Ho scelto di condividere
la Festa della Liberazione con una piccola comunità dell’entroterra marchigiano
di meno di 5000 abitanti; la consuetudine avrebbe voluto che la trascorressi
nel capoluogo di Regione. In quella cittadina nelle settimane scorse si era
verificato un problema, definiamolo così: il Sindaco non voleva andare al di là
di un manifesto copia/incolla e di un mazzo di fiori portato da un usciere del
Comune, di buon mattino e senza cerimonia, al monumento dei caduti (anziché al
murales della Resistenza, scambiando volutamente il 25 aprile con il 4
novembre); ma soprattutto non voleva fare il 25 Aprile con l’ANPI. In quella
cittadina c’è un sindaco-imprenditore, a capo di una lista civica molto eterogenea.
Uno che pensa che “occupare” con il proprio conflitto di interessi l’Istituzione,
possa portare benefici ai cazzi propri; e di cazzi d’impresa, quell’imprenditore
ne ha tanti. Nelle settimane precedenti, l’ANPI di quel Comune non si è persa d’animo,
e si è messa ad organizzare una sua cerimonia del 25 aprile, chiamando
a raccolta quella società civile che non ritiene giusto stare “a bottega” dal sindaco-imprenditore
e che, soprattutto, non è ricattabile da quel potere politico. Cosa curiosa, a
rendere atipica quella dinamica locale, c’è la consuetudine da qualche anno che
la parrocchia del paese, con il beneplacito del vescovo ciellino-operaio, il 25
aprile fa le cresime, a prescindere se la festività cada di domenica o in un
altro giorno della settimana; che coincidenza singolare… Mi hanno raccontato
che, dopo che l’ANPI s’è data da fare, nella maggioranza politica che governa
il Comune, abbiano litigato parecchio, intravedendo, i più lucidi, lo sputtanamento.
Ma niente, il sindaco –imprenditore ha avuto la meglio; si è fatto come comanda
lui, solo manifesto e, sembra che questi addirittura ieri fosse in Cina. Non
per impegni istituzionali, ma per cercare qualche cinese che fosse possa essere
interessato alle sue aziende, che non se la passano proprio alla grande. Ho
letto il manifesto del 25 aprile del Comune ieri, arrivando in centro; non c’è
mai la parola “antifascismo” e “Resistenza”; solo un vago richiamo alla pace e
alla fratellanza universale. E al murales della Resistenza, in una fredda, anzi
freddissima e ventosa mattinata di primavera, che sta davanti la stazione
ferroviaria (chissà perché ad un certo punto m’è venuta in mente la stazione di
Bocca di Rosa…), ho trovato l’ANPI, le ragazze e i ragazzi del centro di
aggregazione giovanile, l’AVIS, i Carabinieri del paese in veste da cerimonia,
qualche coccinella e boy scout, alcune insegnanti dell’istituto comprensivo,
delegazioni dei sindacati e di alcuni partiti, e diversi cittadini. E abbiamo
condiviso una bella cerimonia del 25 aprile fai da te. Mi hanno raccontato nei
giorni scorsi che il sindaco-imprenditore, da tempo si sarebbe venduto la
storia, le radici e l’autonomia del Comune e della comunità, favorendo la
fusione della sua municipalità con quello confinante di trentamila abitanti, in
cambio di qualche salvacondotto per le sue imprese, ma non certo per i
lavoratori, ma solo per le sue saccocce. Il tutto con il beneplacito di livelli
istituzionali superiori e, teoricamente, politicamente avversi alla maggioranza
che regge il Comune. Di questo aspetto poco mi importa; trovo invece che quel
manipolo di cittadini, che andava dalle coccinelle al locale partito comunista
che più comunista non si può, che s’è ritrovato al freddo di fronte al murales
della Resistenza, rappresenti l’unica speranza per quella comunità, e il germe
di un nuovo fronte di democrazia comunitaria che ha il dovere di non
disperdersi. Da lì si può ripartire, dalla sperimentazione di una nuova pratica
di partecipazione, fra storie ed individualità differenti, fra pari, e che liberi a breve
quella comunità dal padrino di turno, e che riaffermi che storia, identità,
democrazia di un paese, non si vendono, né si svendono, con la puttanata delle
fusioni tra comuni, per gli affari di qualche sindaco-imprenditore pro tempore,
e neanche per le lusinghe della moda istituzionale di turno, portata porta a
porta da qualche commesso viaggiatore della politica del governo nazionale. Spero
che l’ANPI locale, insieme ad altri, sappia raccogliere questa eredità, non di
71 anni fa, ma di appena ventiquattr'ore fa.
