‘Nessuno ci ha chiesto cosa volevamo fare’; ‘Hanno deciso
sopra le teste della gente del paese, non sappiamo mai nulla, nessuno è stato
coinvolto’; ‘Abbiamo una grande ragione per rimanere qui e mille per
andarcene’.
A leggerli,
questi pensieri, si potrebbe attribuirli a quelle che un famoso sociologo, di
giovanile militanza eversiva, ha definito “comunità rancorose”; genti
marchigiane indigene, abitanti l’Appennino terremotato. Oppure a esponenti
incarogniti di qualche comitato. O alle “tribù”, a cui una nota fondazione
economica marchigiana vuol spiegare, e imporre, “il come” si fanno rinascere
queste zone dell’Italia centrale, piegate dal terremoto dodici mesi fa, ma
cannibalizzate per decenni dal distretto industriale di un “capitalismo dolce”.
E invece no, quelli
sopra sono i pensieri di alcuni ragazzi e ragazze di Arquata del Tronto, che
hanno tutti intorno a vent’anni, e che da un anno animano una pagina Facebook
che si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the dust”. Si definiscono “un gruppo di
ragazzi colpiti dal terremoto del 24 agosto nella zona del centro Italia,
abbiamo la fortuna di poter raccontare la nostra esperienza e l'unico nostro
obbiettivo è non cadere nel dimenticatoio e poter descrivere a tutti com'era,
com'è e come secondo noi sarà il nostro territorio che se pur ferito ha una
forza d'animo da poter trasformare il voler fare nel poter fare.” Il loro
slogan è “Chi dimentica è complice”.
Li ho
conosciuti un anno fa, e alcuni li ho ritrovati qualche giorno fa; sui social
non li ho persi mai di vista, sulla pelle li ho sentiti sempre vicini.
Scrivono,
informano, raccontano, si tengono stretti tra loro, sballottati qua e là sulla
costa o in pianura, dopo l’esplosione sismica del loro paese.
Non hanno
titoli accademici, non fanno i conferenzieri a gettone, non coniano espressioni
del cazzo come “capitalismo dolce” e “sociologia delle macerie”.
Però, alla
fine, sono gli unici che hanno presente, in questo anno che è passato da quel 24 agosto, e contrariamente ad un mondo adulto e alla filiera dei soggetti decisori, ed al di là dell’emergenza, della devastazione, delle inefficienze e dei
ritardi, della mancanza di una visione della ricostruzione, qual’è il nodo vero
che le crepe dell’Appennino hanno fatto affiorare: la mancanza, colposa o
dolosa (agli esperti l’ardua sentenza), di reali pratiche di partecipazione
democratiche nei territori colpiti dal sisma.
Passaggi fatti
di informazione, ascolto, coinvolgimento, mediazione, sintesi e decisione
condivisa. Quelli che riescono a far sentire, anche chi ha perso tutto, e da un
anno stenta a vedersi nel lungo periodo, meno solo, meno abbandonato, meno
disperato. E che servono a preservare in ciascuno i valori della dignità, della
cittadinanza, di un senso di appartenenza ad una comunità civile più ampia.
Se questi
giovani non verranno sopraffatti alla lunga dalla #strategiadellabbandono, e
sapranno resistere, insieme a tanti altri sparsi sull’Appennino, saranno loro i
veri artefici della ricostruzione; ma non tanto e solo di quella materiale, ma
di un’idea di territorio e di comunità, e di ripristino di normali pratiche di
democrazia, come sono quelle che fondano il loro riunirsi ed essere semplicemente
comunità di giovani donne e uomini, e non associazione, comitato, o altro
soggetto organizzato.
La
#strategiadellabbandono, dopo un anno ha sempre nuove lusinghe, fondate su un
“IO” (pubblico o privato) che decide e impone (e solo quando va bene comunica)
cosa va fatto per il bene del territorio e di tutti; “IO” decido che ti
deporto, IO decido quale economia e lavoro sulla montagna, IO decido quale
ricostruzione, IO decido che il tuo paese non può essere ricostruito, etc etc.
E molte volte lo fa anche inventandosi perlopiù puttanate finalizzate a
riempire qualche saccoccia, spesso sempre le stesse. L’antidoto è la rimessa in
campo di un “noi” e di un “insieme”.
Ma è uno scatto
che deve fare anche il genius loci,
superando piccoli e arcaici egoismi, opportunismi, rendite di posizione,
lasciandosi contaminare da innesti che hanno scelto di vivere sull’Appennino
come fatto valoriale e non pecuniario, dandosi una classe dirigente locale
migliore e più all’altezza delle sfide, isolando una volta per tutte quelli che
Franco Arminio chiama “gli scoraggiatori militanti.
“Bisogna andare avanti e ricostruire meglio di prima”;
“Valorizzando il nostro paesaggio”; “Si potrebbe puntare la ricostruzione sul
turismo”; “E quindi anche su un’economia che prima non c’era”; “Deve vivere di
questo, non di centri commerciali”.
Eccoli qua i
ragazzi di Chiedi alla Polvere, hanno le idee chiare e, soprattutto, sono
integri. Al contrario di altri, corrosi da qualche ideologia perduta, o avvezzi
alla marchetta istituzionale.
L’Appennino può
contare su di loro. Deve.
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