“La mia sintesi è
che vivi in una terra di merda”. Così mi scrive in chat un caro amico, a poche
ore dalla tentata strage fascista di Macerata, e a pochi giorni dal barbaro
omicidio di Pamela. Scambiandoci, entrambi frastornati, un po’ di sensazioni ed
opinioni in rete. Premetto che il mio amico, che vive a diverse centinaia di
chilometri di distanza dalle Marche, è una persona che ha un profondo interesse
e passione per questi territori, e per i quali si spende generosamente. Io in
quelle ore invece, non riuscivo invece a trovare un’espressione che, in poche
parole, condensasse chiaramente cosa sono diventate le Marche oggi. Neanche
una frase colorita, ma il rigirare in testa da tempo, ancor prima dei fatti di
Macerata, di un ragionamento articolato ed in evoluzione. Neanche uno slogan da
lanciare a caldo; vero è che per le Marche ce ne sarebbero già sono fin troppi, ma sono
anche quelli che portano fuori binario, creando una narrazione fasulla. Sono
quelli che la Regione Marche da anni usa per la promozione del territorio, tipo
“ViviAmo le Marche”, “l’Italia in una Regione”, “Viaggio nella Bellezza”, ed altri ancora. La
situazione drammatica e dolorosa contingente, non mi consentiva di rilanciare
neanche “Risorgimarche”, titolo dell’adattamento casereccio del Festival delle
Dolomiti. Lassù ideato da uno dei più grandi violoncellisti viventi, Mario
Brunello, con i prati e pascoli raggiunti dopo ore di cammino notturno, e concerti
in acustico all’alba tra capre e stambecchi, con il pubblico raccolto in piccoli gruppi. E nelle Marche, rivisto e
riproposto dall’attore fermano Neri Marcorè, come risposta sensoriale ed
emozionale al dramma del terremoto che ha sconvolto l’Appennino; concerti più o
meno unplugged di cantanti italiani,
con partecipazione massiva di pubblico, a cui si è fatto parcheggiare sui prati
migliaia di macchine. Ma ciò era dovuto, e giustificato, dai limiti della “prima
volta”. Ora, con lo Stato di Emergenza ancora in corso dopo 18 mesi, e con buone
probabilità di ulteriore proroga, preso atto che le Marche non sono ancora risorte,
si sta preparando già la seconda edizione del Festival; sperando che la
prossima estate, con una energica ripassata di Fender Stratocaster, usate a mo’
di defibrillatore cardiaco, l’Appennino marchigiano si rianimi davvero. Per rendere
l’idea delle Marche contemporanee, non va bene neanche la sintesi di regione delle
“comunità rancorose”, espressione del sociologo Aldo Bonomi, oramai marchigiano
d’adozione. Perché, i marchigiani sono per natura miti, generosi, e a loro modo,
seppur un po’ trattenuti e diffidenti, comunque accoglienti. Rancorosi non si
nasce, quindi, ma si diventa semmai, per sollecitazioni esterne, e non per
natura interiore. Penso semplicemente, ma non da questi giorni, di vivere in
una terra drammaticamente smarrita, in cui negli ultimi anni sono venuti meno
punti di riferimento e certezze secolari. E che ora non ha gli strumenti, e il
fisico (come direbbe qualcuno), per ricominciare da capo, e da sola, dandosi
nuove coordinate. E la paura e l’incertezza, nel costruire una visione
condivisa ed un futuro diverso, hanno preso, anche tragicamente in molti
episodi, il sopravvento. Questa nuova instabilità etica, sociale ed economica, individuale
e comunitaria, d’istinto porta tra le braccia di chi, per sua autenticità
identitaria ed ideologica, soffia sul fuoco parole d’ordine estreme, ma
rassicuranti e protettive al tempo stesso. Risposte semplici per problemi complessi;
menzogne elettorali, che però piace sentirsi raccontare. Facendo intravedere di
nuovo, anche se sotto stavolta inquietanti vesti, quello ai marchigiani, molto
più che agli italiani in genere, manca di più da qualche anno: un padrone. Ma non
da intendersi in senso autoritario e repressivo; ma paternalistico, dalla voce
rassicurante e dalla mano carezzevole. Buono, in sostanza, con chi gli si
affida. Clemente, con quelli che non lo amano. Saranno probabilmente queste
caratteristiche della figura padronale, che avranno indotto un profondo
analista delle Marche come Aldo Bonomi, a definirci una terra temperata dal “capitalismo
