Il nostro territorio, per tutto
il Novecento, ha basato il suo sviluppo economico sul manifatturiero che,
progressivamente, ha reso subalterno il settore agricolo.
Nasce non a caso proprio
nel fabrianese la figura del “metalmezzadro”. Ciò ha alimentato per molti anni
una forte e piena occupabilità, un benessere diffuso per gran parte della
popolazione, generando un’offerta di lavoro che ha anche richiamato migliaia di
persone da fuori, lavoratori che qui si sono stabiliti con le proprie famiglie,
divenendo nuovi cittadini dell’Alta Vallesina.
Questo tipo di economia, va
detto, ha però anche provocato al territorio dei danni ambientali e
paesaggistici non rimarginabili (basti pensare alle attività estrattive).
In
questo contesto, l’economia del turismo - o meglio l’industria, perché di
questo si tratta - è sempre stata considerata complementare.
Questo vale,
nonostante le apparenze e le narrazioni, anche per una delle centrali del turismo
più importanti delle Marche: le Grotte di Frasassi. Se analizzassimo infatti le
ricadute occupazionali nel comune di Genga, che oggi conta circa 1.700
residenti, scopriremmo che gli abitanti che traggono, direttamente o
indirettamente, un reddito con l’indotto turistico delle Grotte, supererebbero
appena le 200 unità. Questo dimostra che anche in un paese in cui
ipoteticamente tutti gli abitanti dovrebbero essere sostenuti dall’industria
turistica, senza invece l’apporto di altre attività lavorative in tanti
avrebbero problemi assai seri di sostentamento per sé e per le proprie
famiglie.
Con la crisi dell’economia mondiale all’inizio di questo nuovo
millennio, quel modello che qui ha garantito per lunghi anni il benessere è
saltato. E sono di conseguenza cominciati i problemi per migliaia di persone
che, improvvisamente, hanno perso il lavoro.
Ancora oggi, i dati forniti dalle
organizzazioni sindacali e dal Centro per l’Impiego sono gravi, e purtroppo
altre oscure ombre minacciano il lavoro manifatturiero della Vallesina e del
fabrianese.
Nell’implosione di quel modello quasi secolare, si è compiuto il
più grosso errore da parte della classe dirigente politica regionale e
territoriale.
Su due fronti:
- il primo è che si è pensato, e fatto credere, che
quel tipo di economia che era saltata, potesse, con qualche aggiustamento e
rammendo, essere rimessa in pista, ma ciò si è infranto subito con la
spietatezza e la velocità della globalizzazione;
- il secondo è che, non avendo
un “piano B”, o meglio una visione strategica del territorio, si è presa la
strada più semplice, più veloce, più seducente nella narrazione politica,
specialmente ai fini di un consenso elettorale immediato. Ovvero che il futuro
economico ed occupazionale di questo territorio potesse essere il turismo.
Questo ha portato al dispiegamento, o meglio allo spreco, di fiumi di denaro
pubblico: convegni, progetti, consulenze, esperti o presunti tali, eventi,
strategie di marketing, social media manager e compagnia cantante. Il che ha
indubbiamente generato o mantenuto posti di lavoro, ma, nonostante ancora
adesso questa campana venga incessantemente suonata, i numeri sono ben al di
sotto di quanto necessario.
Solo una classe dirigente legata prevalentemente
all’immediatezza del consenso politico avrebbe potuto credere, e tentare di far
credere, che migliaia e migliaia di posti di lavoro persi in questi anni nel
manifatturiero potessero essere assorbiti da una nascente industria del
turismo.
In un territorio che, pur avendo un prezioso e diffuso patrimonio artistico
e paesaggistico, non ha la portata di una grande città d’arte né la forza della
costa col turismo balneare. E che, dalla catena di montaggio, una generazione
di operai potesse passare in scioltezza alle biglietterie di un museo o ai
servizi della ristorazione e dell’accoglienza turistica.
Non c’è in corso
alcuna riconversione turistica del territorio. Ed anche la crescita della
presenza turistica nei nostri borghi è ancora dentro a ciò che già si sapeva,
ovvero che l’industria del turismo non può che considerarsi, per queste zone,
complementare ad altri comparti trainanti, i soli in grado di far spostare (o,
far restare) persone e famiglie nei paesi con scelte consapevoli e durature.
Per fare un esempio banale, anche quanti in questi anni hanno aperto un
B&B, ristrutturando qualche casa ereditata dai nonni, non svolgono questa
come attività principale per la generazione del reddito familiare, ma come
iniziativa di integrazione ad altre entrate da lavoro.
