Premessa necessaria: non
sono un animalista (nonostante il cognome che porto…), tantomeno vegetariano.
Penso che l’attività venatoria, la caccia, non abbia alcuna caratteristica per
essere ricondotta ad una pratica sportiva (non per niente, alle Olimpiadi,
nella disciplina del tiro a volo si spara a dischi di ceramica, e non a uccelli
o lepri). Considero la caccia una pratica antistorica, a partire dal momento in
cui l’uomo nel Neolitico ha inventato la pastorizia e l’allevamento. Il fatto poi
che una persona si svegli la mattina, per andare in mezzo ad un campo o ad un
bosco a sparare ad esseri viventi, è un comportamento che afferisce ai misteri
della psiche umana. Ricordo di aver conosciuto anni fa, uno che di giorno era
un impeccabile impiegato di banca ma, appena smarcato il badge e dismesse giacca e cravatta, si trasformava in bracconiere.
Così come, aumenta il mio senso di insicurezza, la consapevolezza che in migliaia
di abitazioni civili siano conservate armi da fuoco funzionanti. Ho avuto a che
fare con la gestione amministrativa dell’esercizio dell’attività venatoria,
durante l’esperienza elettiva fatta in Consiglio Provinciale. E si, perché
prima della riforma Del Rio del sistema delle Province italiane, che ha
lasciato tutte le Province, ma soppresso la democrazia elettiva e
rappresentativa diretta delle stesse, e ridotto diverse funzioni per passarle
alle Regioni o ai Comuni, la caccia era una delle attività amministrative più
importanti e strategiche di una Provincia. Ed anche, di conseguenza, la delega
Assessorile alla Caccia e Pesca, era una delle più ambite dalla politica e dai
partiti. Chiara anche la ragione: tramite quell’Assessorato si veniva a
contatto con una grande realtà organizzata come quella dei cacciatori e delle
associazioni venatorie; e quindi, potenzialmente, un notevole bacino di voti.
E, spendendo molte ore di quell’impegno consiliare, ad occuparmi obtorto collo di caccia, ho avuto,
qualora ce ne fosse stato bisogno, conferma del perché ancora venga consentita
nel XXI secolo l’attività venatoria: è un enorme business, ed è funzionale alla costruzione del consenso politico,
almeno in Italia. Niente quindi a che vedere con tutte le giustificazioni che
nel corso degli anni ci sono state costruite intorno, comprese quelle di
carattere ambientale e paesaggistico. Ed in particolare, credo sia
immaginabile, come la caccia al cinghiale, che dal bosco finisce sulla filiera
commerciale della ristorazione, rappresenti un segmento significativo del più
generale business legato all’attività
venatoria. Attività economica della ristorazione che, qualora il cinghiale non
venisse più sparato, non ne avrebbe alcuna penalizzazione, perché è possibile
allevarlo rispettando precise norme, tanto che ci sono allevamenti di cinghiale
gestiti da imprese private, debitamente autorizzati. E’ indubbio comunque, che
negli ultimi anni nel nostro territorio, ma non solo, il numero della presenza
del cinghiale è aumentato e di molto. Ma non è giustificabile, considerata
l’intensità dell’attività venatoria, con la forte prolificità della specie, e
con la sua attitudine a spostarsi per parecchi chilometri. Tanto da arrivare,
come accade a Fabriano, anche a ridosso o dentro i centri urbani. E se arrivano
in città, non è perché i cinghiali hanno Google Map, ma perché negli anni, un’esagerata
e scellerata antropizzazione ed urbanizzazione della montagna, ha spezzato
quelle filiere biologiche, che avevano sempre consentito una regolarità di
selezione tra specie e di approvvigionamento alimentare. Facciamo un esempio
paradossale: i cantieri della Quadrilatero, per il raddoppio della ss 76, di
forte impatto naturalistico ed elevato consumo di suolo, quanta selvaggina
hanno costretto a migrare e spostarsi verso altre zone “più sicure e protette”?
