«Prima le fabbriche, poi le case e poi le
chiese.» ebbe a dire l’arcivescovo di Udine, Mons. Alfredo Battisti, pochi
giorni dopo quel 6 maggio 1976, di cui ieri sono ricorsi 43 anni. Ed in effetti,
quella saggezza di guida popolare e religiosa, portò in Friuli ad una ricostruzione che
ancor oggi rappresenta un esempio di serietà ed efficienza, e che allora in
dieci anni portò a rifare da capo interi paesi.
Altrettanto non può dirsi per quanto riguarda
il terremoto cosiddetto Centro Italia, rispetto al quale di anni ne sono
passati quasi tre. E non tanto perché in questi territori non ci siano Pastori
della Chiesa saggi e lungimiranti.
In realtà, nello specifico marchigiano, il fenomeno più grave e sciagurato, mi si passi con comprensione e benevolenza la provocazione da quanti vivono questo dramma post sismico sulla pelle, è il permanente fenomeno del “terremoto dopo il terremoto”.
In realtà, nello specifico marchigiano, il fenomeno più grave e sciagurato, mi si passi con comprensione e benevolenza la provocazione da quanti vivono questo dramma post sismico sulla pelle, è il permanente fenomeno del “terremoto dopo il terremoto”.
Ovvero, dopo la catastrofe naturale che dal
punto di vista geofisico ad un certo punto si esaurisce, quella di una visione del futuro di questi
territori del tutto sbagliata. Frutto per primo di un’eccitazione della
politica, che lega oramai la sua esistenza esclusivamente al consenso
immediato e all'autoperpetuazione.
La crisi economica e finanziaria del primo
decennio del nuovo secolo, aveva già messo in discussione il cosiddetto
“modello marchigiano”, specie nelle aree interne. Già prima dei sismi del 2016
e del 2017, le diverse classi dirigenti annaspavano alla ricerca di un nuovo
modello di sviluppo economico, ed annusando alcune dinamiche toscane e umbre,
avevano già intrapreso azioni tese ad investire fortemente su una nuova, almeno per queste terre, industria, quella del turismo. Considerandola una sorta di nuova lotteria
vincente, sulla quale puntare tutto.
Pensandola, ed è qui l’errore, non come
economia complementare ad altri settori, ma del tutto sostitutiva dei comparti economici che per decenni avevano fatto la ricchezza delle Marche, ma implosi
con la crisi.
Tutto questo ha assunto, dopo il 2016,
strategia assoluta e dominante. Che ha sedotto tutti, politici, imprenditori,
pezzi di società civile. Con investimenti stratosferici di denaro pubblico dal punto di vista
economico, e il più delle volte grotteschi sotto il profilo realizzativo, oltreché
divisivi nell’opinione pubblica.
Alimentando ancora la frustrazione, la
disperazione, la rassegnazione e l’indignazione delle popolazioni dei territori
colpiti.
Sbagli su sbagli, che potrebbero avere
conseguenze serie e di lungo periodo, generati proprio nel pensare che
l’economia delle aree interne marchigiane possa davvero sostenersi ed
alimentarsi esclusivamente con il turismo. Di qualunque tipologia: di massa,
lento, esperienziale, responsabile, etc etc.
La convinzione, che possa essere l’economia
turistica, a tenere le persone nei territori, a rimanere o tornarci. Anziché il
lavoro generato dalla “fabbrica”, intendendo questa espressione in senso estensivo e non tradizionale.
Ma l’industria del turismo ha una
caratteristica del tutto specifica: che non gli serve una comunità, degli
abitanti, un paese. Gli bastano semplicemente dipendenti e clienti, ed
infrastrutture per far muovere velocemente le persone, insieme a contenitori dove farle
consumare e spendere in poche ore, per poi rispedirle a casa.
Faccio un banale esempio, per conoscenza
diretta. Vivo a Genga, il paese delle Grotte di Frasassi, una delle eccellenze
del turismo nazionale. Duecentocinquantamila visitatori in media l’anno.
Millesettecento abitanti il paese. Di questi, a occhio e croce, con l’attività
turistica, diretta o indiretta, ci portano a casa uno stipendio mensile circa
400 persone, a tenersi larghi. E gli altri milletrecento abitanti? Se non ci
fossero altri lavori a tenerli qui, o una qualità di servizi alla persona che
giustifichi la residenza, perché dovrebbero vivere in questo posto? Tanto è
vero, che storicamente anche qui dal Novecento, il lavoro prevalente è stato, ed è tutt'oggi, ben altro dal turismo. Se l’idea è quella che rimane sul posto solo chi vive di turismo,
Genga avrebbe 400 abitanti. E neanche tanto, perché si può fare la guida
turistica, il cameriere, il bancarellaro, come pendolari da un altro territorio o città.
Quell’arcivescovo friulano, tanti anni fa,
nell’anteporre la priorità alle fabbriche, e cioè al lavoro radicato e residente,
aveva chiaro in mente, che quello era il modo concreto per non far disperdere e
frantumare le comunità, ma al contrario farle rimanere, seppur subito a ridosso del terremoto anche
molto precariamente, coese e sul posto.
E allora credo che la visione che manchi, sia
dovuta anche solo semplicemente all’ignoranza. Ci sono già nelle aree interne
Regione, imprese innovative, legate alla manifattura ecologica ed ambientale,
ai saperi e alla conoscenza, che hanno successo, internazionalizzazione e
fatturato, proprio per il fatto che stanno in un paesaggio ed in un ambiente
con determinate caratteristiche di qualità. Una fortuna che non avrebbero
parimenti, se fossero localizzate in una fascia metropolitana, o in una
desolata area industriale ed artigianale tradizionale. Questo ad ammissione per
primo degli stessi imprenditori. Imprese fatte crescere da marchigiani, e che danno
lavoro a marchigiani. In questo, seppur espressione di un modello novecentesco di fabbrica e di lavoro, ha ragione Diego Della Valle, che animato anche da un sentimento di solidarietà, ad Arquata del Tronto in qualche mese c'ha impiantato un nuovo stabilimento della Tod's. Altro che neo-colonizzatori di note multinazionali, introdotti da faccendieri locali, che con
rapacità si stanno radicando sui territori colpiti dal terremoto.
Invertire la rotta, significa rimettere in
ordine alcuni concetti e valori. Ritornare per primo a considerare il turismo come una
preziosa opportunità economica, ma complementare, e favorire l’insediamento e
la crescita di nuove “fabbriche” di alta qualità, integrate nel paesaggio e
rispettose dell’ambiente. Così, avrà allora certezza, oltreché senso,
ricostruire i paesi.
Altrimenti, davvero, mi si passi di nuovo la
provocazione finale, meglio far spopolare definitivamente tutto, e consegnare
la chiavi di questa parte dell’Appennino, all’amministratore delegato di questo
potenziale parco divertimenti e outlet all’aria aperta.