giovedì 26 maggio 2022

AVE MARIA GUARANI'

Sono stato qui l’ultima volta tanti anni fa, da ragazzino. Mi ci portarono da Jesi i miei genitori. Ricordo anche che poi per diversi anni, causa crolli post sisma del 1997, l’accesso al Santuario fu interdetto per ragioni di sicurezza.

Se non fosse stato per il workshop di narrazione del paesaggio nel Parco Naturale Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, organizzato dall’Associazione “Bagatto Percorsi Creativi” con la “Scuola di Letteratura e Fotografia Jack London”, probabilmente non sarei venuto di nuovo qui per molto altro tempo.


Arrivando in macchina, prima della radura, mi colpisce la cura con cui è stato messo in sicurezza e valorizzato questo luogo: ripristinata la strada bianca, nuove transennature ecocompatibili, cartellonistica informativa, panche e tavoli per pic-nic. Con il sostegno dell’Unione Montana Esino-Frasassi e tanto generoso volontariato locale.


Sceso dalla macchina, faccio l’ultimo tratto a piedi dove si apre la radura. C’è già gente che è arrivata per la Messa, che si tiene all’aperto, sotto l’ingresso del Santuario, sfruttando un affioramento di roccia, apparecchiato ad altare. Il sacerdote sta preparandosi per la celebrazione assieme a dei laici; poi indossa i paramenti sacri, ed inizia la Messa, in un italiano ancora un po’ incerto. Ci sono tutte persone del posto, alcune già conosciute, abitanti delle piccole comunità che insistono su questo versante della montagna fabrianese.


A Messa da poco iniziata arrivano anche lo scrittore Angelo Ferracuti, fondatore della Scuola Jack London, il giovane fotografo Leonbattista Scacchettti (autore delle foto) e Laura Trappetti dell’Associazione Bagatto di Fabriano.


Il sacerdote, che è anche parroco delle frazioni di Precicchie e Poggio S. Romualdo, è un giovane missionario centroamericano, di El Salvador.


Mentre la Messa prosegue, osservando la scena nel suo insieme, naturalistico ed antropico, mi viene in mente uno dei tanti quadri scenografici del film Mission, il capolavoro di Roland Joffé del 1986, con Robert De Niro e Jeremy Irons.


“Stiamo in Mission all’incontrario”, penso tra me e me.


La Messa nel bosco appenninico, anziché nelle foresta pluviale vicino le Cascate dell’Iguazù; il prete evangelizzatore, anziché bianco e occidentale, è indigeno e centroamericano; i fedeli, abitanti dei villaggi locali, anziché indios della tribù Guaranì, sono bianchi ed occidentali; precisamente fabrianesi.


Una suggestione cinematografica, che oltre ad emozionarmi, la dice lunga sul processo di secolarizzazione oramai molto allo stadio avanzato, e sulle difficoltà della Chiesa Italiana di poter coprire i tanti territori delle Parrocchie, diffuse e radicate in tutto il Paese.
Alla fine della Messa, grazie alla signora Franca, che all’anagrafe di chiama Francesca Perini, appassionata volontaria locale della “Fraternità Missionaria di Cristo Crocefisso” di El Salvador, faccio conoscenza con il giovane parroco salvadoregno di queste frazioni, Padre Jorge detto Don Giorgio, e con il diacono dell’Honduras, Fredie, che lo affianca nel servizio pastorale nelle Parrocchie di questa parte della Diocesi fabrianese.


È l’occasione per conoscere con precisione questo prezioso progetto pastorale, avviato anni fa dal Vescovo di Fabriano Mons. Giancarlo Vecerriga, e proseguito dai sui successori, Mons. Giovanni Russo e l’attuale Mons. Francesco Massara, che lo sostiene con convinzione.


Un’esperienza che consente a questo territorio montano, nella crisi strutturale delle vocazioni sacerdotali, di avere delle parrocchie vive, le Chiese aperte, le comunità locali impegnate e motivate, oltre che spiritualmente, anche socialmente.
Franca ed altri volontari, sono impegnati da anni nel sostegno della missione in El Salvador, fondata dalla figura carismatica di Padre Abel Fernàndez, scomparso qualche anno fa, che in quella regione del Sud del mondo, rappresenta il solo presidio per le comunità native, di assistenza, educazione e legalità.


I volontari fabrianesi, raccolgono fondi, tramite anche iniziative di socialità, per il sostegno delle attività scolastiche in loco, e promuovono progetti di adozione a distanza di minori salvadoregni.