martedì 26 aprile 2016
lunedì 18 aprile 2016
I REFERENDUM PICCINI PICCIO'
Domenica scorsa si sono
svolti, contestualmente al referendum nazionale sulle trivelle, due mini referendum
locali per far pronunciare le comunità locali sulla proposta di fusione del
proprio Comune con un Comune più grande limitrofo (tecnicamente definita
fusione per incorporazione). Due piccole comunità dell’entroterra marchigiano,
una con neanche mille abitanti, l’altra con poco più di duemila. Il primo dato
significativo è che la partecipazione al quesito referendario locale nei due
piccoli centri è stato sensibilmente più ampio della partecipazione la voto sul
referendum nazionale. Il secondo dato è che in entrambi i centri il NO alla
fusione per incorporazione ha visto una stragrande maggioranza dei consensi.
Quindi la maggioranza degli abitanti di quei piccoli Comuni non vuole essere fusa. Si dirà:
hanno prevalso resistenze ingiustificate, localismi e particolarismi; non è
bastata neanche la lusinga della seduzione economica per quei cittadini, due milioni
di euro per dieci anni di trasferimenti statali in più per il bilancio del neo Comune risultante dalla fusione. Forse è
il caso però, oltre che colpevolizzare gli istinti localistici e conservatori
di quelle persone, di fare anche una riflessione sul senso della oramai diffusa
strategia politica del principio amministrativo della fusione municipale.
Premesso che è vero che i Comuni, specialmente quelli più piccoli, stanno in
grande difficoltà economica ed organizzativa da anni. Non ci sono più risorse
sufficienti per garantire una normalità dei servizi erogati, non ci sono più
risorse umane disponibili per gestire il funzionamento della macchina
amministrativa. Ma è un problema magicamente spuntato da qualche tempo, o
invece magari è il frutto di un lento logoramento del valore delle Autonomie
Locali da parte di politiche statali, che hanno perseguito scientemente da anni
un’aggressione per primo al sistema democratico delle Istituzioni locali, ed
insieme alla loro capacità di operatività, fino a produrre il crack di una rete
di sussidiarietà orizzontale nei territori? Spesso in nome di parole d’ordine
qualunquiste e populiste, la casta, gli spechi, le inefficienze. Che negli anni
problemi di questo genere non se ne
siano verificati, sarebbe negare delle evidenze; ma da qui la generale
colpevolizzazione di tutto e tutti, ha prodotto solo l’indebolimento e lo
screditamento del livello istituzionale più prossimo ai cittadini, e di conseguenza
più riconosciuto. Che ha contribuito a screditare generalmente la politica. Una
politica incapace, nel suo insieme, di elaborare una vera riforma dell’ordinamento
statale a settan’anni dalla Costituzione repubblicana; che sapesse rivedere e
rimodulare i diversi livelli di governo in maniera equilibrata rispetto alle
condizioni della società, dell’economia, delle corporazioni, che non sono più
quelle di quando decenni fa venne disegnato il quadro istituzionale del Paese.
