venerdì 8 luglio 2016

EMMANUEL E CHINYERY, LE MARCHE, E L'INNOCENZA PERDUTA (se mai avuta)

Il barbaro assassinio di Emmanuel a Fermo, non è sufficiente che possa essere riconosciuto come un gesto fascista, fatto da un fascista. Per molti, fascista, è una parola quasi impronunciabile, che non sta bene usare nel XXI secolo, e quindi meglio razzista, estremista di destra, o la molto più soft ultrà. Ed è quindi comprensibile e condivisibile, che anche molti si incazzino e pretendano che quel gesto e quell’omicida vengano appellati con la parola più propria, fascismo. Ma non può esaurirsi e finire qui. Quell’omicidio apre questioni e problematiche più profonde, che interpellano una regione e che esigono che, almeno, questa tragedia possa rappresentare l’opportunità, non rinviabile, per una terra di un milione e mezzo di abitanti, per fare un tagliando. Un tagliando al livello del suo sentimento democratico, che coinvolga i singoli, la società organizzata, le classi dirigenti, la politica e le istituzioni. L’omicidio di Emmanuel ci dice che abbiamo superato il livello di guardia, tutti e tutto. Il fatto che uno spacchi il cranio ad una persona perché considerato diverso, ha alle spalle tutta una filiera di valori, di sentimenti, di comportamenti, consapevoli ed inconsapevoli, propri di una comunità, che non solo negli anni si sono indeboliti, ma addirittura incrinati. E' il fatto che uno, al di là del suo istintuale tasso di aggressività e di cultura, arrivi a considerare normale, comprensibile e giustificabile, considerare l’altra persona, per provenienza e per etnia, una scimmia. E se questo avviene, significa che quell’omicida ha una certa consapevolezza che, nel considerare un africano una scimmia, possa essere nel pensiero comune della gente che ha intorno, un atteggiamento se non del tutto legittimabile, quantomeno sopportabile. E allora che cosa è diventata negli anni la società marchigiana, cosa sono diventati i tanto prudenti e timorati marchigiani? Dov’è finito quel tanto decantato humus comunitario ed identitario, che è stato per decenni assunto a modello e ad esempio (nelle relazioni, nell’economia, nei rapporti della società organizzata,…)? Perché, in un certo senso, l'omicidio di Emmanuel sancisce  l'attimo in cui si è persa quell’aurea di innocenza? O non c’è mai stata? Perché è sufficiente oggi la presenza, in una piccola cittadina, di una decina di richiedenti asilo, per mandare in tilt una cristallizzata e apparentemente tranquilla dinamica quotidiana, per far smarrire ai responsabili delle Istituzioni, senso di responsabilità, e trasformarli persino in promotori della paura, per smuovere sentimenti di ostilità, egoismo ed intolleranza anche in persone insospettabili? E’ stata la crisi? E’ stato il venir meno, nelle Marche di un’idea dei rapporti padronali e subalterni, concretizzatasi per decenni classe dirigente diffusa, e che creando dipendenza, nella sua implosione, ha lasciato tutti senza la figura rassicurante di un padrone? E’ stata la mutazione genetica, probabilmente irreversibile, di un modello e una pratica della politica improntata alla sola semplificazione, razionalizzazione, cultura del “The Truman show”? E’ stato il fatto che da diversi anni si è spinto sull’acceleratore culturale della costruzione di un’identità marchigiana (storicamente inesistente), anziché sulla crescita consapevole e partecipata di un nuovo e necessario umanesimo ed autentica comunanza? O è stato il fatto che, non solo nelle Marche, quando ogni aspetto della vita e della quotidianità, è improntato alla supremazia assoluta della merce, di conseguenza tutto è giustificabile al perseguimento di quel fine? Oggi, se usciamo dai mantra dei tweet e degli #, ci accorgiamo che questa regione (e i suoi abitanti) è più povera, più sola, più egoista e più corrotta. E di conseguenza più propensa a far sedimentare germi e sentimenti fascisti. E la risposta a tutto questo non può essere ancora la semplificazione di questioni che hanno necessità di complessità ed articolazione, ed un generico e riverniciato riformismo. Ma deve necessariamente essere la radicalità. Delle idee, dei comportamenti, delle scelte; private e pubbliche; individuali e collettivi. E’ necessaria una forte iniezione di eresia. Don Vinicio Albanesi, quando eravamo molto più giovani, e più giovane anche lui, ai campeggi ci portava a tavola una grande pastasciuttiera con dentro la pasta fumante, e ci diceva nel posarla al centro della mensa a cui sedevamo: “ecco l’Eucarestia”. Era eretico e blasfemo, nel fare e nel dire? Non saprei; certo era un messaggio forte per dei ragazzi di vent’anni, c’era l’idea di sentirsi una comunità di eguali, di mutualità, e di condividere un po’ per uno, ma per tutti con tutti, quanto bastava per vivere, il necessario. E di conseguenza nessuno si sentiva diverso, subalterno, ma autonomo e tra pari; libero di impegnarsi nel dispiegare la propria vita nella comunità più grande. Ecco, forse le Marche, hanno bisogno di prendere atto che "il tempo della merce è finito, e sta arrivando il tempo del sacro*". Ne saranno all’altezza, ne saremo all’altezza? Non ho molta fiducia, guardandomi attorno. Vedo molte indignazioni di giornata, costernazioni da primo post su facebook il ripetersi di stanchi ed inefficaci riti di solidarietà e cordoglio. Vedo la paura, se non il terrore, per chi ha responsabilità, seppur diverse, verso i cittadini, di chiamare la cose con il loro vero nome, perché ciò metterebbe in discussione un pezzetto del proprio potere e consenso. Non vedo, ma è dovuto sicuramente alla miopia, quasi niente di radicale. Quel gesto così apparentemente senza finalità e concretezza, a cui invita un poeta ed un intellettuale come Franco Arminio: “Mettiti in ginocchio anche se non credi a nessuno.