La Missione, ciclicamente, invia giovani ordinati a fare “pratica” pastorale e parrocchiale dalla periferia del Mondo, alla periferia montana di Fabriano. Rimangono un po’ di anni qui, e poi tornano alla loro terra di provenienza, per un servizio pastorale stabile.


Ricordo infatti di aver già conosciuto anni fa, i parroci latinoamericani di queste frazioni, che ora sono ripartiti; ma non immaginavo che la presenza di questi sacerdoti stranieri, facesse parte di un progetto strutturato così bello.


Lì, al Santuario della Madonna della Grotta, nella frazione Grotte di Fabriano, incastonato nel calcare massiccio, ricavato in seguito di quella che viene raccontata fu un’apparizione della Madonna ad un bambino del posto, Padre Jorge in questa stagione, la domenica celebra Messa alle 9, alle 11 e alle 18.


Fatevi una passeggiata in mezzo al bosco, lasciando la macchina all’incrocio tra San Giovanni e la strada per Precicchie, oppure salendo su per il sentiero escursionistico da Grotte, e partecipate alla Messa.


Anche se non siete credenti, o siete perplessi o dubbiosi, vi troverete coinvolti in un’esperienza molto potente. In questa radura Guaranì del fabrianese, si ha lo stimolo, come scrive il poeta Franco Arminio, di inginocchiarsi e pregare, anche se non si crede a nessuno.


* le foto sono di Leonbattista Scacchetti






giovedì 5 maggio 2022

CHIAMAMI ANCORA AMORE

E’ piovuto fino a pochi minuti fa. Le strade all’ingresso di Perugia sono ancora abbondantemente bagnate, ma è evidente che il tempo si sta rimettendo, e questo già fa guardare alla giornata con uno spirito diverso.

Attorno alla Stazione Centrale di Fontivegge, nel deserto della giornata festiva, si vedono persone con zainetti e bandiere della pace che, scese dal treno o lasciata la macchina in zona, si dirigono verso la fermata del MiniMetro, una delle infrastrutture degli anni più recenti, sempre in discussione riguardo la sua utilità.

Infatti, per affollare le navette dell’ovovia eugubina, di domenica mattina e al costo di 1.50 € a corsa, ci volevano giusto i partecipanti alla Marcia della Pace Perugia-Assisi, diretti verso il punto storico di partenza: i Giardini del Frontone.

Condivido la corsa nella navetta senza conducente con un paio di suore, un boyscout, una famiglia con passeggino, due ragazzine, una delle quali ad un certo punto, si accorge di non aver conservato il biglietto per uscire, e a cui passo il mio, una volta uscito, per poter superare il tornello; ma l’espediente non funziona, e tocca chiamare il sorvegliante per farle uscire, spiegando la distrazione avuta.

Loro, generazione Greta Thumberg, sono arrivate il giorno prima in treno da Asti per partecipare alla Marcia; al Frontone dovrebbero incontrare i loro conterranei che invece sono giunti in pullmann, viaggiando tutta la notte.

Ci salutiamo all’inizio di Borgo XX Giugno, loro vanno a cercare i loro amici, ed io comincio ad aggirarmi per osservare quello che potremmo definire “il popolo” della Marcia della Pace; e che sono le persone che poi fanno la straordinaria forza di questa esperienza.

Quelle che camminano per davvero; chi se l’ha fa tutta, chi si aggrega da Ponte S. Giovanni, chi arriva direttamente a Santa Maria degli Angeli e sale fino ad Assisi. Mentre ai Giardini del Frontone va in scena la cerimonia iniziale, con le Istituzioni, i molti politici giunti lì per la foto opportunity (anche marchigiani), ma che poi risalgono in macchina e te li ritrovi freschi come un fiore ad Assisi, mentre chi ha camminato arriva disfatto…

Intanto il popolo della marcia freme, e dei gruppuscoli avanguardisti sono partiti ancor prima dello striscione iniziale con gli organizzatori, e il furgone con la musica. Anche io, ad una certa, considerato che la partenza ufficiale ritardava, mi sono incamminato lungo la discesa in direzione Ponte S. Giovanni.

Lì gli abitanti ti aspettano affacciati dai balconi per salutarti, e al grande svincolo con l’E45 si incontrano quelli scesi da Perugia, con agli arrivati direttamente nella frazione perugina vicino al Tevere. E dove si trovano, anche casualmente, senza whatsApp preliminari, persone che non si vedono da tempo; come accade anche inaspettatamente a me, con due fratelli jesini, con i quali non ci si vedeva da anni, con cui proseguirò insieme fino ad Assisi, recuperando in chiacchiere lontani tempi giovanili perduti.

