Il barbaro assassinio di
Emmanuel a Fermo, non è sufficiente che possa essere riconosciuto come un gesto
fascista, fatto da un fascista. Per molti, fascista, è una parola quasi
impronunciabile, che non sta bene usare nel XXI secolo, e quindi meglio
razzista, estremista di destra, o la molto più soft ultrà. Ed è quindi comprensibile
e condivisibile, che anche molti si incazzino e pretendano che quel gesto e
quell’omicida vengano appellati con la parola più propria, fascismo. Ma non può
esaurirsi e finire qui. Quell’omicidio apre questioni e problematiche più
profonde, che interpellano una regione e che esigono che, almeno, questa
tragedia possa rappresentare l’opportunità, non rinviabile, per una terra di un
milione e mezzo di abitanti, per fare un tagliando. Un tagliando al livello del
suo sentimento democratico, che coinvolga i singoli, la società organizzata, le
classi dirigenti, la politica e le istituzioni. L’omicidio di Emmanuel ci dice
che abbiamo superato il livello di guardia, tutti e tutto. Il fatto che uno
spacchi il cranio ad una persona perché considerato diverso, ha alle spalle tutta una filiera di valori, di sentimenti,
di comportamenti, consapevoli ed inconsapevoli, propri di una comunità, che non solo
negli anni si sono indeboliti, ma addirittura incrinati. E' il fatto che uno,
al di là del suo istintuale tasso di aggressività e di cultura, arrivi a
considerare normale, comprensibile e giustificabile, considerare l’altra
persona, per provenienza e per etnia, una scimmia. E se questo avviene,
significa che quell’omicida ha una certa consapevolezza che, nel considerare un africano una scimmia, possa essere nel pensiero comune della gente che ha
intorno, un atteggiamento se non del tutto legittimabile, quantomeno sopportabile. E allora che
cosa è diventata negli anni la società marchigiana, cosa sono diventati i tanto
prudenti e timorati marchigiani? Dov’è finito quel tanto decantato humus
comunitario ed identitario, che è stato per decenni assunto a modello e ad
esempio (nelle relazioni, nell’economia, nei rapporti della società
organizzata,…)? Perché, in un certo senso, l'omicidio di Emmanuel sancisce l'attimo in cui si è persa quell’aurea di innocenza?
O non c’è mai stata? Perché è sufficiente oggi la presenza, in una piccola
cittadina, di una decina di richiedenti asilo, per mandare in tilt una
cristallizzata e apparentemente tranquilla dinamica quotidiana, per far
smarrire ai responsabili delle Istituzioni, senso di responsabilità, e
trasformarli persino in promotori della paura, per smuovere sentimenti di
ostilità, egoismo ed intolleranza anche in persone insospettabili? E’ stata la
crisi? E’ stato il venir meno, nelle Marche di un’idea dei rapporti padronali e subalterni, concretizzatasi per decenni classe dirigente diffusa, e che creando
dipendenza, nella sua implosione, ha lasciato tutti senza la figura rassicurante
di un padrone? E’ stata la mutazione genetica, probabilmente irreversibile, di
un modello e una pratica della politica improntata alla sola semplificazione,
razionalizzazione, cultura del “The Truman show”? E’ stato il fatto che da
diversi anni si è spinto sull’acceleratore culturale della costruzione di un’identità
marchigiana (storicamente inesistente), anziché sulla crescita consapevole e partecipata di un nuovo e
necessario umanesimo ed autentica comunanza? O è stato il fatto che, non solo nelle Marche, quando ogni
aspetto della vita e della quotidianità, è improntato alla supremazia assoluta della
merce, di conseguenza tutto è giustificabile al perseguimento di quel fine?
Oggi, se usciamo dai mantra dei tweet e degli #, ci accorgiamo che questa
regione (e i suoi abitanti) è più povera, più sola, più egoista e più corrotta.
E di conseguenza più propensa a far sedimentare germi e sentimenti fascisti. E la
risposta a tutto questo non può essere ancora la semplificazione di questioni che hanno necessità di complessità ed articolazione, ed un generico
e riverniciato riformismo. Ma deve necessariamente essere la radicalità. Delle
idee, dei comportamenti, delle scelte; private e pubbliche; individuali e
collettivi. E’ necessaria una forte iniezione di eresia. Don Vinicio Albanesi,
quando eravamo molto più giovani, e più giovane anche lui, ai campeggi ci
portava a tavola una grande pastasciuttiera con dentro la pasta fumante, e ci
diceva nel posarla al centro della mensa a cui sedevamo: “ecco l’Eucarestia”.
Era eretico e blasfemo, nel fare e nel dire? Non saprei; certo era un messaggio
forte per dei ragazzi di vent’anni, c’era l’idea di sentirsi una comunità di
eguali, di mutualità, e di condividere un po’ per uno, ma per tutti con tutti, quanto
bastava per vivere, il necessario. E di conseguenza nessuno si sentiva diverso,
subalterno, ma autonomo e tra pari; libero di impegnarsi nel dispiegare la
propria vita nella comunità più grande. Ecco, forse le Marche, hanno bisogno di
prendere atto che "il tempo della merce è finito, e sta arrivando il tempo
del sacro*". Ne saranno all’altezza, ne saremo all’altezza? Non ho molta fiducia,
guardandomi attorno. Vedo molte indignazioni di giornata, costernazioni da
primo post su facebook il ripetersi di stanchi ed inefficaci riti di solidarietà
e cordoglio. Vedo la paura, se non il terrore, per chi ha responsabilità, seppur diverse, verso i cittadini, di chiamare la cose con il loro vero nome, perché ciò metterebbe in discussione un pezzetto del proprio potere e consenso. Non vedo, ma è dovuto sicuramente alla miopia, quasi niente di
radicale. Quel gesto così apparentemente senza finalità e concretezza, a cui
invita un poeta ed un intellettuale come Franco Arminio: “Mettiti in
ginocchio anche se non credi a nessuno.
*cit. Franco Arminio
*cit. Franco Arminio
PS. Immagine di Serrabernacchia (frazione di Genga)