Ma che invece, al contrario, ha corso dietro in maniera disorganica al vento
delle stagioni: prima il problema avvertito dall’opinione pubblica erano le
Province, e quindi via le Province. Poi il bicameralismo e l’eccessivo numero
dei parlamentari (il numero, si badi bene, non il costo, che è rimasto pressoché
invariato), e quindi largo alla riforma della Costituzione di questi mesi. Ora,
da qualche tempo, il problema sono i Comuni che non ce la fanno più, e quindi
via alle fusioni. In tutto questo inalterato il livello regionale, che negli
anni ha assunto ruolo e proporzioni elefantiache. In tutto questo solo interventi
a spot ed una tantum, in cui non si intravede
nessun disegno organico di un nuovo modello statale. L’unico obiettivo finora
raggiunto è che si è solamente ridotto il livello di democrazia: le province ci
sono ma non si eleggono più direttamente i rappresentanti; il Senato ci sarà
ancora, ma di fatto sarà non elettivo e vi finiranno eletti già in altri
livelli, regioni e comuni, scelti dai partiti con il criterio della fedeltà; i
Comuni già da anni hanno visto tagliarsi il numero dei Consiglieri Comunali e
delle Giunte, che di fatto erano e sono dei volontari della politica. Ed ora l’assalto
finale da parte di classi dirigenti miopi ed ignoranti (per essere educati): la
fusione dei piccoli Comuni. Meno Sindaci, che nei piccoli Comuni sono un
presidio della democrazia, e chi lo fa il più delle volte anziché guadagnarci, come
si malpensa, ci rimette di proprio. E la creazione di neologismi nel chiamare
le nuove municipalità, che niente hanno a che vedere con storia, radici ed
identità locali. E lì davanti, sempre le sopracitate classi dirigenti, a brandire
la ricompensa: vi diamo più soldi. Come se la storia, le radici, l’identità di
una comunità si potessero comprare. Ben altra cosa sarebbe stimolare alla pratica di messa in comune di servizi e risorse umane tra comunità, senza andare ad indebolire ed annullare la rappresentanza democratica ed indentitaria. Tra l’altro alle scelte di fusione si arriva sempre con percorsi informativi,
partecipativi e di formazione del consenso,
senza alcuna pratica comunitaria, ma pensati ed imposti dall’alto da qualche
raìs di partito territoriale. E allora quando i cittadini possono esprimersi
liberamente e senza condizionamenti e ricatti, questi piccoli pretoriani di
partito di provincia li mandano a cagare. Come è successo nell’entroterra
marchigiano domenica, e come è auspicabile che succeda ancora. Perché gli
abitanti di una piccola comunità ci tengono ai propri valori, alle proprie
radici e, forse, anche alla democrazia molto di più di quello che si pensa. E le
piccole comunità, specie nelle aree interne, hanno bisogno dalla politica di ben
altre attenzioni che non sia qualche pugno di euro; hanno bisogno di scelte e
politiche nazionali che riguardano la qualità della vita, dei servizi, del
paesaggio, delle quali, al di là dei soliti slogan e gettonati convegni, non se ne
intravede alcuna concretezza. Hanno
bisogno di scelte d’amore da parte della politica. Di una visione e di una passione
che non c’è più. Ci sono solo ambizioni personali e tanti piccoli capetti, emuli
al ribasso del capo di turno più grande. E allora viva le piccole comunità e i
piccoli Comuni, presìdi di democrazia e di una moderna resistenza (con la r minuscola, sia ben chiaro) civile.
sabato 9 aprile 2016
LA BORGHESIA MASSONA
“A
Jesi c’è la borghesia massona”, così se ne esce un amico fabrianese durante una
scambio di opinioni in merito ad un progetto documentaristico sulle vicende
della realtà della Città della Carta degli ultimi anni, dal titolo “La fine
dell’illusione” (lo trovate in rete, www.lafinedellillusione.it). Un progetto
multimediale interessante, che fa lo sforzo di analizzare, soprattutto attraverso
testimonianze, ciò che è successo non solo nel tessuto economico della città,
ma anche in quello sociale e civile. Con alcuni limiti, a mio parere, dovuti
probabilmente, almeno immagino, all’esigenza di confezionare un prodotto che
avesse l’obiettivo di analizzare solamente alcuni aspetti predominanti. Due i
limiti principali: la narrazione testimoniale è circoscritta solo a rappresentanti,
passati ed attuali, delle Istituzioni e
della politica, e ai lavoratori del settore e dell’indotto manifatturiero
meccanico. Proprio per questo, lo spaccato che emerge della città è di
conseguenza parziale; manca il punto di vista degli imprenditori che sono stati
protagonisti per decenni della storia economica della città, i cosiddetti
padroni. Avranno qualcosa almeno da dire, se non a dover rendere conto, sullo
stato in cui si trova, oramai da quasi un decennio, la città? E manca una
fascia sociale, professionale e culturale, fondamentale di una comunità, la
cosiddetta borghesia. Forse perché una borghesia, come storicamente intesa, a
Fabriano non c’è mai stata. E mancano le donne; o meglio, c’è un’operaia
intervistata, ma il ritratto che emerge della figura femminile, è che a
Fabriano la donna è quasi esclusivamente intesa come sposa e madre. E invece,
per quello che conosco di quella realtà, ci sono storie ed esperienze femminili
significative, nel mondo delle professioni, della cultura e del sociale; ma la
storia di quella città preferisce raccontarsi la donna come la moglie e
casalinga, che mentre il marito produce, fa impresa e business, si ritrova
al caffè del centro con le amiche per il
the. E nella mia chiacchierata con l’amico fabrianese, ponevo a confronto una
storia che penso di conoscere un poco, quelle jesina, dove, pur anche lì con
limiti e problemi, c’è un tessuto cittadino che ha attraversato, tenendo, anche
anni difficili, grazie ad un equilibrio e ad un reciproco rispetto ed autonomia
di ruolo tra poteri e strati sociali. La politica ha fatto la politica, l’impresa
ha fatto l’impresa, la Chiesa ha fatto la Chiesa. Mai che a qualcuno fosse venuto
pensato di accentrare o mischiare ruoli e funzioni, o esercitare indebite ingerenze;
e quando a qualcuno è venuto in mente, il pensiero è sempre durato molto poco.