Camminando, la cosa che mi incuriosisce di più, è guardare un po’ le facce di questo popolo della Perugia – Assisi. Una Marcia storica, istituita 61 anni fa da Aldo Capitini, che non necessariamente si tiene tutti gli anni. Quella di domenica 24 aprile è un’edizione straordinaria e, degli ultimi anni, la più urgente e necessaria, perché risponde alla tragedia della guerra in corso in Ucraina a seguito dell’invasione di Putin, nel cuore dell’Europa.

Una guerra dalla quale, dopo i primi giorni, sembrano essere sparite dal linguaggio comunicativo quotidiano occidentale, le parole “tregua”, “negoziato”, “compromesso”, “Pace”.

Quella di domenica 24 Aprile, è indubbiamente l’Edizione che ha suscitato più polemiche, strumentalizzazioni, ed etichettature di carattere politico. In un’Italia in cui la politica, quasi tutta, sembra aver dismesso il buonsenso comune, dimenticato la Costituzione, ed indossato l’elmetto, snobbando perfino la voce accorata di Papa Francesco; il solo che domenica da Piazza San Pietro, abbia salutato e sostenuto i partecipanti della Perugia-Assisi.

E allora, già dopo i primi chilometri, ed esser stato superato dallo striscione ufficiale portato da ragazzini, ho avuto la percezione della distanza siderale che c’è tra la politica italiana ed europea, assieme al sistema informativo e della comunicazione, e le persone che da tutta Italia, dall’età del marsupio e del passeggino, fino a quella del centro sociale per gli anziani, domenica sono venute nel cuore dell’Umbria, per chiedere a quanti dovrebbero responsabilmente governarli, l’unica azione che da oltre sessanta giorni, al contrario, non intendono fare: “FERMATEVI!”.

Che è la parola-slogan di questa ed altre passate edizioni della Marcia.

Ma, nel dibattito quotidiano, chiunque chieda di fermare questa guerra, dalle ragioni straordinariamente molto complesse rispetto al semplicismo della narrazione informativa, viene ancor prima che passato per le armi, sottoposto ad una serie di etichettatture politiche, e tacciato di codardia, viltà, o di essere filo “questo” o filo “quell’altro”.

Mentre a guardare le facce pulite di quelle decine di migliaia di donne e uomini, che si sono incamminate tra Perugia e la Basilica di Assisi, l’unica etichetta che si poteva attribuirgli era quella di “persona”.

Uomini e donne di ogni età, impossibili da classificare forzosamente in una delle tante oramai necrotiche categorie politiche e culturali del Ventesimo Secolo.

Ecco, nel vedere i tanti ragazzini che “volavano” sui piedi, illuminati da un sole d’Aprile divenuto scottante, scavalcando tronconi di marcia, richiamati lì non da un capopartito o da un capobastone, ma solo dal loro diritto di un futuro senza armi e senza guerre, è evidente come sia drammaticamente pericoloso leggere, e pensare di risolvere, la tragedia che sta avvenendo in Ucraina (ma anche negli altri 48 conflitti in corso sparsi nel Pianeta), con le lenti, le parole e gli strumenti del Novecento.

Questa è la Prima Guerra Mondiale del Ventunesimo Secolo.

Ma ad occuparsene, ad averla scatenata, a spergiurare di volerla risolvere presto, c’è una classe dirigente mondiale del Secolo scorso.

Distante anni luce dai desideri di quei ragazzini che sfrecciavano per le strade umbre, e che reggevano quel tanto contestato striscione con scritto “FERMATEVI”.

Una delle canzoni che accompagnava il cammino dello striscione della Marcia della Pace, era “Chiamami ancora amore” di Roberto Vecchioni. Che ad un certo punto del testo, diventa come un’invocazione di preghiera:

 “in questo disperato sogno

tra il silenzio ed il tuono

difendi questa umanità

anche se restasse un solo uomo”

La preghiera laica di quei giovani, che chiedono di fermare la guerra; e che hanno diritto ad un futuro di Pace. Ma anche a delle classi dirigenti radicalmente diverse.

Perché quelle attuali, hanno la responsabilità imperdonabile di aver fatto sì che “(…) gli esseri umani vivono sotto l’ombra di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacchè le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico.(…)”. ( da Pacem in Terris, 1963)