"Il lupo perde il pelo ma non il vizio". Mai, come in
questo caso, espressione popolare si rivela essere più efficace, per dare il
senso di ciò che sta accadendo nel 21° anno di vita del Parco. Il 21 novembre,
la III Commissione Consiliare in Regione, ha avviato l'iter sulla proposta di
legge, la 167/17, firmata dai Consiglieri Giancarli, Biancani, Giacinti e
Micucci (tutti del PD), ad oggetto: "Gestione del Parco Naturale della
Gola della Rossa e di Frasassi". Tre asciutti articoli, in cui si propone
di sottrarre la gestione istituzionale ed amministrativa del Parco all'Unione
Montana, per demandarla ad un non precisato organismo che deciderà la Giunta
Regionale. Per l'anniversario di istituzione del Parco, ci si aspettava ben
altro dai legislatori regionali, come ad esempio: la revisione della legge
istitutiva del '97, che superasse quei compromessi al ribasso della politica di
allora con i cavatori, i cacciatori ed altri soggetti economici ed
imprenditoriali, che portarono alla nascita di un'area protetta “zoppa”; un
ampliamento dei confini, valutando l'opportunità di una estensione di questi
fino alla zona della Riserva del Canfaito; l’attribuzione di risorse in più,
che potessero essere finalizzate alla tutela del territorio protetto. E invece,
niente di tutto questo. Al contrario, si propone una legge che toglie la
gestione del Parco agli Enti Locali e, conseguentemente, anche ad un maggior
controllo dei cittadini, ed un diretto contatto con le comunità, per
consegnarla nelle mani di un "organismo", emanazione fiduciaria della
Giunta Regionale. E ciò, non è un semplicistico artificio amministrativo, ma è
un’ulteriore lesione al valore della democrazia elettiva e rappresentativa.
Verrebbe spontaneo chiedere ai Consiglieri Regionali ("quattro",
sinistro ed eversivo numero, rievocativo del periodo post maoista), come mai solo
ora tale iniziativa, anziché negli anni precedenti, in cui alla guida della
Municipalità fabrianese e dell'Ente Montano, si sono avvicendati sempre amministratori
della stessa cultura politica dei legislatori regionali proponenti. I “bene
informati”, quelli del bar dello sport del paesello, luogo delle verità al pari
del confessionale, raccontano che verso la fine di settembre, i vertici del PD
territoriale e regionale si siano riuniti a Sassoferrato, per capire come far
fronte al fatto che, dopo più o meno vent'anni, seppur sotto sigle diverse,
alla guida dell'Unione Montana e del Parco, a seguito delle elezioni a
Fabriano, per la prima volta, ci fossero da giugno amministratori di una parte
politica molto avversa alla loro. Sempre in quel bar, tra un campari e un
frizzantino, gli stessi raccontano anche che, a seguito di quella riunione, si
siano fatte pressioni sul Sindaco di Sassoferrato, un galantuomo, perché si
dimettesse da neo Presidente dell’Unione Montana, facendo decadere tutte le
cariche. E, guarda il caso, la proposta di legge dei Consiglieri Regionali del
PD, viene depositata agli atti il 10 novembre e, con una celerità inusuale, il
22 è già in commissione. La scaltrezza politica di qualcuno, ha partorito la soluzione:
una legge che toglierà del tutto la gestione del Parco al territorio, per
ricondurla ad una discrezionalità di scelta politica regionale. La motivazione
ufficiale, riportata nella scheda allegata all'articolato legislativo è che,
siccome i Comuni di Genga ed Arcevia, pur stando territorialmente all'interno
del Parco, non fanno parte dell'Unione Montana, tanto vale allora
centralizzarne ad Ancona la gestione. Come se non fosse vero, che è proprio la criticata
modalità di gestione del Parco che, negli anni passati, ha indotto il Comune di
Genga a non entrare nell'Unione Montana a guida PD. E se fossi il Sindaco di
Genga, convocherei ora d’urgenza il Consiglio Comunale, per deliberare l’ingresso
nell’Unione Montana. Come se non fosse vero che il Comune di Arcevia, pur
essendo un attore importante dell'Area Interna pilota dell'Appennino
anconetano/pesarese, non abbia storicamente preferito guardare sempre verso la