C’è l’aspetto, serio, dei danni degli ungulati arrecati alle colture; sarebbe
sicuramente più efficace e riparatorio, che l’indennizzo economico venga
corrisposto dalle amministrazioni competenti in tempi brevi, anziché anche anni
dopo; unitamente al pensare ad incentivi per la messa in sicurezza delle
colture stesse. Comunque, gli unici danni non risarciti, sono quelli che fanno
nei fondi privati i cacciatori, unica categoria che il codice civile dispensa
dall’intromissione nella proprietà privata altrui. Sarebbe naturale pensare che,
considerato l’incremento ed estensione temporale dell’attività venatoria, e di
abbattimenti selettivi durante l’anno, di cinghiali ce ne dovrebbero essere
sempre meno. Ma invece ce ne sono di più. Però è anche vero che se, per
assurdo, il numero dei cinghiali dovesse essere ridotto ai minimi termini, ne
avrebbe penalizzazione da una parte il giro dell’attività venatoria, e
dall’altra, anche quello della filiera commerciale ed economica. E quindi, non
è malizioso pensare, che più cinghiali ci sono e meglio è… E che cinghiali! Se
pensate che la specie autoctona dell’Appennino centrale ha capi adulti in media
con pesi non superiori al quintale, si può pensare che se vengono osservati e
abbattuti capi anche tendenti ad un peso doppio, qualche mescolamento genetico
è avvenuto o potrebbe essere stato provocato…
Curiosa, in tal senso, è la situazione della zona del Monte Conero, dove
anche lì i cinghiali proliferano e scorrazzano, che è un territorio dove
storicamente il cinghiale non è mai stata una specie autoctona presente… Chi si
occupa della caccia al cinghiale? I cacciatori, che la fanno tradizionalmente,
nei periodi previsti dal calendario venatorio, in squadre composte fino a venti
unità (moltiplicate per i voti potenziali…). Fatevi una passeggiata, ad esempio,
nei giorni di caccia previsti dal calendario venatorio, per il territorio
fabrianese tra Poggio S. Romualdo e Serra S. Quirico, ed assisterete a scene
tipo commando alla Rambo, che si aggirano per boschi e intorno ai piccoli
centri abitati; nonostante le battute di caccia siano segnalate con appositi
cartelli, valutate se ve la sentite in tutta tranquillità di farvi una
passeggiata a piedi o in bicicletta, o inoltrarvi nella macchia a cercare
qualche fungo… (una carabina da cinghiale, se il proiettile non incontra
ostacoli, può avere una gittata fino anche a 4000 m.) Oppure, sono titolari
della caccia di selezione al cinghiale, gli Agenti Venatori ed i
selecontrollori, singoli cacciatori abilitati e gestiti all’interno di piani di
abbattimento controllato, che vengono predisposti dalle Autorità competenti.
Tutto questo “circo” sopra descritto, è mio convincimento che per ragioni
politiche ed economiche, avendo necessità di perpetuarsi e riprodursi
(contestualmente ai cinghiali), nonostante i proclami, gli intendimenti, non
porterà mai a rimettere a normalità biologica il sistema. Come fare allora?
Bisogna sperimentare, e sottrarre gli interessi politici (adesso trasferitisi
dalle Province alle Regioni) ed economici alla questione. Da una parte restringere
il più possibile la caccia al cinghiale all’interno del calendario venatorio e
non fare occupare i cacciatori dell’attività di selezione, riservandola
esclusivamente ai singoli selecontrollori e agli Agenti venatori, con un
rigoroso controllo. E dall’altra, come avviene in diversi Paesi europei e in
qualche Regione italiana, praticare più che l’esercizio della carabina, quello
dei farmaci anticoncezionali somministrati negli alimentatori posti nei boschi
o nei fondi. Tra l’altro di ciò, ne beneficerebbe indirettamente anche la
specie umana: dall’inizio di settembre di quest’anno ad oggi, in Italia ci sono
state già 12 vittime e 20 feriti per incidenti di caccia. Facile, si direbbe.
No, perché così, il legame innaturale caccia-consenso politico, verrebbe anch’esso
sterilizzato…
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