partecipazione e democrazia di base, ai
molti che negli anni e in tempi recenti, hanno fatto, per i loro capricci
politici e per il consenso fine a se stessi, del Sistema Paese quel gigante
Golia che cade in ginocchio quasi esanime di fronte all'ultima scossa sismica e
a un nevone previsto da giorni. E che pensa davvero che si migliori la
prontezza dello Stato cambiando una scritta sulle fiancate di una Panda. Anche
tutto questo è stata ed è #strategiadellabbandono.
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