valle del Misa ed il mare; tanto che è di qualche giorno fa l'annuncio che
Arcevia entrerà a far parte non dell'Unione Montana, ma della costituenda
Unione dei Comuni della Valle del Misa, Senigallia compresa. In tutto questo,
il Sindaco pentastellato di Fabriano, accortosi del trappolone, grida
giustamente allo scandalo e organizza la barricata. Ma sbaglia, almeno nel
linguaggio, nell’impostare la battaglia. In un post del 17 novembre, scrive:
"il PD vuole toglierci il controllo del Parco", lasciando intendere
un assalto alla sua parte politica. Con l'operazione congegnata da Giancarli e
dagli altri tre, per me, che dei giochini politici mi interessa assai poco (avendone
anche visti di migliori), non si toglie il Parco agli amministratori cinquestelle,
ma lo si toglie alla vicinanza e relazione con i cittadini e le comunità che
nel parco abitano e vivono; sottraendone la gestione basata sulla relazione
democratica eletto/elettore, per consegnarla ad una fiduciaria ed esclusiva,
priva di connessioni e relazioni con il territorio. In cui il criterio sarà la ricollocazione
di una qualche "riserva" della politica regionale o territoriale. Un
po' alla stregua della legge sui Parchi Nazionali, che ha recentemente
approvato il Parlamento. E se vuole vincere questa battaglia, il Sindaco di
Fabriano dovrà saper uscire dai confini della sua storia politica, e saper
includere tutte quelle esperienze, risorse e storie, a cui stanno a cuore il
rispetto delle pratiche democratiche e partecipative, la tutela dell'ambiente e
la valorizzazione del paesaggio. Senza timore che culture diverse, nel fare un
tratto di strada assieme, possano contaminare l'originalità della sua parte
politica. E se non sarà così, ma al contrario sarà uno scontro tutto politico
tra partiti, la battaglia sarà perduta. E si darà il privilegio a quattro
Consiglieri Regionali, che negli anni scorsi inveivano, da militanti politici,
contro le cosiddette leggi ad personam,
di fregiarsi di essere i primi ad aver proposto e fatto approvare, una vera e
propria legge contra personam.
giovedì 23 novembre 2017
sabato 11 novembre 2017
SPARA JURIJ SPARA SPERA JURIJ SPERA
Premessa necessaria: non
sono un animalista (nonostante il cognome che porto…), tantomeno vegetariano.
Penso che l’attività venatoria, la caccia, non abbia alcuna caratteristica per
essere ricondotta ad una pratica sportiva (non per niente, alle Olimpiadi,
nella disciplina del tiro a volo si spara a dischi di ceramica, e non a uccelli
o lepri). Considero la caccia una pratica antistorica, a partire dal momento in
cui l’uomo nel Neolitico ha inventato la pastorizia e l’allevamento. Il fatto poi
che una persona si svegli la mattina, per andare in mezzo ad un campo o ad un
bosco a sparare ad esseri viventi, è un comportamento che afferisce ai misteri
della psiche umana. Ricordo di aver conosciuto anni fa, uno che di giorno era
un impeccabile impiegato di banca ma, appena smarcato il badge e dismesse giacca e cravatta, si trasformava in bracconiere.
Così come, aumenta il mio senso di insicurezza, la consapevolezza che in migliaia
di abitazioni civili siano conservate armi da fuoco funzionanti. Ho avuto a che
fare con la gestione amministrativa dell’esercizio dell’attività venatoria,
durante l’esperienza elettiva fatta in Consiglio Provinciale. E si, perché
prima della riforma Del Rio del sistema delle Province italiane, che ha
lasciato tutte le Province, ma soppresso la democrazia elettiva e
rappresentativa diretta delle stesse, e ridotto diverse funzioni per passarle
alle Regioni o ai Comuni, la caccia era una delle attività amministrative più
importanti e strategiche di una Provincia. Ed anche, di conseguenza, la delega
Assessorile alla Caccia e Pesca, era una delle più ambite dalla politica e dai
partiti. Chiara anche la ragione: tramite quell’Assessorato si veniva a
contatto con una grande realtà organizzata come quella dei cacciatori e delle
associazioni venatorie; e quindi, potenzialmente, un notevole bacino di voti.