 *cit. Franco Arminio


PS. Immagine di Serrabernacchia (frazione di Genga)


martedì 24 maggio 2016

PARTIGIANI DI IERI E PRETORIANI DI OGGI

Non saprei, nel momento in cui mi accingo a scrivere alcune riflessioni personali, se mi trovo nello status, come detto da alcune e alcuni in questi giorni, di possessore della “eredità morale della Resistenza”; l’unica eredità che mi sono ritrovato, ed anche casualmente, semidimenticata in una scatola di cartone tra un trasloco e un altro, sono due medaglie di bronzo delle Brigate Garibaldi. Mio padre ed io, solo più di settant’anni dopo, abbiamo ricostruito che, anziché essere state regalate negli anni a nonno Serafino da qualche parente o conoscente, come c'avevano detto, erano DI nonno Serafino. Nonno (scomparso nel 1974), mica l’aveva detto a nessuno che a tutti gli effetti aveva fatto parte di un distaccamento partigiano in quel di Ostra, che stava con Brutti e Maggini…(fucilati dai fascisti Ostra il 6 febbraio del 1944); c’è toccato andare all’Archivio di Stato, all’Istituto di Storia e al Distretto Militare, per trovarlo lì, il Serafino, in lista con tutti gli altri partigiani, 70 anni dopo la Liberazione. Questo, per avvalorare una cosa che ho imparato in questi anni, avendo avuto il privilegio di conoscerne tanti, italiani, slavi, di tutta Europa: che i Partigiani parlano poco o niente; o meglio di quello che hanno fatto e del perché l’hanno fatto, non ti raccontano proprio nulla, nonostante sollecitati. Anzi, più chiedi e più si infastidiscono. Poche parole, quello che è si è si, quello che è no è no. E allora da questo capisci che è meglio lasciarli stare, non tirarli per la giacca, né tantomeno esibirli come una sorta di Buffalo Bill al circo. E capisci una cosa, specialmente: che questi qui è giusto che dicano su tutto quel che cazzo gli pare e gli passa per la testa; è così e basta. Ma questo, chi pensa che l’attività e le scelte della politica, il consenso a queste,  si fondano sulla fedeltà ad una persona fisica, ad un capo, con metodi, parole e prassi scopiazzate da qualche setta psico-socio-spirituale, non lo può capire. Chi ha combattuto per la Libertà ha praticato, nell’essere certamente fedele ad un ideale e ad una causa, tra i suoi simili, capi o sottoposti, esclusivamente il valore della lealtà. Cosa assai diversa dalla fedeltà. E allora, di conseguenza, per la politica modello scientology (o altre esperienze nostrane similari), è impensabile, inammissibile, che un’associazione, autonoma giuridicamente e statutariamente, di oltre centoventiquattromila iscritti, che si ritiene idealmente vicina, possa nel merito di una questione specifica, democraticamente decidere di pensarla diversamente. Proprio perché quella politica lì, fondata e tenuta in piedi sul concetto della fedeltà, è forte e vincente solo se crea rapporti di sottomissione, asservimento e subalternità. Ecco perché l’aggressione all’ANPI, politica, morale, per certi versi con una fisicità, è di una gravità e di un pericolo inaudito. Perché non è la solita schermaglia, gioco fra parti, composizione e scomposizione interna ad un’area o schieramento. E’ qualcosa di più infido, profondo, pericoloso. E’ il riprodursi