L'approvazione dell’emendamento di Tommaso Foti (Fratelli d’Italia) alla Legge di Stabilità, sull’estensione della caccia al cinghiale nelle aree protette e nelle città, ha avuto un’eco molto forte, tanto che alla fine, è stato paradossalmente, l’argomento più riportato dai media della prima Finanziaria del Governo Meloni.
Per non cadere nel blitz di Foti, i
deputati della Commissione Bilancio della Camera, avrebbero avuto tutti gli
strumenti conoscitivi. Basterebbe infatti che, relativamente alla
proliferazione dei cinghiali in Italia, i parlamentari avessero letto la
relazione scientifica proposta in audizione alla Camera qualche mese fa dal
Andrea Mazzatenta, uno dei massimi esperti a livello europeo di fauna
selvatica.
La motivazione, blandita a giustificazione di questo
provvedimento, e di tutta una campagna mediatica e politica che è in corso da
anni, sarebbe quella della sicurezza. Ma è noto che un conto è la “percezione
di insicurezza” che possono avvertire le persone, altra è la fattualità reale
di situazioni in cui la sicurezza non è garantita.
Allora verrebbe da chiedersi per primo, se a livello di
percezione, sia più pericoloso avvistare uno o più cinghiali, o trovarsi a
convivere nello stesso condominio con dei vicini che, per il fatto di andare a
caccia, hanno un armadio di fucili e munizioni nello sgabuzzino.
A Fabriano, nelle Marche, capita spesso che qualche
cinghiale si aggiri in città, considerato che è a ridosso di un territorio
montano e boschivo. Però poi, in questa città, le Forze dell’Ordine, qualche
settimana fa, intervenute a “rasserenare” la più classica delle liti
condominiali, per ragioni di precauzione e sicurezza, hanno sequestrato tutto
l’armamentario di caccia che uno dei condomini un po’ irascibile, deteneva in
casa.
Ma il tema di fondo politico è questo: come mai
una minoranza estrema di cittadini italiani, circa settecentomila (in
progressiva e costante diminuzione, oltre che di età media molto
alta), che praticano la caccia, ha da sempre un’influenza così forte e
incisiva sulla politica? Sia quella nazionale, che quella territoriale. E
che copre tutto l’arco costituzionale, dall’estrema destra all’estrema
sinistra, fatta eccezione per i Verdi (non a caso, all’emendamento Foti, non
sono seguite proteste, tranne quelle di Angelo Bonelli; l’ex-missino di
Piacenza, in fondo, con la sua iniziativa notturna, ha fatto un piacere quasi a
tutti).
Un condizionamento così forte, che ogni tentativo di
iniziativa referendaria per l’abrogazione della legge che regola la caccia, è
sempre fallito. Sia per il mancato raggiungimento del quorum nei
Referendum del 1990 e 1997, sia per la mancata raccolta delle firma necessarie
per un nuovo referendum nel 2021.
Tra l’altro, questa attività che molti, forzosamente,
qualificano anche come sportiva e ricreativa, nel corso degli anni ha perso
rovinosamente iscritti; tanto che, per fare un esempio, la Giunta di destra
della Regione Marche (dove vivo), tra le prime iniziative assunte all’indomani
del suo insediamento nel 2020, è stata quella di esonerare i nuovi giovani
cacciatori dal versare per i primi due anni la tassa di concessione regionale
(l’età media dei cacciatori nelle Marche è oltre i sessantacinque anni).
Come mai allora la politica è così supina alla
categoria dei cacciatori e alle loro potenti associazioni? Quelle riconosciute
sono sette (come le “sorelle” multinazionali del petrolio): Federcaccia, ANUU, Libera
Caccia, Enalcaccia, Arci Caccia (“i compagni della natura” recita il logo,
buffo no?!), Italcaccia e Ente Produttori Selvaggina.
Di certo la caccia non è una attività per poveri, di
chi per condizioni di indigenza è costretto a trovare espedienti per mangiare,
ma il suo esercizio annuale è molto costoso per ogni cacciatore.
Da uno studio dell’Università “Carlo Bo” di Urbino,
commissionato dall’Anpam (associazione nazionale produttori armi e munizioni),
affiliata di Confindustria, ultimo dato del 2019, la spesa totale
sostenuta ogni anno dai cacciatori ammonta a 2.816.971.170 euro comprese armi e
munizioni. Nello specifico sono state considerate le seguenti voci di spesa:
armi (quota ammortamento), munizioni, abbigliamento, cani (acquisto,
mantenimento, veterinari, ecc..), accessori (es.: richiami, buffetteria,
coltelli, GPS), kit pulizia arma, tasse e concessioni, trasferimenti in Italia,
pernottamenti e viaggi all’estero, piccoli consumi (pranzi, bar, ecc.).