E, spendendo molte ore di quell’impegno consiliare, ad occuparmi obtorto collo di caccia, ho avuto,
qualora ce ne fosse stato bisogno, conferma del perché ancora venga consentita
nel XXI secolo l’attività venatoria: è un enorme business, ed è funzionale alla costruzione del consenso politico,
almeno in Italia. Niente quindi a che vedere con tutte le giustificazioni che
nel corso degli anni ci sono state costruite intorno, comprese quelle di
carattere ambientale e paesaggistico. Ed in particolare, credo sia
immaginabile, come la caccia al cinghiale, che dal bosco finisce sulla filiera
commerciale della ristorazione, rappresenti un segmento significativo del più
generale business legato all’attività
venatoria. Attività economica della ristorazione che, qualora il cinghiale non
venisse più sparato, non ne avrebbe alcuna penalizzazione, perché è possibile
allevarlo rispettando precise norme, tanto che ci sono allevamenti di cinghiale
gestiti da imprese private, debitamente autorizzati. E’ indubbio comunque, che
negli ultimi anni nel nostro territorio, ma non solo, il numero della presenza
del cinghiale è aumentato e di molto. Ma non è giustificabile, considerata
l’intensità dell’attività venatoria, con la forte prolificità della specie, e
con la sua attitudine a spostarsi per parecchi chilometri. Tanto da arrivare,
come accade a Fabriano, anche a ridosso o dentro i centri urbani. E se arrivano
in città, non è perché i cinghiali hanno Google Map, ma perché negli anni, un’esagerata
e scellerata antropizzazione ed urbanizzazione della montagna, ha spezzato
quelle filiere biologiche, che avevano sempre consentito una regolarità di
selezione tra specie e di approvvigionamento alimentare. Facciamo un esempio
paradossale: i cantieri della Quadrilatero, per il raddoppio della ss 76, di
forte impatto naturalistico ed elevato consumo di suolo, quanta selvaggina
hanno costretto a migrare e spostarsi verso altre zone “più sicure e protette”?
C’è l’aspetto, serio, dei danni degli ungulati arrecati alle colture; sarebbe
sicuramente più efficace e riparatorio, che l’indennizzo economico venga
corrisposto dalle amministrazioni competenti in tempi brevi, anziché anche anni
dopo; unitamente al pensare ad incentivi per la messa in sicurezza delle
colture stesse. Comunque, gli unici danni non risarciti, sono quelli che fanno
nei fondi privati i cacciatori, unica categoria che il codice civile dispensa
dall’intromissione nella proprietà privata altrui. Sarebbe naturale pensare che,
considerato l’incremento ed estensione temporale dell’attività venatoria, e di
abbattimenti selettivi durante l’anno, di cinghiali ce ne dovrebbero essere
sempre meno. Ma invece ce ne sono di più. Però è anche vero che se, per
assurdo, il numero dei cinghiali dovesse essere ridotto ai minimi termini, ne
avrebbe penalizzazione da una parte il giro dell’attività venatoria, e
dall’altra, anche quello della filiera commerciale ed economica. E quindi, non
è malizioso pensare, che più cinghiali ci sono e meglio è… E che cinghiali! Se
pensate che la specie autoctona dell’Appennino centrale ha capi adulti in media
con pesi non superiori al quintale, si può pensare che se vengono osservati e
abbattuti capi anche tendenti ad un peso doppio, qualche mescolamento genetico
è avvenuto o potrebbe essere stato provocato…
Curiosa, in tal senso, è la situazione della zona del Monte Conero, dove
anche lì i cinghiali proliferano e scorrazzano, che è un territorio dove
storicamente il cinghiale non è mai stata una specie autoctona presente… Chi si
occupa della caccia al cinghiale? I cacciatori, che la fanno tradizionalmente,
nei periodi previsti dal calendario venatorio, in squadre composte fino a venti
unità (moltiplicate per i voti potenziali…). Fatevi una passeggiata, ad esempio,
nei giorni di caccia previsti dal calendario venatorio, per il territorio
fabrianese tra Poggio S. Romualdo e Serra S. Quirico, ed assisterete a scene
tipo commando alla Rambo, che si aggirano per boschi e intorno ai piccoli
centri abitati; nonostante le battute di caccia siano segnalate con appositi
cartelli, valutate se ve la sentite in tutta tranquillità di farvi una
passeggiata a piedi o in bicicletta, o inoltrarvi nella macchia a cercare
qualche fungo… (una carabina da cinghiale, se il proiettile non incontra
ostacoli, può avere una gittata fino anche a 4000 m.) Oppure, sono titolari
della caccia di selezione al cinghiale, gli Agenti Venatori ed i
selecontrollori, singoli cacciatori abilitati e gestiti all’interno di piani di
abbattimento controllato, che vengono predisposti dalle Autorità competenti.