e nuovo prodursi della pretesa di controllo delle coscienze e delle intelligenze e, di conseguenza dell’esercizio della libertà di pensiero e azione di ognuno. E’ allora, in quella politica lì, non ci si confronta lealmente nel merito riconoscendosi reciproca autonomia e scelta; si scatenano i pretoriani, quelli televisivi, giornalistici e da tastiera; quelli che li fai inserire in un corpo estraneo, avverso, per sovvertirne l’equilibrio, l’ordine, la gerarchia. L'altro, nella sua soggettività organizzata, diventa il nemico da distruggere. E i pretoriani non sono, figurativamente, equiparabili oggi ai semplici iscritti, militanti, opinionisti di un partito o movimento. Nell’antichità erano militari scelti che svolgevano compiti di guardia del corpo dell’imperatore; erano pronti a morire per l’imperatore, non per una causa o un ideale, si badi bene, per il corpo dell’imperatore. Per il militante o l'iscritto ad una associazione, a battaglia politica finita, il giorno dopo è un giorno come un altro, con la propria vita, il proprio lavoro, i propri affetti. Per il pretoriano la posta è molto più alta, vitale; sul piatto ci si gioca spesso tutto, metaforicamente la vita. La coscienza individuale, l’esercizio della propria convinzione, che in una associazione è sinonimo di confronto, dialettica e democratica sintesi, non può essere riconosciuta da una determinata strutturazione politica; pena il cedimento delle sue fondamenta. E’ un concetto che mi genera, e non mi ritengo certamente uno che si impressiona, spavento. Quattro anni fa, e questa riflessione di oggi coincide con un anniversario, casualmente il 24 maggio (quello del Piave…), con la maggioranza politica dei Consiglieri Provinciali di Ancona uscii dall’aula facendo mancare il numero legale, quando si voleva far approvare un atto che avrebbe fatto aprire una nuova cava su Monte S. Angelo ad Arcevia; su quel monte il 4 maggio del 1944 i fascisti ammazzarono più di settanta civili, tra cui una bambina di sei anni, Palmina. Un luogo sacro, al di là del valore ambientale del territorio, che non può essere oggetto di interessi privati e speculativi, tanto più autorizzati da provvedimenti pubblici. L'atto non fu approvato, il Consiglio Provinciale decadde pochi giorni dopo per fine consiliatura e poi le Province non sono state più elette dai cittadini. La cava ad oggi non è stata fatta. Non  comunicai anticipatamente ad alcuno (a livello politico e di partito) che avrei agito in quel modo e sollecitato altri compagni ad agire così. Chiesi esclusivo consiglio ad un anziano che oggi ha quasi 93 anni, uno di quelli che oggi è giusto dica quello che stracazzo gli pare, un Partigiano; uno offeso e aggredito verbalmente in maniera virulenta, e pubblicamente, da settimane dai famigli dell'imperatore e dai pretoriani. Fu doloroso quel 24 maggio; la coscienza versus l’appartenenza ad un partito. L’ideale o la saccoccia. In quel giorno, con quella scelta, si sarebbe esaurito un mio percorso nella politica attiva, e di questo ne ero consapevole uscendo di casa la mattina. Da quel giorno, ogni mattina, però, riesco ancora a guardarmi nello specchio. E per questo non c’è alcuna Mastercard che valga. 