Considerato poi l’indotto generato, stimato in 2.388.595.266 euro, si arriva a
5.205.566.436 euro; all’incirca lo 0,4 del PIL italiano.
Sempre secondo l’Università, il numero totale di
addetti attivati dalla caccia, sia per prodotti che per servizi, è pari a
36.826.
Considerato che nel 2019 i cacciatori erano di più,
circa 760.000, si può stimare che ogni cacciatore spenda mediamente quasi
4.000 euro all’anno per la sua “passione”.
La risposta quindi è molto semplice: la caccia è un
enorme business del nostro Paese. Per primo elettorale: i
voti dei cacciatori sono contesi da tutti gli aspiranti Deputati, Consiglieri
Regionali e Sindaci (e fino al 2013, prima dell’abolizione dell’elezione
diretta dei vertici dell’Ente, soprattutto dai Consiglieri Provinciali, in
quanto l’attività venatoria era una delle funzioni più importanti esercitate
dalle Province). Ed in molti casi, non è scandaloso e provocatorio parlare di
vero e proprio voto di scambio. Con passaggi di mano di contributi elettorali
non dichiarati, oltre che dei tradizionali “santini”.
Nell’indotto economico intorno alla caccia, vanno poi
considerati tutti i traffici più o meno leciti dell’allevamento dei cani da
caccia, e l’attività commerciale della ristorazione italiana (che in
particolare riguarda i cinghiali).
Relativamente poi ai cani da caccia, molte di queste
povere bestie, spesso finiscono nei canili (quando va bene), o peggio sotto una
macchina. Perché tanti di questi “grandi custodi della natura”, che si
dicono da soli essere i cacciatori, quando vedono che nella fase di addestramento
un cucciolo non è “capace” di fare il cane da cerca e riporto, lo
abbandonano senza tanti complimenti in mezzo alla strada, o ai bordi di
una zona rurale non abitata (a me è capitato di diverse volte di raccogliere
poveri cagnolini da caccia che vagavano senza meta affamati da giorni).
Ma la cosa più esilarante, rimane proprio il fatto che
i cacciatori si credono davvero una sorta di ambientalisti antelitteram,
che con il loro girovagare sparando in mezzo ai campi o ai boschi, fino
all’impallinare persone a ridosso delle abitazioni, monitorano il territorio e
si occupano della sua salvaguardia. Mentre invece, è lecito chiedersi se una
persona, non più vivente nel Paleolitico (in cui non erano state ancora
inventate l’agricoltura e l’allevamento), ma nell’Antropocene, che si sveglia
di notte per andare a sparare a delle creature viventi per puro divertimento (o
come dicono “per passione”), sottraendo molto tempo alle relazioni familiari e
amicali, possa essere un individuo con seri disturbi della personalità, di cui
dovrebbe prendersi cura i servizi sociali territoriali. Mettendo a serio
repentaglio per primo la propria vita, e quella degli altri. Ogni stagione
venatoria, infatti, sono molti gli incidenti di caccia, in cui il più
delle volte i cacciatori si “fucilano” tra di loro, o che sparano ferendo anche
mortalmente persone che non c’entrano niente, che si trovano per caso, o per
residenza, nei paraggi delle loro battute di caccia. I dati dell’Associazione
Nazionale Vittime della Caccia (e già, in Italia, dopo le associazioni di
vittime di stragi, terrorismo e mafia, abbiamo anche questa…) ci certificano
che solo nella stagione venatoria 2021/2022, ci sono stati 24 morti (di
cui 12 non cacciatori) e 66 feriti (di cui 23 non cacciatori).
Immaginate cosa potrebbe diventare questo tragico
bollettino, quando la caccia al cinghiale, come approvato nel testo della Legge
Finanziaria il 24 dicembre, verrà aperta tutto l’anno, anche nelle zone urbane
abitate e nelle Aree Protette (dove per attività diverse del tempo libero,
circolano tantissime persone, con tanti bambini).
Proprio nelle Marche, nel fermano, qualche giorno prima
di Natale, un anziano cacciatore è stato ucciso da un proiettile vagante,
partito durante la battuta dalla sua squadra di “cinghialari”, in cui era
presente anche il figlio. Ma già l’anno scorso, a Camerino, il 2 dicembre è
stata sfiorata la tragedia, quando un proiettile vagante partito da una
carabina per cinghiali, ha colpito uno scuolabus che stava portando a casa i
bambini dalla scuola.
Un proiettile da carabina per cinghiali, qualora non
dovesse centrare il bersaglio diventando vagante, ha una gittata di
qualche chilometro; e le battute di caccia, vengono effettuate da squadre di
cacciatori formate da più di venti elementi, che si muovono tutti assieme
contemporaneamente come un reparto militare. Figuratevi lo scenario.