dolce dei distretti”. Perché in fondo,
le Marche, un padrone ce l’hanno sempre avuto. Prima il Papa, poi il Re e Lui,
e nel corso del Novecento un padrone più tradizionale, regionale, quello della
fabbrica o il proprietario fondiario, a seconda delle situazioni. Un padrone al
plurale, espressione della aricolazione dei cosiddetti distretti economici. Che
era, a seconda dei territori, direttamente o indirettamente, anche padrone
culturale, politico, e talvolta, istituzionale. Che faceva e disfaceva,
assicurando di farlo per il bene comune. Ma in verità, si può oggi constatare,
guardandosi intorno, che è stato sempre prevalente l’operare per il proprio esclusivo
profitto: nell’economia, nelle banche, nei rapporti imprenditoriali, nella
politica. Sapendo far svolgere sempre il proprio ruolo a tutti. C’era il
partito del padrone, che riusciva a contenere e far convivere, sotto il grande
mantello bianco, l’impegno sociale del cattolico democratico e il rigurgito del
fascista, sedando per decenni le pulsioni di quest’ultimo. E anche per
l’opposizione politica, rossa e laica, c’era un pezzetto di potere che veniva
dispensato sotto un tavolo abbondantemente apparecchiato, a seconda delle
convenienze. Nelle Marche miti e prudenti, persino i brigatisti rossi, sono
stati “da salotto”. E tutto questo sistema, per molti decenni, nella regione ha
funzionato, e garantito, come si dice ora, la coesione sociale. E ha riempito
pance e saccocce. C’era lavoro per tutti; anzi, negli anni, tante migliaia di
persone sono arrivate nelle Marche, perché a tutta quell’offerta di
occupazione, i marchigiani da soli non bastavano. E il lavoro c’era per tutto
il nucleo familiare, marito e moglie, e il posto passava da padre in figlio. E
tutti, stavano bene, c’era benessere diffuso. E il marchigiano sobrio,
prudente, riservato e pudico, avvezzo a non allargarsi mai più di tanto, era
contento. E i problemi, alcuni fenomeni di devianza e marginalità, che sempre ci
sono stati, venivano messi discretamente sotto il tappeto. L’importante era che
non se ne parlasse troppo. Che il vicino di casa sapesse, era normale, ma per
pudore di caseggiato, non si andava oltre il bisbiglio. Basti pensare nelle
Marche, negli anni ’70 e ’80, a che cosa fosse il fenomeno delle tossicodipendenze.
Con l’eroina che a Jesi, tanto per fare un esempio vissuto da ragazzino, veniva
spacciata a giorno in Piazza della Repubblica davanti il Teatro Pergolesi. E di
notte nelle discoteche, sempre con discrezione e pudicizia, il figlio del
libero professionista e dell’imprenditore, strisciava nel bagno le centomila lire
di cocaina per il capriccio del sabato sera. Perché, farsi una pera, per i
figli della ricca borghesia marchigiana, era considerato sconveniente; quello
era un rito riservato ai giovani dei ceti medio bassi. Sempre negli anni ’70 e
’80, non un mese fa. E all’epoca, gli spacciatori erano tutti bianchi, local. E anche allora c’era il problema
della sicurezza urbana; ma al posto della videosorveglianza, per i tanti che
dalla fanciullezza erano abituati a stare fuori di casa, c’era la voce della
mamma, o di una coesa rete sociale parentale, che ammoniva “basta che non vai a giardini, che lì
ci sono i drogati”, oppure “non prendere niente da nessuno quando esci da
scuola” Ma, con il conto corrente in
ordine, i risparmi investiti nei fondi consigliati dal persuasivo funzionario
di banca, e con la seconda casa al mare o in collina, al marchigiano
metalmezzadro (status che per
definizione è indice di subalternità e sottomissione), poco gli importava di
quello che intanto combinava il padrone. Sia in fabbrica e sul territorio, sia in
qualche saletta riservata di un buon ristorante di pesce della costa. Perché,
in fondo, si stava bene. Le Marche erano un’isola felice, tanto ancora da
permettersi, nei piccoli centri, il lusso di lasciare le chiavi sulla porta. Poi,
ad un certo punto, con l’implosione dei grandi partiti tradizionali, quelli
della cosiddetta Prima Repubblica, ma anche complice il processo di
secolarizzazione religiosa, il sistema perfetto ha cominciato a scricchiolare.