Tutto questo “circo” sopra descritto, è mio convincimento che per ragioni
politiche ed economiche, avendo necessità di perpetuarsi e riprodursi
(contestualmente ai cinghiali), nonostante i proclami, gli intendimenti, non
porterà mai a rimettere a normalità biologica il sistema. Come fare allora?
Bisogna sperimentare, e sottrarre gli interessi politici (adesso trasferitisi
dalle Province alle Regioni) ed economici alla questione. Da una parte restringere
il più possibile la caccia al cinghiale all’interno del calendario venatorio e
non fare occupare i cacciatori dell’attività di selezione, riservandola
esclusivamente ai singoli selecontrollori e agli Agenti venatori, con un
rigoroso controllo. E dall’altra, come avviene in diversi Paesi europei e in
qualche Regione italiana, praticare più che l’esercizio della carabina, quello
dei farmaci anticoncezionali somministrati negli alimentatori posti nei boschi
o nei fondi. Tra l’altro di ciò, ne beneficerebbe indirettamente anche la
specie umana: dall’inizio di settembre di quest’anno ad oggi, in Italia ci sono
state già 12 vittime e 20 feriti per incidenti di caccia. Facile, si direbbe.
No, perché così, il legame innaturale caccia-consenso politico, verrebbe anch’esso
sterilizzato…
lunedì 6 novembre 2017
DIETRO LA FACCIA DELLE PERSONE
L'orario, domenica mattina presto,
l'età tra i 50 e i 60, lo zainetto minimale di nylon e il sacco a pelo
arrotolato inducevano che, a prima vista, lo classificassi come un vagabondo.
Poi, più da vicino, sulla piattaforma prospiciente il binario, osservo
l'abbigliamento firmato e penso anche che un vagabondo, forse, un Frecciabianca
non può permetterselo. Sarà uno di quelli che fanno i Cammini, penso, le
caratteristiche a guardarlo bene ci sono tutte. Caso vuole poi che me lo
ritrovo nella stessa carrozza, dall'altra parte del corridoio, stesso ordine di
posti. Mi metto a leggere il giornale, lui tira fuori lo smartphone, non
recentissimo, e chiama. Alla stazione successiva, sale un altro, anche lui borsone
vecchio stile tipo palestra, e sacco a pelo. Anche questo oltre i 50.Si
conoscono, era questo il tizio a cui aveva telefonato l'altro prima. Si siedono
accanto. Parlano di quando saliranno altri che conoscono, di in punto di
ritrovo all'arrivo del treno. Parlano di "cambi" che hanno dietro, di
viveri, di quanti giorni staranno via. Si, si, mi dico, sono di quelli che
fanno i Cammini, tipo la Francigena e l'Appia Antica; dopotutto adesso vanno
molto, ieri a Roma hanno presentato al Ministero l' "Atlante dei Cammini".
Un giorno lo farò anch'io un Cammino vero, anziché le passeggiate col cane sui
monti sopra casa e lungo la Gola della Rossa. Mi rimetto a leggere, per poi
passare ai social sullo smartphone. Davanti loro un ragazzo. Il viaggio
prosegue. Ad un certo punto comincio a capire che i due hanno fatto conoscenza
con il terzo davanti a loro. Parlottano, si fanno domande reciproche, dove vai,
che fai, di dove sei...il classico della chiacchiera da treno. Però ad un certo
punto c'è qualcosa, dalle parole che ascolto, dai nomi, che mi fanno capire che
i due non sono dei camminatori. Si parla di politica, di economia, di banche,
di termini nuovi e di nomi che non ho mai sentito; eppure, penso, un po' di
quel mondo me ne intendo... Non resisto, dallo smartphone, metto un po' di nomi
ed espressioni che ho sentito su Google, e mi esce una situazione
inimmaginabile, che mi classifica i due viaggiatori con sacco a pelo. Sono due
esponenti del movimento dei forconi e combattono contro "il
signoraggio". Vanno a Roma, dove da oggi è previsto un presidio permanente
del movimento (forse Montecitorio?), che prevede l'attendamento e che potrebbe
durare diversi giorni. E dalle chiacchiere, capisco che i due sono parte di una
rete di militanza organizzata, capillare, in cui si conoscono tutti come in
setta. Fanno discorsi pacifici, confusi e qualunquisti, come fa una
moltitudine di cittadini delusa e stanca della politica e delle Istituzioni. I
due, ho capito, hanno una famiglia, un lavoro, i problemi e le aspettative che
hanno tanti. Però hanno questa sorte di "doppia vita", uno sliding doors civile e sociale. E mi
chiedo, anche un po' turbato, a quale livello sia arrivata l'asticella della
politica e del senso dello Stato, e di come si sentano e vivano milioni di
persone se, come si dice, "due padri di famiglia", vanno a dormire in
tenda in una piazza di Roma, in quanto seguaci di un generale sputtanato, un aspirante
golpista che non troverebbe posto neanche sui fumetti delle Sorelle Giussani.