martedì 26 aprile 2016

ALLA STAZIONE C'ERANO TUTTI

Ho scelto di condividere la Festa della Liberazione con una piccola comunità dell’entroterra marchigiano di meno di 5000 abitanti; la consuetudine avrebbe voluto che la trascorressi nel capoluogo di Regione. In quella cittadina nelle settimane scorse si era verificato un problema, definiamolo così: il Sindaco non voleva andare al di là di un manifesto copia/incolla e di un mazzo di fiori portato da un usciere del Comune, di buon mattino e senza cerimonia, al monumento dei caduti (anziché al murales della Resistenza, scambiando volutamente il 25 aprile con il 4 novembre); ma soprattutto non voleva fare il 25 Aprile con l’ANPI. In quella cittadina c’è un sindaco-imprenditore, a capo di una lista civica molto eterogenea. Uno che pensa che “occupare” con il proprio conflitto di interessi l’Istituzione, possa portare benefici ai cazzi propri; e di cazzi d’impresa, quell’imprenditore ne ha tanti. Nelle settimane precedenti, l’ANPI di quel Comune non si è persa d’animo, e si è messa ad organizzare una sua cerimonia del 25 aprile, chiamando a raccolta quella società civile che non ritiene giusto stare “a bottega” dal sindaco-imprenditore e che, soprattutto, non è ricattabile da quel potere politico. Cosa curiosa, a rendere atipica quella dinamica locale, c’è la consuetudine da qualche anno che la parrocchia del paese, con il beneplacito del vescovo ciellino-operaio, il 25 aprile fa le cresime, a prescindere se la festività cada di domenica o in un altro giorno della settimana; che coincidenza singolare… Mi hanno raccontato che, dopo che l’ANPI s’è data da fare, nella maggioranza politica che governa il Comune, abbiano litigato parecchio, intravedendo, i più lucidi, lo sputtanamento. Ma niente, il sindaco –imprenditore ha avuto la meglio; si è fatto come comanda lui, solo manifesto e, sembra che questi addirittura ieri fosse in Cina. Non per impegni istituzionali, ma per cercare qualche cinese che fosse possa essere interessato alle sue aziende, che non se la passano proprio alla grande. Ho letto il manifesto del 25 aprile del Comune ieri, arrivando in centro; non c’è mai la parola “antifascismo” e “Resistenza”; solo un vago richiamo alla pace e alla fratellanza universale. E al murales della Resistenza, in una fredda, anzi freddissima e ventosa mattinata di primavera, che sta davanti la stazione ferroviaria (chissà perché ad un certo punto m’è venuta in mente la stazione di Bocca di Rosa…), ho trovato l’ANPI, le ragazze e i ragazzi del centro di aggregazione giovanile, l’AVIS, i Carabinieri del paese in veste da cerimonia, qualche coccinella e boy scout, alcune insegnanti dell’istituto comprensivo, delegazioni dei sindacati e di alcuni partiti, e diversi cittadini. E abbiamo condiviso una bella cerimonia del 25 aprile fai da te. Mi hanno raccontato nei giorni scorsi che il sindaco-imprenditore, da tempo si sarebbe venduto la storia, le radici e l’autonomia del Comune e della comunità, favorendo la fusione della sua municipalità con quello confinante di trentamila abitanti, in cambio di qualche salvacondotto per le sue imprese, ma non certo per i lavoratori, ma solo per le sue saccocce. Il tutto con il beneplacito di livelli istituzionali superiori e, teoricamente, politicamente avversi alla maggioranza che regge il Comune. Di questo aspetto poco mi importa; trovo invece che quel manipolo di cittadini, che andava dalle coccinelle al locale partito comunista che più comunista non si può, che s’è ritrovato al freddo di fronte al murales della Resistenza, rappresenti l’unica speranza per quella comunità, e il germe di un nuovo fronte di democrazia comunitaria che ha il dovere di non disperdersi. Da lì si può ripartire, dalla sperimentazione di una nuova pratica di partecipazione, fra storie ed individualità differenti, fra pari, e che liberi a breve quella comunità dal padrino di turno, e che riaffermi che storia, identità, democrazia di un paese, non si vendono, né si svendono, con la puttanata delle fusioni tra comuni, per gli affari di qualche sindaco-imprenditore pro tempore, e neanche per le lusinghe della moda istituzionale di turno, portata porta a porta da qualche commesso viaggiatore della politica del governo nazionale. Spero che l’ANPI locale, insieme ad altri, sappia raccogliere questa eredità, non di 71 anni fa, ma di appena ventiquattr'ore fa. 

lunedì 18 aprile 2016

I REFERENDUM PICCINI PICCIO'

