“L'altezza mi mette paura, e il sangue e i terremoti; per il resto non temo nulla, tranne la morte, il pensiero di mettermi a urlare in mezzo alla folla, l’appendicite, e un attacco di cuore, già, anche questo; così me ne sto seduto nella mia stanza con l’orologio in mano e un dito premuto sulla giugulare, a contare i battiti ascoltando i misteriosi borbottii del mio stomaco. Per il resto, niente mi turba.” (Ask the dust, John Fante)
“Ask
the dust/Chiedi alla polvere” è la loro pagina facebook. Loro, sono un gruppo
di ragazze e ragazzi di Arquata del Tronto e dintorni, tutti con meno di
vent’anni. Quando li incontri hanno gli occhi luminosi anche se, in circa due
minuti, nella notte del 24 agosto, la polvere delle macerie ha ricoperto la
quotidianità. Sono stati i primi e sono i più giovani (e per questo saranno gli
unici che cito per non dimenticare qualcuno tra tanti), a sentire il bisogno,
di fronte ad una catastrofe come quella che da 6 mesi interessa l’Appennino di
quattro Regioni, di raccontare, di raccontarsi, di fare comunità ancora in
senso fisico e sulla rete, di mettersi a disposizione. Decine di comitati,
associazioni, incontri, iniziative, assemblee; tutto rafforzato ed amplificato
dai social, ma trascurato dai media tradizionali. E’ un fenomeno nuovo, il solo
positivo chiaramente, quello generato dalla forza della natura, ma che coinvolge
le persone e la società civile in maniera per certi versi imprevedibile. E che
non va confuso con lo straordinario manifestarsi di gesti di solidarietà e
filantropia che in questi mesi si stanno riversando sull’Appennino ferito dal
terremoto. Quello di cui parliamo è un fenomeno autoctono, radicato nei
territori. La gestione del post terremoto ad oggi è a dir poco complicata e
difficoltosa, e su questo qui mi fermo. Ma ci sono dati di fatto: intere
comunità “deportate” (come si definiscono loro) in alberghi e residence sulla
costa, che vedono allungarsi lì la propria permanenza; paesi e frazioni oramai
già prossimi al processo di fossilizzazione; persone che, nonostante tutto (e
tutti) resistono a vivere precariamente sull’Appennino con i loro animali e le
loro attività economiche, che sono la peculiarità non delocalizzabile di questi
territori. A questa situazione, che in parte è figlia del caso, ed in parte è
il prodotto perseguito di una vera e propria “Strategia dell’Abbandono”
(#strategiadellabbandono su facebook), in questi mesi si sta contrapponendo un
impensabile risveglio di civismo, di senso di comunità, di partecipazione
democratica, che attraversa l’Appennino colpito dal sisma. L’espressione più
evidente la troviamo sui social e sulla rete, ma questa è sempre la conseguenza
anche di una pratica fisica di persone, associazioni, movimenti, gruppi
impegnati in settori diversi della società, che si incontrano, discutono,
propongono, con una solo obiettivo: quello di non far spegnere i riflettori sul
terremoto e su quello che sta accadendo (o meglio su quello che non sta
accadendo) a loro e in quei luoghi. I limiti dell’intervento pubblico sono
parzialmente attutiti da questa società civile (che in diversi casi diventa per
fortuna anche sostitutiva), parte integrante della quotidianità delle montagne
che si autorganizza, mobilita, si informa e promuove, diventa soggetto attivo
interlocutore con le Istituzioni. Tutto questo trova narrazione sui social, in
un modo che è tutto fuorché nostalgico e retorico (la nostalgia del paesello o
la meraviglia di fronte al paesaggio), ma al contrario è progetto,
dimostrazione che la montagna significa casa, lavoro, servizi, economia, e che
l’obiettivo è quello di proseguire a far essere questo territorio ciò che storicamente
è sempre stato: un luogo di vita, la casa del Popolo dell’Appennino. Gli
archivi storici narrano che a Castelsantangelo sul Nera, dopo il rovinoso sisma
della Valnerina del 1703 (oltre 10.000 morti), gli abitanti sopravvissuti non
scapparono o migrarono lungo la costa, costretti dalle Autorità del tempo, ma
si misero subito a tagliar legna nei boschi per costruirsi delle casette
provvisorie in attesa di rimettere in piedi quelle in pietra e muratura. E
invece, la “strategia dell’abbandono”, ha tutto l’interesse perché l’Appennino,
complice una volta il terremoto, o altre calamità naturali, si spopoli e le
persone si distribuiscano altrove. Perché dare i servizi alle persone in
montagna costa di più, tocca spendere risorse per la salvaguardia e prevenzione
dell’assetto geomorfologico; e poi quando ci sarà da realizzare il nuovo
gasdotto Rete Adriatica (ed anche l’inceneritore a Castelraimondo) la gente
protesterà, i Sindaci si mobiliteranno, nasceranno comitati, con il rischio di
rallentamenti, pause, interruzioni (un po’ come per l’oleodotto nei territori
Sioux che ha fatto fare marcia indietro ad Obama e la farà fare alla fine anche
a Trump). Meglio l’Appennino spopolato, per farci affari ad alto e losco
impatto ambientale, tutt’al più con qualche villaggio vacanza; già molti
servizi essenziali sono stati concentrati da tempo sulla costa e in pianura, e
poi da quelle parti c’è tutta quell’edilizia residenziale e commerciale
invenduta che è rimasta “sul gozzo” ai costruttori e palazzinari, e pure a
qualche banca; se la gente la spostiamo suo malgrado lì, si rimette in circolo
pure quell’economia fallimentare… Invece tutto il variegato civismo che si è
generato a seguito del terremoto ribadisce il contrario: che l’Appennino è un
valore e la vita su quel territorio è strategico per il futuro dell’intero
Paese. Va colto come una spinta democratica, pur nella sua frammentarietà,
finché non troverà un suo filo di continuità e di unità. Rappresenta, nella sua
genuinità, un rilevante fatto politico. Dopotutto sull’Appennino italiano
vivono oltre 20 milioni di persone. Circa la metà dell’elettorato passivo ed
attivo del Paese. E’ prossimo forse il tempo che il Popolo dell’Appennino,
stanco di essere più o meno degnamente rappresentato da terzi, si farà
rappresentanza diretta, con nuove ed originali pratiche di democrazia
partecipata dal basso? Anche questa, è una domanda da rivolgere alla polvere;
non a quella americana dell’Est e del Middle West di John Fante, “da cui non cresce
nulla”, ma a quella che il vento sposta dalle macerie dei paesi terremotati
dell’Appennino; da cui è probabile ed auspicabile che possa crescere una nuova
idea di comunità e di democrazia.