Nelle squadre di “cinghialari”, ci sono tante persone
equilibrate, ma anche altrettante socialmente disturbate, spesso anche
minacciose e intimidatorie (durante la mia esperienza di Consigliere della
Provincia di Ancona dal 2007 al 2012, ho avuto modo di conoscere questo mondo
molto bene). Persone che magari la sera prima si frequentano a una cena di
un club filantropico o a teatro, e che poi, il mattino
dopo, finita la battuta di caccia, si ritrovano a compiere, con le
carcasse dei cinghiali abbattuti, sanguinolenti riti scaramantici, tipici delle
primitive comunità precolombiane del Centramerica (basta entrare in qualche
pagina o gruppo Facebook di cacciatori, per vedere foto e video agghiaccianti,
postati per autoesaltazione; ma anche i profili personali abbondano di immagini
agghiaccianti).
Ricordo di aver conosciuto un tranquillo, diligente, ed
educato funzionario di banca, che poi, appena dismesse giacca e cravatta,
diventava un esaltato cacciatore di giorno, e anche bracconiere di notte.
Le squadre sono molto “pittoresche” anche nelle loro
denominazioni: storiche, mitologiche, politiche. Ad esempio, una si chiama
“Aquila Nera”; considerato che in natura l’aquila non è nera, ma nella
simbologia politica è nera quella sulla bandiera della Repubblica Sociale
Italiana, si possono fare delle riflessioni.
Rispetto a quella ai volatili, la caccia al cinghiale è
un business più forte, per movimentazione elettorale ed economica. Il
cinghiale “rende”. A tutti. Ai politici, ai cacciatori, ai ristoratori (ai
quali le carni arrivano il più delle volte a seguito di scrupolosi controlli
sanitari, ma anche “sottobanco”). Più cinghiali ci sono, meglio è. Tanto
che questo, fa saldare innaturali e pessime alleanze tra associazioni venatorie
e organizzazioni agricole. Riguardo proprio all’emendamento approvato nella
Manovra, immediatamente sono usciti i comunicati stampa di plauso al Governo
sia da parte di Coldiretti, che della CIA. Dino Scanavino, che è stato il
Presidente Nazionale della CIA fino alla primavera 2022, in un’intervista
rilasciata a un quotidiano nazionale nel 2021, avanzò persino la proposta di
concedere una sorta di gettone/indennità statale ai cacciatori, per il loro
encomiabile impegno di difensori dell’agricoltura italiana.
È provato che spesso sono stati, e sono, gli stessi
cacciatori a immettere di nascosto nottetempo esemplari di cinghiali nei
territori, ai fini della loro biologica moltiplicazione per l’attività di
caccia. E i capi immessi, sono spesso frutto di incroci con i suinidi,
provengono dall’Est Europa, e non hanno zoologicamente niente a che fare con il
cinghiale autoctono dell’Appennino italiano; che pesa da adulto meno di un
quintale, mentre nei nostri territori, spesso oramai vengono avvistati e
abbattuti capi che pesano oltre i due quintali.
Clamorosa è la storia della zona del Parco del Monte
Conero, nelle Marche. Lì il cinghiale non è mai stato una specie autoctona, ma
ora è diventato predominante perché immesso dai cacciatori anni fa ai fini
dell’esercizio venatorio, prima ancora che fosse istituita l’area protetta
regionale.
Paradossalmente l’unica misura seria ed efficace per
diminuire la proliferazione dei cinghiali, sarebbe l’abolizione della caccia.
Ma ci sono per primo, specie in Europa, esperienze che non ricorrono alle
carabine, ma alla scienza.
Il cinghiale non è poi così stupido. In zone dove
l’attività di caccia viene intensificata di molto, oppure se in quel territorio
mutano per antropizzazione, le caratteristiche naturali del paesaggio, gli
ungulati si spostano e migrano in altre zone.
Nel fabrianese, nelle Marche, la realizzazione del
raddoppio della superstrada 76 (il cosiddetto progetto Quadrilatero), in quasi
vent’anni di lavori ha occupato ampie zone boschive e rurali con enormi
cantieri rumorosi, illuminati a giorno anche di notte, e le nuove arterie
stradali hanno ridotto di molto il paesaggio naturale. Qui si è potuto
constatare che questi processi hanno indotto la fauna selvatica a spostarsi da
alcune zone in altre più tranquille, dove in precedenza c’era molta meno
presenza di popolazione animale. E la riduzione di paesaggio naturale, ha
significato anche una minor quantità di acqua e di cibo, tanto che i cinghiali
da anni si sono spinti per fame all’interno della zona urbana della città di
Fabriano (se poi, come è avvenuto per anni, in quella città, il ciclo della
raccolta differenziata, viene organizzato con i sacchetti messi fuori i portoni
per tutta la notte, è come se gli ungulati avessero a disposizione un servizio
ristorazione take away…)
Altra balla che è stata raccontata in questi giorni, in
cui i cinghiali sono stati i veri protagonisti della Manovra di Bilancio, è che
nelle Aree Protette (parchi e riserve) non c’è alcun controllo delle
popolazioni della fauna selvatica, a partire dal cinghiale. Mentre, al
contrario, nella stragrande maggioranza dei parchi, sono anni che vengono
attuati piani di selezione, con abbattimenti programmati e fatti da agenti
della Polizia Provinciale, o da singoli selecontrollori altamente formati. Ma
questi soggetti, differentemente dalle squadre dei cinghialari, che ora si
vorrebbero impiegare anche in città tutto l’anno, non creano né molto business economico,
né tantomeno elettorale.