Domenica scorsa si sono svolti, contestualmente al referendum nazionale sulle trivelle, due mini referendum locali per far pronunciare le comunità locali sulla proposta di fusione del proprio Comune con un Comune più grande limitrofo (tecnicamente definita fusione per incorporazione). Due piccole comunità dell’entroterra marchigiano, una con neanche mille abitanti, l’altra con poco più di duemila. Il primo dato significativo è che la partecipazione al quesito referendario locale nei due piccoli centri è stato sensibilmente più ampio della partecipazione la voto sul referendum nazionale. Il secondo dato è che in entrambi i centri il NO alla fusione per incorporazione ha visto una stragrande maggioranza dei consensi. Quindi la maggioranza degli abitanti di quei piccoli Comuni non vuole essere fusa. Si dirà: hanno prevalso resistenze ingiustificate, localismi e particolarismi; non è bastata neanche la lusinga della seduzione economica per quei cittadini, due milioni di euro per dieci anni di trasferimenti statali in più per il bilancio del  neo Comune risultante dalla fusione. Forse è il caso però, oltre che colpevolizzare gli istinti localistici e conservatori di quelle persone, di fare anche una riflessione sul senso della oramai diffusa strategia politica del principio amministrativo della fusione municipale. Premesso che è vero che i Comuni, specialmente quelli più piccoli, stanno in grande difficoltà economica ed organizzativa da anni. Non ci sono più risorse sufficienti per garantire una normalità dei servizi erogati, non ci sono più risorse umane disponibili per gestire il funzionamento della macchina amministrativa. Ma è un problema magicamente spuntato da qualche tempo, o invece magari è il frutto di un lento logoramento del valore delle Autonomie Locali da parte di politiche statali, che hanno perseguito scientemente da anni un’aggressione per primo al sistema democratico delle Istituzioni locali, ed insieme alla loro capacità di operatività, fino a produrre il crack di una rete di sussidiarietà orizzontale nei territori? Spesso in nome di parole d’ordine qualunquiste e populiste, la casta, gli spechi, le inefficienze. Che negli anni  problemi di questo genere non se ne siano verificati, sarebbe negare delle evidenze; ma da qui la generale colpevolizzazione di tutto e tutti, ha prodotto solo l’indebolimento e lo screditamento del livello istituzionale più prossimo ai cittadini, e di conseguenza più riconosciuto. Che ha contribuito a screditare generalmente la politica. Una politica incapace, nel suo insieme, di elaborare una vera riforma dell’ordinamento statale a settan’anni dalla Costituzione repubblicana; che sapesse rivedere e rimodulare i diversi livelli di governo in maniera equilibrata rispetto alle condizioni della società, dell’economia, delle corporazioni, che non sono più quelle di quando decenni fa venne disegnato il quadro istituzionale del Paese. Ma che invece, al contrario, ha corso dietro in maniera disorganica al vento delle stagioni: prima il problema avvertito dall’opinione pubblica erano le Province, e quindi via le Province. Poi il bicameralismo e l’eccessivo numero dei parlamentari (il numero, si badi bene, non il costo, che è rimasto pressoché invariato), e quindi largo alla riforma della Costituzione di questi mesi. Ora, da qualche tempo, il problema sono i Comuni che non ce la fanno più, e quindi via alle fusioni. In tutto questo inalterato il livello regionale, che negli anni ha assunto ruolo e proporzioni elefantiache. In tutto questo solo interventi a spot ed una tantum, in cui non si intravede nessun disegno organico di un nuovo modello statale. L’unico obiettivo finora raggiunto è che si è solamente ridotto il livello di democrazia: le province ci sono ma non si eleggono più direttamente i rappresentanti; il Senato ci sarà ancora, ma di fatto sarà non elettivo e vi finiranno eletti già in altri livelli, regioni e comuni, scelti dai partiti con il criterio della fedeltà; i Comuni già da anni hanno visto tagliarsi il numero dei Consiglieri Comunali e delle Giunte, che di fatto erano e sono dei volontari della politica. Ed ora l’assalto finale da parte di classi dirigenti miopi ed ignoranti (per essere educati): la fusione dei piccoli Comuni. Meno Sindaci, che nei piccoli Comuni sono un presidio della democrazia, e chi lo fa il più delle volte anziché guadagnarci, come si malpensa, ci rimette di proprio. E la creazione di neologismi nel chiamare le nuove municipalità, che niente hanno a che vedere con storia, radici ed identità locali. E lì davanti, sempre le sopracitate classi dirigenti, a brandire la ricompensa: vi diamo più soldi. Come se la storia, le radici, l’identità di una comunità si potessero comprare. Ben altra cosa sarebbe stimolare alla pratica di messa in comune di servizi e risorse umane tra comunità, senza andare ad indebolire ed annullare la rappresentanza democratica ed indentitaria. Tra l’altro alle scelte di fusione si arriva sempre con percorsi informativi, partecipativi e di formazione del consenso, senza alcuna pratica comunitaria, ma pensati ed imposti dall’alto da qualche raìs di partito territoriale. E allora quando i cittadini possono esprimersi liberamente e senza condizionamenti e ricatti, questi piccoli pretoriani di partito di provincia li mandano a cagare. Come è successo nell’entroterra marchigiano domenica, e come è auspicabile che succeda ancora. Perché gli abitanti di una piccola comunità ci tengono ai propri valori, alle proprie radici e, forse, anche alla democrazia molto di più di quello che si pensa. E le piccole comunità, specie nelle aree interne, hanno bisogno dalla politica di ben altre attenzioni che non sia qualche pugno di euro; hanno bisogno di scelte e politiche nazionali che riguardano la qualità della vita, dei servizi, del paesaggio, delle quali, al di là dei soliti slogan e gettonati convegni, non se ne intravede alcuna concretezza. Hanno bisogno di scelte d’amore da parte della politica. Di una visione e di una passione che non c’è più. Ci sono solo ambizioni personali e tanti piccoli capetti, emuli al ribasso del capo di turno più grande. E allora viva le piccole comunità e i piccoli Comuni, presìdi di democrazia e di una moderna resistenza  (con la r minuscola, sia ben chiaro) civile.