Che di mattina si erge ad antisistema e a pranzo siede al ristorante del
Senato... Ma, nel mentre ascolto i loro discorsi e rifletto, sullo smarphone
l'occhio mi cade su un passaggio di un'intervista rilasciata da un neo eletto
segretario provinciale del piddì, che afferma "Noi come Pd siamo una
realtà concreta fatta di numeri nomi e cognomi non di idee”. Ecco,
appunto.
venerdì 3 novembre 2017
IN NOME DEL PAPA (e del) RE
Ed ecco che all'improvviso, inaspettato, non cercato, arriva, come
nel basket, il gancio-cielo alla Kareem Abdul Jabbar, che ti meraviglia, e
rende chiara la differenza tra realtà e mito. Qualche giorno fa, amico su
Facebook, ma anche nella realtà, pubblica la foto di un documento d'archivio di
Jesi del 1826. La cui lettura accende la scintilla e, per la prima volta, pensi
al finora inimmaginabile: esiste una ragione, fondata storicamente, che lega la
tua città natale e di vita per oltre 40 anni, Jesi, al paesello sull’Appennino,
dove sei venuto a vivere da qualche anno, Genga. Finalmente trova pacificazione
la dura scelta di essere emigrato di ben 28 km. Dando la giusta soddisfazione a quei due cicloamatori jesini che, qualche settimana fa, incrociandomi lungo la storica Clementina mentre passeggiavo con il cane, ho sentiti, una volta superatomi, dire uno all'altro: "Oh, hai visto quello chi è, è di Jesi, adesso s'è ritirato quassù...". Jesi, nell'anno domini 1826, si
chiamava Regia Città di Jesi, c’era lo Stato Pontificio, e si stava sotto il
dominio e pontificato di Leone XXII; ovvero Annibale Francesco Clemente
Melchiorre Girolamo Nicola della Genga. Si, si dirà, ma adesso stiamo nel
2017... E mica tanto, perché da qualche giorno nella repubblicana, democratica
e antifascista città di Jesi (così recita lo Statuto Comunale, quello della
legge 142/90, non quello del XIII secolo), il Consiglio Comunale, ha approvato
un atto in cui si stabilisce di avviare tutte le procedure volte a
riappropriarsi del titolo di Regia Città, o Città Regia. Si motiva tale ambizioso
obiettivo, in funzione di farne volano seducente nella promozione turistica e
culturale della città, in cui nel 1194 nacque Federico II di Svevia, lo "Stupor Mundi". Il quale Federico,
narra la leggenda, ma non conferma la storiografia ufficiale, ad un certo
punto, in segno di riconoscenza per la natalità, avrebbe concesso a Jesi il
titolo, o privilegio, di Città Regia. Ma siccome stiamo appunto alla leggenda,
come per la verità, anche per la prima bisogna raccontarla tutta, e non solo un
pezzo. E l'altra metà della leggenda, narra che Federico II, pose le autorità
jesine e il popolo del tempo di fronte ad una scelta: o fregiarsi del titolo di
Città Regia, o beneficiare di un grande gesto di mecenatismo, consistente nella
realizzazione di una grande opera pubblica dell'epoca: rendere il fiume Esino
un corso d'acqua navigabile da Jesi fino al mare e al porto d'Ancona, per
sviluppare il commercio e l'economia di allora; e fare della città una
metropoli del tempo. E gli jesini, posti di fronte alla scelta, un po'
narcisisti ed egocentrici, rinunciarono all'infrastruttura e scelsero il titolo
di Città Regia. A tal proposito, ricordo che anni fa, un imprenditore jesino,
oggi main sponsor della
riappropriazione della denominazione di Regia Città, mi disse che, a suo
giudizio, gli jesini dell'epoca erano stati proprio stronzi a rinunciare al
fiume navigabile per un titolo su un pezzo di carta... Di una scelta politica
dell'oggi di questa natura, il primo sicuramente a sganasciarsi dalle risate
