La
strategia dell’abbandono risiede da sempre in molti paesi dell’Appennino. Sta
lì, silente e dormiente per lungo tempo, un po’ come le faglie nella crosta
terrestre. Poi, come il terremoto, all’improvviso ritorna a manifestarsi con
tutta la sua forza, arruolando proseliti, capi ed esecutori. Il terremoto è il
suo più grande complice. Nel tempo di quiete, la strategia dell’abbandono si alimenta di
cattiva edilizia, saccheggio del paesaggio, mancata prevenzione geomorfologica,
di patrimoni immobiliari lasciati all’incuria da eredi che neanche si ricordano
di essere proprietari di una casa della bisnonna; ma si alimenta anche di
amministratori locali che non hanno poteri di intervento efficaci e
sanzionatori verso quanti lasciano depauperare un patrimonio immobiliare, fino
al punto di renderlo pericoloso per tutti; si alimenta di politica locale sempliciotta, che pensa prima
ai turisti che agli abitanti e, di conseguenza, non è consapevole del fatto che sull’Appennino
i turisti ci sono se i paesi sono vivi, se chi ci abita è anche un animatore della
vita del proprio borgo, se ci sono servizi, se le strutture ricettive sono
sicure, se le due stanze che prendi in affitto per una settimana (e magari in
nero) non ti si accartocciano sopra di notte se arriva il terremoto. Altrimenti
perché venire qui, meglio il villaggio vacanze esotico o la nave crociera. Poi
ci sono quelli che resistono alla strategia dell’abbandono. Sono quelli che
sull’Appennino ci abitano, non perché condannati ad espiare qualche reato, ma perché
hanno scelto consapevolmente di farlo, perché qui trovano le ragioni di una,
seppur opposta al modello Briatore, idea di felicità. E allora ci sono bambini,
ci sono vecchi, cani, pecore, maiali, mucche e galline; ci sono imprese che
producono qualità esclusivamente per il fatto di essere lì, in quelle
condizioni ambientali ed altimetriche. Ci sono ragazze e ragazzi che investono
il proprio futuro qui, sull’Appennino, con competenze e conoscenze elevate. Tutto questo la strategia dell'abbandono vorrebbe delocalizzarlo, reinpiantandolo sulla costa o in qualche estesa pianura. E quando arriva il terremoto, la strada verso l'obiettivo, come si dice, è spianata. Perché
la battaglia alla strategia dell’abbandono abbia successo c’è però bisogno di
un nuovo civismo, di nuove pratiche democratiche e partecipative che promuovano, in chi ha scelto di vivere sull’Appennino, una diversa coscienza di attenzione e
valorizzazione del territorio, capace di superare anche difetti, qualche
cattiva abitudine incrostata, localismi e particolarismi di caseggiato, la
saccoccia come fine ultimo ed esclusivo di ogni iniziativa ed attività. La
sfida è riuscire a coltivare e far crescere una nuova idea di comunità e di
appartenenza, che tenga conto dei valori dell’identità e delle radici, ma che
sappia valorizzare anche quegli innesti che nel tempo si sono inseriti e che
vogliono essere parte insieme a tanti. Una necessità di riorganizzazione culturale e procedurale. Una nuova “lunga marcia”, insomma. Sull’Appennino
e per l’Appennino.