sabato 9 aprile 2016

LA BORGHESIA MASSONA

“A Jesi c’è la borghesia massona”, così se ne esce un amico fabrianese durante una scambio di opinioni in merito ad un progetto documentaristico sulle vicende della realtà della Città della Carta degli ultimi anni, dal titolo “La fine dell’illusione” (lo trovate in rete, www.lafinedellillusione.it). Un progetto multimediale interessante, che fa lo sforzo di analizzare, soprattutto attraverso testimonianze, ciò che è successo non solo nel tessuto economico della città, ma anche in quello sociale e civile. Con alcuni limiti, a mio parere, dovuti probabilmente, almeno immagino, all’esigenza di confezionare un prodotto che avesse l’obiettivo di analizzare solamente alcuni aspetti predominanti. Due i limiti principali: la narrazione testimoniale è circoscritta solo a rappresentanti, passati ed attuali, delle Istituzioni e della politica, e ai lavoratori del settore e dell’indotto manifatturiero meccanico. Proprio per questo, lo spaccato che emerge della città è di conseguenza parziale; manca il punto di vista degli imprenditori che sono stati protagonisti per decenni della storia economica della città, i cosiddetti padroni. Avranno qualcosa almeno da dire, se non a dover rendere conto, sullo stato in cui si trova, oramai da quasi un decennio, la città? E manca una fascia sociale, professionale e culturale, fondamentale di una comunità, la cosiddetta borghesia. Forse perché una borghesia, come storicamente intesa, a Fabriano non c’è mai stata. E mancano le donne; o meglio, c’è un’operaia intervistata, ma il ritratto che emerge della figura femminile, è che a Fabriano la donna è quasi esclusivamente intesa come sposa e madre. E invece, per quello che conosco di quella realtà, ci sono storie ed esperienze femminili significative, nel mondo delle professioni, della cultura e del sociale; ma la storia di quella città preferisce raccontarsi la donna come la moglie e casalinga, che mentre il marito produce, fa impresa e business, si ritrova al  caffè del centro con le amiche per il the. E nella mia chiacchierata con l’amico fabrianese, ponevo a confronto una storia che penso di conoscere un poco, quelle jesina, dove, pur anche lì con limiti e problemi, c’è un tessuto cittadino che ha attraversato, tenendo, anche anni difficili, grazie ad un equilibrio e ad un reciproco rispetto ed autonomia di ruolo tra poteri e strati sociali. La politica ha fatto la politica, l’impresa ha fatto l’impresa, la Chiesa ha fatto la Chiesa. Mai che a qualcuno fosse venuto pensato di accentrare o mischiare ruoli e funzioni, o esercitare indebite ingerenze; e quando a qualcuno è venuto in mente, il pensiero è sempre durato molto poco. E questo anche perché negli anni, la città è riuscita a far vivere, crescere ed interagire tra loro, una fiera e forte classe operaia, una borghesia laica e cattolica, conservatrice e progressista, e storie ed esperienze imprenditoriali eterogenee e plurali. Ed in cui anche le donne, hanno sempre avuto autonomia, ruolo ed identità proprie, e mai riflesse. Questo ha significato per la città negli anni, dialettica, confronto, scontro, contaminazione, competizione, rispetto reciproco, e per questo vitalità e forza nell’attraversare le stagioni. A Fabriano no. In quella realtà, quasi per un secolo, potere politico, imprenditoriale, economico, sono diventati via via sempre più un unicum, con il beneplacito della sfera ecclesiale. Questo, in tempi di vento in poppa, ha distribuito benessere per tutti, per alcuni ricchezza consistente, per la stragrande maggioranza tranquillità economica e sociale; ma quando la tempesta della crisi ha spazzato via un modello economico basato sul capitale e sul profitto ad ogni costo, il tappo è saltato, e le spese le ha fatte, e le sta facendo la maggioranza dei cittadini. Ma soprattutto quella concentrazione di poteri diversi in un unico ed esclusivo direttorio, negli anni ha prodotto distanze sociali, mancanza di stratificazione sociale e dipendenza dal capo. E non ha consentito l’affermarsi di un livello sociale e culturale fondamentale, che è quello intermedio, la borghesia. Capace di svolgere, forte di una propria autonomia identitaria, anche in alcune fasi il ruolo di una sorta di cuscinetto ammortizzatore tra fasce sociali differenti. Che poi a Jesi, siano presenti storicamente diversi circoli massonici, è un fatto. Ma non tutta la borghesia cittadina è massona, e non tutti i massoni sono borghesi. E’ un semplicismo. C’è poi un altro protagonista economico e sociale, anche in un contesto geomorfologico differente,  che ha avuto tra le due realtà considerazione diversa: il contadino. A Fabriano il metalmezzadro: l’agricoltura voce dell’impresa e dell’economia di fatto hobbystica e dopolavoristica, ed il contadino considerato culturalmente subalterno all’occupato nel manifatturiero. A Jesi, l’agricoltore, figura di lavoratore e imprenditore con uno suo status definito e riconosciuto.  Allora ridurre, seppur in sincera amicizia, un confronto ed un’analisi complessi, con l’espressione “lì c’è la borghesia massona”, come fosse il lessico di un esorcismo su episodi demoniaci  è, del tutto in buona fede, indice della incapacità di ammettere che, in fondo, per usare un’espressione calcistica “in zona Cesarini, si spera che quella che è stata una grande illusione, possa, rabberciata e riverniciata, riprodursi ancora. E che, quando il padrone, a cui si è delegata nel tempo molta della propria potenziale autonomia, non c’è più, ci si sente solo disorientati e orfani; e depressi. Ed incapaci di costruire, ancorché una nuova illusione, una realtà di concrete opportunità in uno spirito comunitario e solidaristico.