A dimostrazione della
debolezza e dell’inconsistenza del modello proposto, è arrivata purtroppo la
pandemia.
Che ci ha dimostrato come l’industria del turismo possa essere
effimera e volatile.
Basta un virus che impedisca per lungo tempo alle persone
di muoversi e spostarsi, per necessità che non siano primarie, che in poco
tempo questo tipo di economia va in crisi e in blocco totale; e molte attività
di questa natura, una volta interrotte per un lungo periodo, difficilmente
ripartono.
E se poi non è un virus, anche una catastrofe naturale quale è un terremoto,
purtroppo, paralizza drammaticamente un’industria di questo genere.
Il danno
più grave, di origine dolosa a mio avviso, di questa cultura politica e
amministrativa, è che mentre si sono sperperati soldi pubblici ed energie per
correre dietro, in quasi quindici anni, al miraggio del turismo, si sono persi
di vista gli azionisti primari della politica locale e territoriale: gli
abitanti.
La mancanza di una vera pianificazione urbanistica e paesaggistica,
con i necessari investimenti finalizzati al recupero del patrimonio immobiliare
pubblico e privato, la costante riduzione e chiusura nel territorio dei servizi
essenziali (basti pensare alla sanità, alla scuola e al trasporto pubblico), la
fascinazione per le grandi infrastrutture stradali come la Quadrilatero a
discapito del depauperamento delle reti stradali comunali e provinciali, ha
continuato a favorire l’emorragia di abitanti, che se ne stanno andando a
vivere in luoghi in cui la vita quotidiana è meno faticosa, specie se si hanno
dei figli.
Lo spopolamento progressivo del nostro territorio è un dato
incontestabile, ed è dovuto alle difficoltà, e spesso ai maggiori costi, del
vivere nei borghi di montagna rispetto a quanto non accada in pianura o lungo
la costa.
Una politica che ha portato indubbiamente in questi anni ad avere
qualche turista in più, ma molti abitanti in meno.
Ma l’industria del turismo
ha un grosso vantaggio rispetto ai settori economici primari: che non ha
bisogno di abitanti.
I turisti arrivano, stazionano poche ore o qualche giorno,
poi se ne vanno. Non servono, tendenzialmente, servizi essenziali, come la
sanità e la scuola, o una farmacia e un supermercato, o l’ufficio postale o una
filiale bancaria.
All’industria del turismo servono solo clienti e dipendenti;
e quest’ultimi molto spesso stagionali, pendolari e discutibilmente
contrattualizzati e sottopagati.
Per questo, considerate anche molte operazioni
messe in essere nel nostro territorio, è facilmente prevedibile che queste aree
possano diventare in pochi anni dei grandi parchi giochi all’aria aperta, ad
uso e consumo del turismo.
O zone gentrificate.
Senza necessità di essere
abitate da Comunità stabili.
E non si può tralasciare il fatto che certo turismo ha un
suo pesante impatto ambientale: basta andare a vedere cosa stanno facendo sul
Monte Acuto, sopra Frontone, per la costruzione di nuovi impianti di risalita
invernali - quando lì nevica oramai due o tre giorni l’anno - e con la relativa
costruzione di un bacino artificiale per portare acqua in quota e produrre neve
artificiale.
Al contrario, in questi anni sarebbe stato utile provare a creare
le condizioni per un manifatturiero altamente specializzato e tecnologicamente
avanzato, e un’industria specializzata nella green economy, altamente
compatibile nella sua presenza con l’ambiente e il paesaggio del territorio; a
far sviluppare attività lavorative e produttive che si occupassero della
manutenzione del paesaggio, della “riparazione” dei molti danni ambientali
fatti in passato, della messa in sicurezza dell’assetto geomorfologico del
territorio in un’ottica di prevenzione.
Non si è voluto scommettere sulla
nascita di un’imprenditoria agricola di nuova generazione, digitalizzata, ma
attenta alla biodiversità e alle tradizioni, capace di rendere ragione alla
vera, unica ed antica vocazione economica delle Marche che è l’agricoltura.
Ciò
avrebbe offerto un’opportunità anche di rimanere qui a tanti giovani nel
territorio, formatisi con alte qualificazioni accademiche, ma costretti ad
andare via, perché qui il lavoro per i loro saperi non c’è.
Ma tutto ciò non è
stato fatto, e non sarà una riconversione industriale che, nello stesso
capannone, al posto delle cappe ci metterà i polli, a segnare una reale
inversione di rotta.
Si è perso tempo, forse troppo.
Si sono rincorsi i “viaggi
e i miraggi”.
E adesso può essere veramente troppo tardi.