Si sono aperte delle crepe, provocando un primo indebolimento culturale, ideale
ed etico. Crepe sulle quali, dall’esterno, o meglio dai monitor televisivi, era
cominciato il lungo ma efficace bombardamento della “cultura del Drive-In”. Ma, comunque, ancora c’era il padrone che intanto reggeva; il benessere materiale
diffuso non era stato aggredito. Poi però è arrivata, d’improvviso, la crisi. E
dalla Grande Mela alla Valle dell’Ete, si è propagato lo tsunami. Il padrone, nelle sue molteplici
ramificazioni, è saltato, ed è saltata pure la banca dei marchigiani, e sono
cominciati i guai. Quelli veri, quelli che d’improvviso ti ritrovi in mezzo
alla strada senza lavoro. Non solo c’è solo da imparare a tirare la cinghia, ma si comincia a
consumare i risparmi propri, e quelli dei genitori. I fiumi di denaro pubblico
di ammortizzatori sociali, per un decennio hanno sedato ed anestetizzato, per
migliaia di persone e famiglie, il dolore e l’angoscia per il proprio futuro.
Ma ora l’effetto dopante sta esaurendosi. Il marchigiano è passato da una vita
per certi aspetti chiara in ogni suo passaggio, dalla “culla alla tomba” per
usare un termine del welfare nordico. Dove si poteva avere la certezza anche che,
in qualche modo, il padrone si sarebbe fatto carico delle sue improvvise
difficoltà e umane debolezze. Per approdare ad un nuovo, imprevedibile ed
indesiderato, status. In cui adesso ci
si guarda intorno smarriti, convinti che non è possibile che anche stavolta il padrone
non si farà carico di noi. Noi che, a partire dal voto, gli abbiamo dato tutto.
Ma stavolta, invece “i nostri” non arriveranno più per davvero. Ed è in questo
nuovo e non preventivato contesto, che salta il cosiddetto tappo. O meglio,
salta l’idea e il valore di comunità, di un tratto identitario. Si è pronti per
il tutti contro tutti, in un desolante far-west
territoriale. Si perde l’innocenza e si scopre la violenza. Quella privata,
domestica, e quella politica ed ideologica, xenofoba, razzista, e fascista.
Però il marchigiano, per sua natura, anche in queste barbare dinamiche,
continua a mettere la polvere sotto il tappeto. Sempre pubbliche virtù, ma vizi
privati. Quindi, ad esempio, non l’altra
settimana, ma dodici anni fa, quando proprio a Macerata il direttore bianco del
teatro, riempì di botte la moglie, e la buttò in un cassonetto della spazzatura
mezza morta, fu considerato già allora normale, che l'allora Sindaco della città, fosse andato a trovare in galera il marito carnefice, piuttosto che la moglie
vittima, in coma farmacologico all’ospedale. Così come adesso, di nuovo a Macerata,
una comunità non più communĭtas, ma
aggregato di persone impaurite e spaesate, senza più punti di riferimento, si
trova malcelatamente, istintivamente e pudicamente, a giustificare perfino il
terrorista fascista, anziché a schierarsi spontaneamente dalla parte delle
vittime, e sentirsi per prima vittima anch’essa come intera città. Ma questo
era già accaduto quasi due anni fa a Fermo, quando un fascista locale ha
assassinato un ragazzo nigeriano che passeggiava con la moglie, in pieno centro. In fondo, il fascista fermano, rispetto al nero migrante ammazzato, viene dai più considerato "un figlio nostro". Ipnotizzati, gran parte, dall’idea che se nelle Marche ce la passiamo male, la
colpa è dei migranti. E a questa paura, istintiva e razionalmente
ingiustificata da ogni dato sociale oggettivo e statistico, il senso di communĭtas non glielo si può restituire
importandolo da fuori. Bisogna rigenerarlo dall’interno, lentamente e
faticosamente, sedendosi accanto agli impauriti, e ricominciando da capo. La
paura ha sempre bisogno di essere identificata, impersonata; e spesso non è mai la fisionomia del più forte e cattivo, ma il più debole. Levarsi dalle scatole un po’ di
migranti, è più semplice e consente di evitare di guardarsi dentro, a ciò che si è,
piano piano, diventati. Oggi la regione, è un insieme di tante “non comunità”