domenica 27 marzo 2016

IL PRANZO E' SERVITO

Che la democrazia passasse per il cibo, l’avevano capito già i Cervi 73 anni fa. Non a caso, il 25 luglio 1943 alla caduta del fascismo, tra i tanti modi che potessero improvvisare “quei matti ed anarchici dei Cervi” per festeggiare quel fatto, loro, contadini e antifascisti, organizzarono una grande cena popolare per tutti i contadini e gli abitanti della zona. Una cena non sul cortile di casa loro, ma non a caso nella piazza del paese, un luogo pubblico; una pastasciutta di lusso per quei tempi, per tutti, a km zero diremmo oggi: pasta corta in bianco condita con burro e parmigiano di produzione locale. Oggi il rapporto tra cibo e democrazia è servito davanti a noi, ineludibile: in maniera drammatica ed esponenziale per quello che riguarda il Sud del pianeta; in maniera complessa e spesso tragicomica per quello che riguarda il cosiddetto Occidente. Le mafie in giacca e cravatta, che rilevano a quattro soldi imprese agricole ridotte allo stremo da politiche nazionali ed internazionali, che passano, nella fase elaborativa, per i lobbisti di grandi gruppi economici e finanziari; la produzione e la distribuzione di massa in mano oramai esclusivamente ad un pugno di multinazionali; la rete commerciale programmata non in base al bisogno demografico, ma in base alle logiche di cubatura urbanistica speculativa di consumati palazzinari e di amministratori compiacenti; i rapporti occupazionali legati al mercato del cibo, sia per la distribuzione che alla ristorazione; la truffe, le contraffazioni e le condizioni igienico sanitarie legate al cibo (lo slowfood che non è slow, il bio che non è bio, la listeria che ti ammazza e che trovi non nella salsiccia fresca ce fa il norcino in montagna, ma nel prosciutto cotto che trovi al supermercato).  Questo ed altro. E tra questo e altro, c’è anche il prezzo del cibo: il prezzo del bio, o presunto tale, che continua ad essere, come si sarebbe detto un tempo, solo per la borghesia; il prezzo della ristorazione (gourmet a due zeri a coperto, e menù tipici completi a 10 €; c’è qualcosa che non porta?). E poi, per entrare nel tragicomico (ma non per questo meno importante), il proliferare di format televisivi in cui si illude, o vende, che tutti, senza formazione e sacrificio, possono diventare grandi chef stellati, compresi i bambini, e che sono spot continui per le multinazionali del cibo; talk in cui si sbranano verbalmente onnivori, vegetariani e vegani, senza alcun punto di vista scientifico, ma solamente in virtù di estremizzazioni ideologiche e gettoni pagati dalle redazioni televisive; dibattiti in cui si disquisisce di alimentazione e agricoltura, in tra i cosiddetti esperti non c’è mai un contadino, ma solo politici, chef stellati a volte pure un po’ sputtanati, grossisti delle catene di ristorazione ingrassati da protettorati politici. Per non parlare poi di tutta la diffusa e seriale catena delle fiere, mostre, eventi delle tipicità locali, in chiave promozionale e turistica dei territori, che almeno un vantaggio, alla fine ce l’hanno: passare uno stipendio, pagato dalle amministrazioni pubbliche, a tutti quelli che, spesso altrimenti senza arte né parte, si inventano e vendono le manifestazioni e gestiscono consorzi, presìdi, enti, in cui tanti produttori seri ed agricoltori onesti, non solo abboccano, ma gli tocca pure pagarci per esserci, perché così “l’assessore mi vede e, forse, mi considera se c’ho bisogno d’una pratica veloce". E poi, ma solo per un accenno, perché  aprirebbe un mondo quando, sarebbe il caso, dovrebbe aprire solo qualche cella circondariale, l’attività venatoria; la caccia, che crea problemi seri all’agricoltura e al territorio, e alimenta opachi traffici di selvaggina, che dal paniere del cacciatore, finisce direttamente sul frigorifero del ristoratore, senza “passare dal via”, o meglio per le autorità sanitarie e di controllo competenti. In tutto questo che c’entra la democrazia? C’entra eccome, perché in queste giostre ci sono due soggetti, i soli legittimati, che non contano un cazzo: il contadino e il cittadino-consumatore; il primo che si spacca la schiena da prima dell’alba al tramonto e che, quando va bene, con la propria attività non ci rimette, se lo fa con etica e passione; il secondo, che l’importante è la lunghezza dello scontrino alla cassa del supermercato, a prescindere dalla monnezza che si porta sul piatto. Come si rimargina almeno, se non guarire, questa lesione di democrazia? Non ci sono soluzioni, o forse ce ne sono tante. Una sicuramente è ridurre la distanza tra contadino e cittadino, saltando tutto quello e quelli che ci sono in mezzo. E poi smetterla forse un po’ tutti con ‘sta storia dei piatti gourmet, e pensare che mangiare è una cosa seria per la salute e per l’ambiente e il paesaggio, e allora guardare alla salubrità del cibo anche nella sua semplicità di preparazione; imparare a prepararsi da soli alimenti spesso industriali (tipo il pane, è facilissimo e non sottrae tempo a chissà che cosa). E poi che in posto ci vai se ti stimola una passione ideale e culturale, senza porti prioritariamente il problema di qual è il piatto o il ristorante cosiddetto tipico, e chissenefrega se non c’è un museo aperto e nel centro storico scorrazzano le pantegane. E a proposito di democrazia, forse non è un caso che le sole e nuove lezioni di pratiche comunitarie e democratiche, ce le da proprio il Sud del Mondo, dove Capi di Stato, dopo anni di miseria delle persone e restrizione dei diritti individuali, sono diventati dei contadini? E’ lì che bisogna guardare, per costruire non più il cosiddetto nuovo modello di sviluppo, obiettivo ideale verso il quale fare giustificati gesti apotropaici, ma semplicemente un’idea di felicità condivisa.