Da anni, ad esempio, nel Parco Naturale Regionale della
Gola della Rossa e di Frasassi, centinaia di abbattimenti selettivi annui,
vengono addirittura effettuati con cartucce “ecologiche” senza piombo, in
quanto poi le carni debitamente controllate a livello sanitario, vengono messe
sul mercato; ed è dimostrato che il piombo delle cartucce, altamente nocivo,
rilascia nella carne del cinghiale un certo livello di tossicità per la salute
umana.
Che fare, allora, di fronte a questo scenario, e nei
prossimi 120 giorni, tempo dalla “bollinatura” della Legge Finanziaria in cui
il Ministero della Sicurezza Energetica (già dell’Ambiente e della
Transizione Ecologica) dovrà trasformare in atti e procedure l’indirizzo
votato? Considerato che secondo un sondaggio commissionato a EMG Different
nel febbraio 2022, il 76 per cento degli italiani vorrebbe l’abolizione della
caccia, credo che debba essere lanciata una grande campagna di mobilitazione
civile, individuale e collettiva, che metta in pratica alcuni principi e metodi
della disobbedienza civile non violenta.
Non ci sono più le condizioni per far conto sulla
politica, né tantomeno sul successo di nuove iniziative referendarie.
Le associazioni ambientaliste e animaliste per prime,
dovrebbero promuovere tra le persone, chiedendo un piccolo impegno concreto,
una campagna civile il cui slogan potrebbe essere, parafrasando un vecchio
slogan: “Conosci un cacciatore? Digli di smettere”.
Si, perché ognuno di noi conosce almeno un
cacciatore. Molto spesso è una persona che quotidianamente ci troviamo accanto:
un parente, un amico, un collega di lavoro, quello con cui si scambia una
battuta la mattina al bar o il pomeriggio in palestra; l’artigiano che viene a
fare una riparazione a casa, il meccanico, il farmacista o il medico curante.
Insomma, ci siamo capiti.
Verso queste persone che conosciamo, con educazione e
rispetto, facciamo un’azione di moral dissuasion, cercando di
metterle in contraddizione e a disagio per l’essere cacciatori; di farle
esporre imbarazzate in un ambiente sociale (tipo al bar: “ciao Mario, ma ancora
vai a caccia a sparare a delle creature viventi? Ma non provi un po’ di
imbarazzo e vergogna?”).
Intervenendo sui social su notizie
che riguardano la caccia, senza essere violenti verbalmente o offensivi, ma assertivi
ed educati al tempo stesso (di solito si aspettano gli insulti, anzi se li
cercano, sorprendiamoli con un altro stile).
Tanto più poi se sappiamo che questa persona è
religiosa, e frequenta la Chiesa: “ma davvero vai in giro a sparare agli abitanti
del Creato? Come fai a pregare San Francesco e nostro Signore?”
Un’azione lenta, dolce, che porti a far sentire queste
persone dei disadattati, di cui non si ha piacere nell’incontrarli o nel
doverli frequentare, e disagio nel conviverci sul posto di lavoro o in altre
dinamiche relazionali.
Dopotutto, non è una missione impossibile, sono solo
settecentomila.
Altra azione molto concreta, riguarda il boicottaggio
economico e gastronomico: ciascuno, anche non necessariamente vegetariano
e vegano, scelga di non essere cliente di ristoranti che servono nei loro menù
piatti a base di selvaggina; chiediamo, quando prenotiamo un tavolo, se servono
o meno selvaggina. Facciamo, a partire dal luogo di residenza, per ogni
Comune d’Italia, una black list dei ristoranti che servono
selvaggina, e facciamola circolare sui social e sulle chat.
Molte campagne civili, per conquiste di diritti, e per
l’eliminazione di discriminazioni, che hanno avuto successo nella Storia, sono
iniziate proprio con piccoli gesti individuali di boicottaggio. Perché non
dovrebbe funzionare anche con i cacciatori?
*pubblicato su comune-info.net il 30 dicembre 2022
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