E questo anche perché negli anni, la città è riuscita a far vivere, crescere ed
interagire tra loro, una fiera e forte classe operaia, una borghesia laica e
cattolica, conservatrice e progressista, e storie ed esperienze imprenditoriali
eterogenee e plurali. Ed in cui anche le donne, hanno sempre avuto autonomia,
ruolo ed identità proprie, e mai riflesse. Questo ha significato per la città
negli anni, dialettica, confronto, scontro, contaminazione, competizione,
rispetto reciproco, e per questo vitalità e forza nell’attraversare le stagioni.
A Fabriano no. In quella realtà, quasi per un secolo, potere politico,
imprenditoriale, economico, sono diventati via via sempre più un unicum, con il beneplacito della sfera
ecclesiale. Questo, in tempi di vento in poppa, ha distribuito benessere per
tutti, per alcuni ricchezza consistente, per la stragrande maggioranza
tranquillità economica e sociale; ma quando la tempesta della crisi ha spazzato
via un modello economico basato sul capitale e sul profitto ad ogni costo, il
tappo è saltato, e le spese le ha fatte, e le sta facendo la maggioranza dei
cittadini. Ma soprattutto quella concentrazione di poteri diversi in un unico ed
esclusivo direttorio, negli anni ha prodotto distanze sociali, mancanza di
stratificazione sociale e dipendenza dal capo. E non ha consentito l’affermarsi
di un livello sociale e culturale fondamentale, che è quello intermedio, la
borghesia. Capace di svolgere, forte di una propria autonomia identitaria,
anche in alcune fasi il ruolo di una sorta di cuscinetto ammortizzatore tra
fasce sociali differenti. Che poi a Jesi, siano presenti storicamente diversi circoli
massonici, è un fatto. Ma non tutta la borghesia cittadina è massona, e non
tutti i massoni sono borghesi. E’ un semplicismo. C’è poi un altro protagonista
economico e sociale, anche in un contesto geomorfologico differente, che ha avuto tra le due realtà considerazione
diversa: il contadino. A Fabriano il metalmezzadro: l’agricoltura voce dell’impresa
e dell’economia di fatto hobbystica e dopolavoristica, ed il contadino
considerato culturalmente subalterno all’occupato nel manifatturiero. A Jesi, l’agricoltore,
figura di lavoratore e imprenditore con uno suo status definito e riconosciuto.
Allora ridurre, seppur in sincera amicizia, un confronto ed un’analisi complessi,
con l’espressione “lì c’è la borghesia massona”, come fosse il lessico di un
esorcismo su episodi demoniaci è, del
tutto in buona fede, indice della incapacità di ammettere che, in fondo, per
usare un’espressione calcistica “in zona Cesarini, si spera che quella che è
stata una grande illusione, possa, rabberciata e riverniciata, riprodursi
ancora. E che, quando il padrone, a cui si è delegata nel tempo molta della
propria potenziale autonomia, non c’è più, ci si sente solo disorientati e
orfani; e depressi. Ed incapaci di costruire, ancorché una nuova illusione, una
realtà di concrete opportunità in uno spirito comunitario e solidaristico.
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