in cui, anche a seguito di una sciagura come un terremoto, dopo i primi tempi,
nel prolungarsi di un’emergenza senza alcun barlume di ricostruzione, le
persone sono approdate ad uno stato di cattività ancestrale, ed i terremotati si
sono ritrovati spesso l’uno contro l’altro, per l’ottenimento di un diritto,
che è semplicemente quello di riabitare in fretta il proprio luogo d’origine. Ora le Marche,
più di altre regioni, sono in uno stato di allarme conclamato, codice rosso per
usare un’espressione sanitaria. I dati economici e sociali, quelli veri e non
quelli dei comunicati stampa istituzionali, descrivono una regione che per
dinamiche sociali ed occupazionali, sta ben al di sotto di territori del
Mezzogiorno. Con numeri da defibrillatore. Se si è arrivati fin qui, è anche, e
per certi aspetti soprattutto, perché negli anni la politica e le Istituzioni,
e le classi dirigenti in genere, hanno sottovalutato in molti casi; valutato in
altri con estrema superficialità alcuni segnali. Ma giustificato sempre, nella
ricerca di un consenso a tutti costi, alcuni fenomeni. Un metodo di analisi e
sintesi, espressione di un collettivo “tanto sò regazzi”. E, cosa più grave, ha
continuato a narrare ufficialmente una regione che non c’è più da tempo, e non
avendo in testa, neanche in bozza, quella che dovrebbe essere. Evitando,
aggirando, mettendo, la politica anch’essa, da buona marchigiana, la polvere
sotto il tappeto. Convinti, che quel modello economico e sociale, quello dei
distretti per capirci, che è imploso con la crisi, si potesse nuovamente, dandogli
una rabberciata alla meglio, replicare in un futuro infinito. Pensando, e
operando di conseguenza, ad esempio, che il rilancio di un sistema economico ed
occupazionale, possa passare, come negli anni ’60 del secolo scorso, con la
costruzione di nuove strade ed infrastrutture a prescindere del costo
paesaggistico. O che l’occupazione di
migliaia di persone estromesse dal mercato del lavoro, possa riconvertirsi
massivamente nel settore turistico. Accantonando, ancora una volta, retaggio questo
della subcultura metalmezzadrile, l’idea della valorizzazione e dell’investimento
nelle vere ed uniche radici che le Marche hanno, ovvero quelle agricole ed
agroalimentari. Spendendo fiumi di denaro pubblico in inefficaci azioni di
marketing fine a se stesse, confondendo l’evento con l’espressione dell’arte, e
la cultura con il turismo. E facendo confluire un piccolo rivolo di quel
denaro, in un’operazione istituzionale e culturale sconcertante: quello di
darsi una nuova identità, per legge. Pochi sanno infatti, o ricordano, o preferiscono
non ricordare, che nel 2005 il Consiglio Regionale delle Marche, su proposta
della Giunta, il cui Presidente, che in precedenza era un dipendente-manager
dell’industriale più importante della Regione, ha approvato una legge che
istituisce la Giornata delle Marche, il 10 dicembre, festa della Madonna di
Loreto; “quale solenne ricorrenza per riflettere e sottolineare la storia, la
cultura, le tradizioni e le testimonianze della comunità marchigiana e
rafforzarne la conoscenza e l’appartenenza” Quindi, eventi, premi (il Marchigiano
dell’Anno), la ricerca dei marchigiani nei secoli emigrati all’estero. Ma ciò non
bastava. Infatti, qualche anno dopo, la Regione ha commissionato l’Inno delle
Marche. Prima la partitura musicale, composta dal pianista ascolano Giovanni
Allevi (riferendosi a lui, Riccardo Muti dirà “Io ho molto rispetto per le
canzonette, per il pop. Ma è appunto un altro mestiere”). E poi, non paga del
brano strumentale, ha promosso un concorso di idee pubblico per la scrittura del
testo dell’Inno. Giuria presieduta da Mogol. Viene scelto il testo del
paroliere marchigiano di Montemarciano, Giacomo Greganti, Presidente della
locale Banda Municipale. Riporto il testo, che va letto:
Nel cuore avrò i monti
azzurri,
Il mare e poi le verdi terre...