martedì 1 marzo 2016

IL TURISMO PETALOSO

Premessa: non sono un esperto di turismo, né mi atteggio a tale, né è settore il mi interessa maggiormente Mi capita però spesso di trovarmi in contesti di varia natura in cui si disquisisce di turismo, di politiche del turismo, di riconversioni turistiche di territori che fino a qualche tempo prima hanno basato la propria economia e socialità su altri settori, e che la crisi ha in pochi anni smantellato. Questo accade in particolare quando la convegnistica del caso, o i tavoli pre-para-intra istituzionali, si interessano della cosiddetta Italia interna. La cosa che più mi colpisce è la poca conoscenza dei luoghi da parte di coloro che pensano e propongono nuove strategie culturali, sociali ed economiche; mi conforta, ma solo parzialmente, il fatto che diversi lo facciano gratis o a rimborso spese. In particolare il deficit più evidente è la mancanza del punto di vista di chi in quel territorio ci vive e lo conosce; non perché sia per forza quello migliore o giusto, anzi, spesso il contrario. Però è quello un osservatorio indispensabile, perché altrimenti il rischio è quello di costruire delle belle fiabe, dei format teorici dal fallimento scontato, e proporre delle pratiche che non tengono per nulla conto, ad esempio, delle contraddizioni spesso storicizzate che hanno segnato un territorio, e su cui chi aveva interessi particolari né ha tratto lauti vantaggi. Capita, come ho avuto modo di verificare, di definire semiabbandonato un borgo, quando al contrario è abitato da bambini, adulti e anziani. Capita di magnificare un sentiero che conduce in un eremo millenario, senza sapere che per arrivarci si deve attraversare una proprietà privata in cui è palesemente vietato l’accesso, e che si rischia di essere denunciati dal proprietario per violazione della proprietà privata. Capita di costruire eventi su temi naturalistici, senza sapere che si esporrà i fruitori alla possibilità di essere abbattuti dalle squadre di cacciatori di cinghiali, che sparano a tutto quel che si muove con carabine a gittata di 3 km. Capita di pensare di indirizzare famigliole in percorsi di trekking senza la consapevolezza che anziché udire i suoni della natura, si rischia di fargli spaccare i timpani e tremare le ginocchia dal boato di una mina di cava. Capita di promuovere la visita ad un sito museale e di stimolare a consumare le tipicità enogastronomiche a km zero, senza sapere che quei visitatori, appena scesi dalla macchina verranno molestati dai volantinatori dei ristoranti del luogo, che si contendono selvaggiamente qualche coperto in più con menù a meno di 10 € tutto compreso, in cui gli unici zero sono quelli della ricevuta fiscale.  E si potrebbe continuare a lungo. Per riconvertire un territorio ad una nuova economia, ed in particolare a quella turistica, forse il primo passo è sapere se gli umani che abitano quel territorio sono d’accordo, e se lo sono, magari coinvolgerli e conoscere per primo la visione di futuro di quelle persone. E pretendere, consapevoli che li si porrà il più delle volte di fronte ad un bivio, alla società organizzata e rappresentata (Istituzioni, categorie economiche e professionali, associazioni), di spendersi, ciascuno per propria funzione e competenza, per rimuovere alcuni conflitti che di fatto, anziché avvicinarli, allontanano i turisti. Ma forse, la vera strategia per riconvertire territori, specialmente nelle aree interne, non è quella di trasformarle in grandi “parchi giochi”, ma quella di creare nuova residenzialità, di offrire opportunità perché queste siano abitate tutto l’anno, che ci siano servizi alle varie età ed attività. Forse anziché di turisti, molti territori hanno semplicemente bisogno di abitanti. Un’impresa titanica rispetto alle capacità della politica e delle Istituzioni, che perseguono, nei territori interni, esclusivamente la strategia della fusione tra Comuni, riducendo solo pratiche democratiche e senza alcun miglioramento dei servizi; ma che in compenso coniano nomi per le nuove municipalità, rispetto alle quali il “petaloso” di un bambino, è già classificabile come un termine arcaico.