sarebbe proprio Federico II... Come se Jesi, avesse bisogno per promuoversi dal
punto di vista culturale e turistico, di un titolo sepolto non solo dentro il
Pantheon, ma dal Referendum popolare del 1946. Ma, una classe dirigente a corto
d'idee ed idealmente un po' nostalgica, s'attacca a tutto... La cosa seria, è
poi però che, a forza di nostalgie e superficialità, in piazza a Jesi, ti ci
ritrovi, come già accade, anziché frotte di turisti trasportati dal nuovo brand “Royal City of Jesi”, i neofascisti di Forza Nuova. Ma veniamo al
nostro Leone della Genga, di cui la storia narra che, come Pontefice, non fu
proprio un pastore di anime e uomo di Dio illuminato, ma anzi il contrario.
Anche lui, qui nel paesello, è considerato un mito, e un forte promoter del genius loci contemporaneo,
e di una vocazione culturale del territorio. Recentemente, gli hanno dedicato
anche una fusione bronzea, opera di un artista del territorio, di cui si dice
essere anch'egli un poco nostalgico "di quando c'era Lui...". Posizionata,
non in una piazza o nel castello del borgo, ma in mezzo alla Gola di Frasassi,
dove contrasta fortemente con i terrazzi stratigrafici dei calcari giurassici
intorno. Qui, nel territorio dove sono state spremute a dovere per quarant'anni
le Grotte di Frasassi, ma senza aver costruito alcun progetto duraturo di
ospitalità, che andasse oltre le due ore di visita alle cavità. Qui, dove per
decenni sono stati sacrificati il paesaggio e la bellezza, non al Regno di Dio, ma al regno familistico
(oramai decaduto) novecentesco delle lavatrici e scaldabagni, e ai potentati
dei cavatori, ed ultima la Quadrilatero (guarda caso nata dal genio imprenditoriale di uno jesino). Qui, si pensa, nel XXI secolo, che la
valorizzazione del territorio non debba passare per politiche di recupero e
nuova residenzialità degli abitati di 37 frazioni, e dell'ambiente (considerato
che c'è un Parco Regionale), ma per l'immagine di un Papa che non ha lasciato
tracce per primo nella storia della Chiesa. Visto che oramai la statua c'è, e a
suo modo rappresenta un patrimonio artistico, io opterei per una sua ricollocazione
al centro della mega area cementificata dello svincolo della Quadrilatero
Valtreara-Gattuccio, pensato non per il raddoppio della statale 76, ma forse
per l'ingresso in una megalopoli americana, visto il consumo di suolo, dove il
bronzo farebbe più pendant con il
calcestruzzo. Oltre che a fungere da utilissimo monolite apotropaico per gli
automobilisti. Tutto questo, tra un'interpretazione caricaturale di un
Imperatore e di un Papa, per prendere atto di come le modeste classi dirigenti
attuali (ma non solo quelle politiche), non abbiano una benché minima visione di
futuro per le loro comunità e per il territorio, ma abbiano solo lo sguardo
puntato a corto sulle cabine elettorali. Facendo così perdere opportunità ai
cittadini, e potenzialità di costruzione di un modello economico, prendendosi
cura del territorio e dei centri storici, capace di riparare i guai dei decenni
più recenti, favorendo una più giusta ed etica rete di relazioni sociali. In
fondo, tra Jesi e Genga, a testimoniarci quotidianamente che siamo ancora al
1826 del famigerato documento d'archivio, c'è la ferrovia, che in qualità e
tipologia del servizio, è rimasta ferma all'Ottocento. E, ad appiccicarci sopra
delle infrastrutture storico-culturali, temporali e spirituali, si corre solo
il rischio di essere ridicoli. E di perdere di vista il treno giusto e i bisogni reali delle comunità.
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