Regione mia, luogo d'arte e poesia,
se io domani dovessi andar via,
vivrei soltanto per ritornare..
Perché ogni giorno io penso a te
Il mare e poi le verdi terre...
Regione mia, luogo d'arte e poesia,
se io domani dovessi andar via,
vivrei soltanto per ritornare..
Perché ogni giorno io penso a te
Ovunque vai, ritroverai
gente serena e libertà
Piccoli borghi e operose città
L'anima immensa del grande poeta
che ha illuminato la nostra vita
sempre vivrà per l'eternità
gente serena e libertà
Piccoli borghi e operose città
L'anima immensa del grande poeta
che ha illuminato la nostra vita
sempre vivrà per l'eternità
se ritorni
se ritorni
tu ritrovi il sorriso
la regione delle Marche:
il Paradiso
se ritorni
tu ritrovi il sorriso
la regione delle Marche:
il Paradiso
se rimani
se rimani
da domani vivrai
tutto un mondo di felicità
se rimani
da domani vivrai
tutto un mondo di felicità
Ovunque andrai respirerai
un grande senso di dignità
I paesaggi del gran Raffaello
Puoi rivedere passando di qua
Sono le Marche la terra mia
Luogo di pace e di umanità
un grande senso di dignità
I paesaggi del gran Raffaello
Puoi rivedere passando di qua
Sono le Marche la terra mia
Luogo di pace e di umanità
Un testo del 2013,
non di un’altra epoca. In cui è evidente quale sia l’idea e l’immagine si vuole
narrare delle Marche, e che soprattutto si vuole perseguire; per la quale si intende
chiamare a raccolta un milione e mezzo di cittadini. Che, da diversi anni,
oramai stanno sperimentando sulla propria quotidianità, quanto la propria terra,
oramai sia quasi uno sbiadito ricordo di anni felici. Quell’Inno, frutto di una
stagione politica, nel cambio di classe dirigente alle elezioni successive, non
è stato soppiantato, così come la Giornata delle Marche, ma è rimasto un
appuntamento del calendario regionale. Segno, che non ci sono stati grandi
cambiamenti. Nonostante l’iniezione di una politica proveniente dalla riproduzione “nostrana” del riformismo emiliano. Una politica che ancora non riesce a fare i
conti con la complessità, ad interpretare i mutamenti e a proporre una visione
differente, radicalmente diversa. E che quindi, come il cittadino di provincia
che è abituato a mettere la polvere sotto il tappeto, decide consapevolmente di
proseguire a raccontare una fiction. Una politica che, quando il livello della
gestione di un conflitto non è più la chiusura al traffico di un centro
storico, ma la paura sociale che ti mette a soqquadro tutta una comunità,
sbanda e annaspa, rischiando il k.o. definitivo. C’è l’urgenza,al contrario, di una classe
dirigente che abbia l’umiltà e l’intelligenza di invertire
drasticamente la rotta. Capace di tornare dagli spot alla realtà. Coinvolgendo i
cittadini con processi partecipati e democratici. Le Marche, tanto più dopo i
devastanti terremoti del 2016, e l’accadere dei recenti episodi violenti e
tragici, espressioni di un profondo disagio sociale e di devianza criminale, ma
anche di un radicato estremismo politico dalle tinte nere, non possono più
permettersi il lusso di sentirsi ancora raccontare dalla regia, ciò che non
sono più da tempo. Solamente Sergio Leone aveva il talento e il genio, come
nella scena finale di “C’era una volta in America”, di far credere agli
spettatori che la vita che per settant’anni aveva vissuto il protagonista
Noodles-Robert De Niro, non fosse il frutto della realtà, ma un grande
flashback generato dai fumi dell’oppio.